domenica 16 agosto 2020

La poesia di Sergio Solmi

Prima di tutto devo ammettere che, quando per la prima volta lessi alcune poesie di Sergio Solmi (Rieti 1899 - Milano 1981), trovate in una famosa antologia, non ne rimasi entusiasmato e non seppi riconoscere l'enorme talento di questo scrittore; probabilmente i miei gusti poetici di allora erano un po' diversi da quelli di oggi... di sicuro c'è che con gli anni ho cambiato decisamente la mia idea e il mio giudizio sulla poesia di Solmi, e, leggendo i suoi versi dopo diverso tempo, ho addirittura adorato certe poesie che inizialmente mi lasciavano del tutto indifferente. Oggi considero lo scrittore laziale tra i migliori poeti italiani del Novecento. Quel che mi sembra certo, è che la poesia di Solmi non possa essere definita facile, anche se risulta quasi del tutto estranea all'ermetismo: corrente poetica che ha caratterizzato maggiormente il periodo in cui lo scrittore reatino pubblicava le sue prime raccolte di versi. Alcuni illustri critici hanno parlato, giustamente, di echi leopardiani, ed in effetti non è poi così difficile rintracciarli in vari suoi versi; ma è pur vero che Solmi non s'ispirò soltanto al Leopardi, ed ebbe il merito di prendere il meglio da diversi poeti italiani a lui contemporanei, come Saba, Cardarelli, Sbarbaro, Montale ecc. In più seppe inserire qualcosa di suo, di estremamente meditativo, che il lettore può ben percepire. Il suo amore per la fantascienza, inoltre, fece in modo che nascessero veri e propri capolavori poetici, difficilmente eguagliabili e paragonabili ad altre poesie sul medesimo argomento, pur scritte da ottimi autori. Grandiosa poi è la sua capacità di descrivere paesaggi, monumenti o addirittura oggetti, inserendo una carica vitale spontanea e un amore tangibile per tutto ciò che esiste di bello in natura. Accanto al Solmi poeta va sicuramente ricordato il prosatore, il saggista e il traduttore. Per approfondire la sua conoscenza, occorre semplicemente leggere le Opere che la casa editrice Adelphi ha pubblicato in diversi volumi a partire dal 1983. Chiudo riportando l'elenco delle raccolte poetiche pubblicate da Sergio Solmi (a parte l'ultimo volume che uscì postumo) e quindi tre poesie che sono fra le mie preferite.

 

 

 Opere poetiche

 

"Fine di stagione", Carabba, Lanciano 1933.

"Poesie", Mondadori, Milano 1950.

"Levania e altre poesie", Mantovani, Milano 1956.

"Dal balcone", Mondadori, Milