domenica 13 dicembre 2020

La politica in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Nella mia vita l'interesse per la politica è apparso raramente, e in quei periodi sporadici, non ci ho trovato mai gran che di particolarmente appassionante. Certamente è una scienza importantissima, necessaria e determinante per far sì che nazioni singole o comunità nazionali possano essere amministrate nel miglior modo possibile. Ritengo che quello del politico sia un mestiere richiedente una preparazione specifica; non credo, in questo campo come in tanti altri, che l'improvvisazione sia possibile per ottenere risultati decenti. Passando al contenuto di questo post, penso che nella politica ci sia ben poca poesia, e questi versi che ho scelto lo stanno a dimostrare. Sono preponderanti, infatti, brevi poesie o epigrammi che esternano disillusione, aspre critiche, sentenze ironiche nonché sarcastiche. Però non manca qualche anima appassionata, che palesa la sua fede onesta e sincera. Per fortuna anche in politica, tra tanti megalomani, farabutti, opportunisti e furbetti, si trovano ancora persone serie, che sono guidate da una passione vera, che credono nei fondamentali e imprescindibili valori della democrazia e che andrebbero sempre riconosciuti e premiati.

 

LA POLITICA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

MARX ED ENGELS IERI ED OGGI

di Alfonso Berardinelli (1943)

 

Chiamiamo comunismo

il movimento reale

che abolisce lo stato di cose

presente.

Chiamiamo stato di cose

presente

il movimento reale

che abolisce il comunismo.

 

(da "L'inconscio politico. 36 poesie su commissione", Castelvecchi, Roma 1998, p. 12)

 

 

 

 

I MINISTRI

di Paolo Buzzi (1874-1956)

 

A colpi di fischi e di sistri

noi, poeti, vi spazzeremo, o Farisei sinistri!

 

(da "Popolo canta così!", Facchi, Milano 1920, p. 230)

 

 

 

 

POETI SOCIALISTI

di Adriano Guerrini (1923-1986)

 

Poeti socialisti, il vostro cuore

deciso ma turbato, il vostro verso

malcerto ma sottile, ci ricordano

cose lontane: i secoli d'argento,

Commodiano, Boezio.

 

Siamo anche noi con voi, con la giustizia,

con la storia; e altrimenti non possiamo:

uno solo è il cammino dei poeti.

Ma il fiume della storia a noi ha dato

lo sguardo calmo e assorto.

 

Noi senza miti, noi che non diremo:

«Dopo i poeti, i soldati ed i borghesi,

siamo infine i fedeli esecutori

delle leggi», noi, solo, umanamente,

per la legge del meglio.

 

Siamo con voi. Ma siamo ancora prima

di voi, con chi parlava antiche lingue

o cantava la sera al trotto lento

del postiglione; e siamo anche già dopo,

quando si dirà «allora».

 

(da "Poesie politiche", All'Insegna del Pesce d'Oro", Milano 1976, p. 15)

 

 

 

 

DALL'INTERNO

di Valerio Magrelli (1957)

 

La funzione profilattica

del linguaggio politico

consiste nell'impedire un contatto

diretto tra le cose. Grazie allo

sviluppo dei nuovi materiali,

il codice è oramai ridotto a un velo

impercettibile (starei per dire inconsutile),

che fa sentire tutto

dove non passa niente.

 

(da "Didascalie per la lettura di un giornale", Einaudi, Torino 1999, p. 11)

 

 

 

 

AD ALCUNI RADICALI

di Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

 

Lo spirito, la dignità mondana,

   l’intelligente arrivismo, l’eleganza,

l’abito all’inglese e la battuta francese,

   il giudizio tanto più duro quanto più liberale,

la sostituzione della ragione alla pietà,

   la vita come scommessa da perdere da signori,

vi hanno impedito di sapere chi siete:

   coscienze serve della norma e del capitale.

 

(da "Poesia italiana del Novecento", Garzanti, Milano 1992, vol. II, p. 871)

 

 

 

 

POLITICA ESTERA

di Giovanni Raboni (1932-2004)

 

Chi parla ha da dire

le cose che dice e forse no

o forse altre. Ma è un fatto che chi tace

lascia che tutto gli succeda e quel ch'è peggio

lascia che quello che hanno fatto a lui lo facciano

a qualcun altro.

 

(da "Epigrammi italiani", Einaudi, Toino 2001, p. 354)

 

 

 

 

SOGNO DI UN ATTIVISTA POLITICO

di Nelo Risi (1920-2015)

 

All'alba sono venute a prendermi le guardie

del Papa per trarmi in giudizio. Con le mazze

hanno abbattuto la porta dell'alloggio.

- Non è possibile, ho detto, ci deve essere

un errore, non è più il tempo del Santo Uffizio.

Uno esibì una bolla, me la fecero ingoiare

pergamena piombi e tutto. Così forte

la loro intimazione che mi svegliai di botto.

Battevano alla porta, era la polizia con un mandato.

 

[da "Di certe cose (poesie 1953-2005)", Mondadori, Milano 2006, p. 127]

 

 

 

 

OPICINA 1947

di Umberto Saba (1883-1957)

 

Risalii quest’estate ad Opicina.

Era con me un ragazzo comunista.

Tito sui muri s’iscriveva, in vista,

sotto, della mia bianca cittadina.

 

Nell’ora dei ricordi vespertina

Sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista,

oggi, se penso quella camerista

che ci servì con volto d’assassina.

 

Due vecchie ebree, testarde villeggianti,

io, quel ragazzo, parlavamo ancora

lassù italiano, tra i sassi e l’abete.

 

«Dopo il nero fascista il nero prete;

questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora –

diceva il mio compagno – aver rimpianti?»

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 562)

 

 

 

 

UN SOCIALISTA

di Luigi Siciliani (1881-1925)

 

Popolo, molto tu soffri: io tutti i tuoi mali ho nel cuore.

  Per dissiparli, voglio, popolo mio, godere.

 

(da "Corona", Modes, Roma 1907, p. 34)

 

 

 

 

DOROTEO

di Saverio Vollaro (1922-1986)

 

Uncini, addome scudato

con disegni di croci.

Nessuno sa dov'è nato,

nei materassi d'un curato,

dopo un uragano

di quelli che sfondano

e lavano la campagna

e poi viene una minuta folla

di creature senza amore, al limite

tra il ragno, la moschetta

e il fiore.

 

Ha poche giunture

solo per qualche genuflessione (però

prega meno di noi),

barba, niente cerone,

colorito di natura, verso il pallido,

leggermente renale, di gallina sotto sforzo.

 

Misogino, misurato e ministro,

sorride come una paletta al sole,

si chiama Doroteo,

ama l'agricoltura.

 

(da "Poesia satirica nell'Italia d'oggi", Guanda, Parma 1964, pp. 207-208)

 

"Inaugurazione della XXI Legislatura del Regno d'Italia,
da "La Domenica del Corriere" del 24 giugno 1900
(da questa pagina web)




mercoledì 9 dicembre 2020

Gli amici

 

Questa poesia è stata scritta da Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) e fa parte del volume I fantasmi di pietra, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1977. Più precisamente è la sessantottesima e terzultima poesia di detto libro, e si trova a pagina 87. È la triste constatazione, da parte del poeta, di essere stato tradito da coloro che si definivano o che lui stesso pensava fossero amici. L'occasione che dimostra il tradimento, reale o simbolica che sia, è una promessa non mantenuta: Vigolo ha visto questi falsi amici allontanarsi da lui non prima di averlo rassicurato sul fatto che sarebbero tornati presto, e lo avrebbero portato con loro. Il poeta ha atteso ore ed ore con la speranza di vederne tornare almeno uno, ma nulla è avvenuto. La parte finale della poesia è ancora più amara, ed esprime in modo chiaro una fortissima sensazione di solitudine che prova il protagonista di questa spiacevole vicenda, il quale ha la netta impressione di essere già morto, perché ormai nessuno si ricorda più della sua presenza, della sua esistenza stessa: si sente come se tutti gli esseri umani si siano definitivamente dimenticati di lui, lasciandolo così nella più completa desolazione interiore.

 



 

   Gli amici mi avevano detto:

Aspettaci qui, torneremo a prenderti.

E io solo ad aspettare

un'ora, due ore.

Si fa notte: gli amici

si sono scordati: non vengono più.

 

  Stai lì solo,

terribilmente solo.

Ecco cosa vuol dire essere morti;

si scordano di passare a riprenderti.


 

  

domenica 6 dicembre 2020

La neve nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La neve nelle poesie dei simbolisti fa riferimento spesso ad una freddezza dell'anima, il manto nevoso rappresenta un aristocratico e tetro isolamento dal resto dell'umanità; il poeta, chiuso nel suo mondo sognante, intende frapporre tra sè ed il resto del mondo un folto strato di materia fredda sì da evitare qualsivoglia contatto umano. Ma a volte la neve ha tutt'altro significato, e ben più terribile: essa, insieme al freddo che invade ogni luogo circostante, è un chiaro presentimento di morte; infatti, nelle descrizioni di diversi poeti, il paesaggio è desolato, e si notano soltanto delle figure alquanto fosche (carri funebri, corvi, fantasmi...) che contribuiscono in modo netto a rendere l'anima del poeta spaurita, sconfortata e triste. In altri casi la neve, in quanto bianca, si ricollega ai simboli di purezza e sincerità, che riportano nella memoria dei poeti il felice periodo infantile.

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "La sonata nella neve" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Diego Angeli: "Giorno d'inverno a Lunghezza" in "La città di Vita" (1896).

Diego Angeli: "La madonna della neve" in «Il Marzocco», ottobre 1897.

Giovanni Camerana: "Folta è la neve" in "Poesie" (1968).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Neve" in "Poesie" (1912).

Sergio Corazzini: "Sonetto della neve" in "Le aureole" (1905).

Guglielmo Felice Damiani: "Idillio fugace" in "Lira spezzata" (1912).

Giuliano Donati Pétteni: "Neve" in "Intimità" (1926).

Augusto Ferrero: "Fantasma invernale" in "Nostalgie d'amore" (1893).

Aldo Fumagalli: "La canzone mistica" in "Arcate" (1913).

Diego Garoglio: "Città sotto la neve" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Giulio Gianelli: "Prima neve" in "Mentre l'esilio dura" (1904).

Giacomo Gigli: "In Siberia" in "Maggiolata" (1904).

Emilio Girardini: "Nevicata" in "Chordae cordis" (1920).

Corrado Govoni "La neve" in "Gli aborti" (1907).

Luigi Gualdo: "Paesaggio" in "Le Nostalgie" (1883).

Olindo Malagodi: "Vette di neve" in "Poesie vecchie e nuove" (1928).

Nicola Marchese: "Nivale" in "Le Liriche" (1911).

Nino Oxilia: "Ha nevicato..." in "Canti brevi" (1909).

Giovanni Pascoli: "Orfano" e "Nevicata" in "Myricae" (1900).

Antonio Rubino: "Neve sotto la luna" in "Versi e disegni" (1911).

Giovanni Tecchio: "Neve" in "Canti" (1931).

 

 


Testi

 

LA CANZONE MISTICA

di Aldo Fumagalli

 

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Ne la piazza, nessuno: i tronchi spogli

Che vegliano ne l'aria immota e scura.

La basilica antica, sotto il velo

È bianca e impallidisce il suo profilo...

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Un mendìco vicino a la colonna

Sembra una macchia nera, sul terreno...

 

Chi s'avanza lontano? Dei cavalli

Neri, di sogno; non han ferri e muti

Camminano e non toccano la terra...

E dietro un carro nero ed una bara.

Passa quel morto su la bianca neve

Passa la gente nera, nera, nera.

Tace la piazza avvolta nel suo velo;

Non un ramo si move intorno ai tronchi,

Ed il vento non agita la neve...

 

La bara avanza lenta, grave, nera,

E non sembra passare, tanto è lungo

Il cammino che corre presso i tronchi.

Nevica: bianca neve su la neve

in un silenzio mistico e solenne.

 

(da "Arcate")

 

 

 

 

NEVICATA

di Emilio Girardini

 

Il paesaggio interminato stanca:

una pianura immersa ne la neve

con il mulino a vento ed una pieve

ne la monotonia de l'aria bianca.

 

Nevica ancora e mandano singhiozzi

soffocati nel cuore i miei ricordi;

somigliano, o campana, ai suoni sordi

che tu, di neve rivestita, strozzi.

 

In una solitudine lontana

e, come questa, senza tracce, danno

i ricordi nel cuor, cinto di panno,

spenti rintocchi, come i tuoi, campana.

 

Pure il cielo solcar qualche pensiero

mio tardo vedo, come la pianura,

tutta bianca d'un bianco che spaura,

vede passare qualche corvo nero.

 

(da "Chordae cordis")



Claude Monet, "Snow at Argenteuil"
(da questa pagina web)


mercoledì 2 dicembre 2020

Imbruna...

 

Imbruna; e di già l'ombra nella stanza

Incurva l'ala su 'na bianca fronte:

Tu siedi, e vegli in cuore una speranza.

 

Tendi l'orecchio in vano: alcun rumore

Non s'ode; il chioccolìo del fonte

Ti schernisce fra risa alte e canore.

 

Scoppietta la lucerna in sul mancare...

Com'è dolente e triste l'aspettare!

 



 

Questo madrigale è di Severino Ferrari (Molinella 1856 - Pistoia 1905) e l'ho trascritto dal volume Tutte le poesie (Cappelli, Rocca San Casciano 1966) che comprende l'intera opera in versi del poeta emiliano. Il titolo è fittizio, come si può notare nel libro citato, dove lo si trova a pagina 214, alla sottosezione intitolata Amore di Versi raccolti ordinati [1892], ovvero la sezione che riporta le poesie del volume Versi raccolti ordinati. Il Mago, pubblicato dall'editore Sarasino di Modena nel 1892. Apparve per la prima volta nel libriccino Il secondo libro di Bordatini, che uscì a Firenze nel 1886; qui si trova, sempre senza titolo, alla pagina 24. Protagonista della breve poesia è un personaggio femminile - ragazza o donna - che si trova nella stanza di una casa nel momento in cui la giornata sta per concludersi e cominciano a calare le ombre della sera; lei è sola e sta aspettando l'arrivo di qualcuno. Attenta, aguzza gli orecchi per ascoltare un minimo rumore che possa indurla a sperare nell'arrivo di una persona che, evidentemente, sta aspettando da molto tempo; ma l'unico rumore che percepisce è quello dell'acqua della fontana che, cadendo, sembra schernirla e ridere di lei, quasi fosse una povera illusa. Altro rumore presente, tutt'altro che piacevole, è quello di una lucerna a petrolio che si sta lentamente spegnendo e che, per tale motivo, emette degli scoppiettii; questi ultimi, insieme all'acqua che chioccola senza tregua, contribuiscono a rendere la lunga attesa della donna ancor più angosciante e triste.

domenica 29 novembre 2020

"Medusa" di Arturo Graf

 

Non considerando, per la marginalità che la caratterizza, una sua raccolta giovanile, si può benissimo affermare che Medusa sia la prima e più importante opera poetica di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913). Uscì per la prima volta nel 1880, presso l'editore Loescher di Torino; ebbe una seconda edizione l'anno dopo, e una definitiva pubblicazione nel 1890 - sempre grazie al medesimo editore - che si arricchisce di molti testi poetici e di alcuni disegni dell'artista Carlo Chessa.

A proposito di questa raccolta, che personalmente ritengo sia la migliore del Graf, ecco un frammento pertinente scritto dall'illustre critico Luigi Baldacci, all'interno dell'antologia Poeti minori dell'Ottocento:

 

[...] Si è detto che le fonti del Graf devono essere individuate nei romantici tedeschi e in Leopardi: già per questo il suo esempio doveva restare isolato nell'ambito del proprio tempo e di conseguenza mal compreso. Ma l'accusa crociana di riflessione¹ è sproporzionata alla natura del Graf, e il suo stesso leopardismo, anziché ragionato nel segno del mito o dell'incatenante sillogismo, ci appare piuttosto filtrato attraverso le esperienze del Parnasse: cioè tragicamente intuito, anziché razionalmente dimostrato, e soprattutto affidato all'evidenza di una pittura immaginifica e talora scenografica (Baudelaire, Leconte de Lisle). Così al mito si sostituisce il simbolo, secondo una variazione decadentistica di quelle che potevano anche essere remote autorizzazioni leopardiane².

 

Ciò che emerge nei versi di Medusa è, quindi, un leopardismo contaminato dall'irrazionalità e dall'istintività propri di determinate correnti letterarie come il simbolismo e il decadentismo. E proprio a proposito di queste ultime, in un altro frammento significativo di Anna Dolfi, ovvero della curatrice della più recente riedizione di Medusa pubblicata cento anni dopo la definitiva (Mucchi, Modena 1990), dopo aver dimostrato che l'acuta disperazione esistenziale del poeta è attenuata soltanto da un'intima introspezione, si mette in risalto una delle caratteristiche fondamentali dei versi di questa raccolta: l'assidua presenza dell'acqua:

 

[...] Si arricchiva così, in questa possibilità, sia pur unica di salvezza, anche il topos dell'acqua, certo acqua nera dell'ultimo viaggio sul mare, ma anche acqua bianca di lago, acqua non solo della dispersione ma dell'effettuato o sognato annegamento, quasi acqua del primo specchio cui avevano teso Ofelia e Narciso nel tentativo vano di riappropriarsi di sé. L'acqua non sarà allora solcata soltanto da imbarcazioni mortuarie (il viaggio grafiano, d'altronde, è spesso, più che una simbolizzazione della morte, un'allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale), da navi guidate da vecchi marinai che ripetono senza sosta il mito dell'eterno non ritorno; sarà anche l'acqua/specchio/vetro capace di riportare alle origini attraverso le immagini catottriche che enigmaticamente risvegliano il passato trasmettendone i lontani lamenti. Sia pur facendo di quel passato di nuovo un regno di morti, ridestato attimalmente alla vita nell'«acqua cheta» di antiche specchiere («Come un'acqua cheta si riflette la stanza: / Sembra ogni cosa diafana e leggera, / vision di sogno, baglior di rimembranza») e riconsegnato al nulla dopo la ritessitura momentanea degli arazzi, la ricomposizione dei colori trecenteschi delle cacce disperate, coinvolgenti anche dame e cavalieri³.

 

Medusa è composta da un totale di 163 poesie; a parte le prime due, tutte le altre sono racchiuse in tre sezioni: LIBRO PRIMO (1876-1879); LIBRO SECONDO (1880-1881); LIBRO TERZO (1882-1889). Concludo riportando tre fra le migliori poesie di questa formidabile raccolta, estratte dalla riedizione di trent'anni fa (vedi foto sotto).

 

 


 

ACQUA CHIARA...

 

Picciol lago, che in mezzo

a questa valle e a questi sassi enormi,

d’ignota vena ti raccogli e dormi

dell’alte querce e de’ grand’olmi al rezzo;

 

sul margin tuo che in giro

tutto verdeggia solitario io seggo;

la stanca fronte con la man mi reggo,

lo specchio di tue pure acque rimiro.

 

Primaticce vïole

e verde timo fan l’aria fragrante:

in te la bianca nuvoletta errante,

e dall’alto del ciel si guarda il sole.

 

Intorno a te nereggia

silenzïoso il bosco; dalla frasca

la secca foglia vagolando casca,

e lieve sulla cupa onda galleggia.

 

Tra ’l verde, in dolce rima,

un usignol la primavera canta:

passano l’ore e d’ombre il ciel s’ammanta,

splende la luna ai negri sassi in cima.

 

Acqua chiara e tranquilla,

sul tuo margine io seggo; il ciel sereno

veggo in te rispecchiarsi, e nel tuo seno

dagli occhi miei piove un’amara stilla.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 12-13)

 

 

 

 

IL VASCELLO FANTASMA

 

Io lo vidi, io lo vidi! un mar di piombo

senza voce, senz’onda: in occidente

il sol morente insanguinava il cielo,

le bige nubi lacerando a strombo.

 

Io lo vidi, io lo vidi! i cupi abissi

venia premendo, procedeva stanco,

l’enorme fianco arrotondava al sole,

pareva un mostro dell’Apocalissi.

 

Laggiù, guardate! In ogni parte sua

negro lo scafo; avviluppata e nera

una bandiera penzola da poppa,

bieca si drizza una Medusa a prua.

 

Splendon vestiti di lucenti lame

gli alberi smisurati; per le nere

cave troniere luccicano in doppia

fila i cannoni di color di rame.

 

A prora, a poppa, in cima agli alti fusti,

ai gran canapi, su, stanno ammucchiati,

stanno aggrappati i cento marinai,

estenuati, pallidi, vetusti.

 

Il capitan coi cento marinai,

scrutando il cielo, investigando il morto

pelago, un porto invan spïando, il porto

sempre invocato e non raggiunto mai.

 

Così l’alto vascel naviga ed erra,

e se talor la nebbia all’orizzonte

simula un monte, stanco ed affannato

si leva il grido: Terra, terra, terra!

 

Ma breve error gli spiriti soggioga:

si dilegua il fantasma: orrida e grave

la negra nave in suo cammin procede,

e la Speranza dietro a lei s’affoga.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 68-69)

 

 

Disegno di Carlo Chessa presente nella 3° edizione di Medusa, relativo alla poesia Il vascello fantasma

 

 

L’ABETE SOLITARIO

 

Dalla trachite eccelsa, vestito di gramaglia,

il solitario abete smisurato si scaglia

       siccome un dardo nel profondo ciel;

tutto solo dell’Alpe sulla pendente balza,

dove più furïosa la tramontana incalza,

       dove più morde nel silenzio il gel.

 

Sott’esso uno sgomento di traboccate rupi,

d’irte lacche; di baratri caliginosi e cupi,

       e un confuso di prone arbori stuol;

sopr’esso in luminoso giro l’etere immenso

e le nuvole bianche via per l’azzurro intenso

       e sfolgorante nell’azzurro il sol.

 

Lontan, nella bassura, il solitario abete

vede colli ubertosi, vede pianure liete

       di messi e d’acque, di paschi e di fior;

vede come sognando, e tra le selci ignude,

in sua triste gramaglia più rigido si chiude,

       muto, superbo, nell’alpino algor.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 194)

 

 

 

NOTE

1) Il celebre filosofo Benedetto Croce non lodò mai la poesia di Graf, così come un poeta che tutto sommato non si discostava molto dal suo intento poetico: Pompeo Bettini; fu proprio quest'ultimo che, in una rivista, etichettò in maniera negativa il Graf poeta, affermando, come riportò poi anche il Croce, che in esso dominava la "riflessione", ovvero un elemento identificabile in un bel difetto soltanto se si parla di prosa.

2) Dal volume: Poeti minori dell'Ottocento, Tomo I, Ricciardi, Napoli 1958, p. 1142.

3) Dal volume: Arturo Graf, Medusa, Mucchi Editore, Modena 1990, p. XVIII.

 

mercoledì 25 novembre 2020

Alba di novembre

 

Ai confini della città.

Quattro fanali dimenticati,

tutti soli e trasognati,

per la lunga strada vuota,

- due di qua due di là, -

sotto un cielo color di mota.

 

Su l'asfalto del pavimento

lustro come una cerata,

quattro sprazzi di livido argento.

 

Dentro l'aria addormentata

un lontano rotolamento

di carrozzone che se ne va.

 



 

Alba di novembre è il titolo di una poesia di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976); fu pubblicata come prima delle Canzonette milanesi, nella rivista La Diana del 25 novembre 1915; fu quindi inserita - col titolo più generico di Alba e con leggerissime varianti - nella prima sezione della raccolta Crisalide (Taddei, Ferrara 1919); successivamente ricomparve in tutte le raccolte ricapitolative dell'opera poetica di Valeri, fino alla definitiva Poesie (Mondadori, Milano 1962).

In questi versi del poeta veneto si ha una descrizione di visioni, sensazioni e impressioni, relative ad un'alba novembrina vissuta dal poeta stesso, in un luogo non ben precisato della periferia milanese. Ciò che focalizza l'attenzione di Valeri, in quel preciso momento della giornata, è la visione di quattro fanali situati in una zona isolata della città, ai margini di una strada deserta. Tale visione fa emergere l'estremo senso di solitudine che si respira in quel luogo abbandonato, ed anche un senso di malinconia, accentuato da quel "cielo color di mota", ovvero tra il grigio ed il marroncino, che si sovrappone e completa il paesaggio cittadino osservato dal poeta. Quindi, gli occhi di Valeri si indirizzano verso la parte più bassa di tale paesaggio, ossia il pavimento lucido come una tela cerata (probabilmente a causa della pioggia recente), e sui riflessi argentei della luce dei fanali, che somigliano a schizzi ("sprazzi") di argento freddo ("livido"), e che quindi contribuiscono non poco, in un contesto già assai desolato, ad aumentare la dose di rigidità che caratterizza quel preciso spazio. Chiude la poesia una percezione uditiva: il rumore lontano delle ruote di un carrozzone che si allontana, e che sembra quasi disturbare "l'aria addormentata" del luogo.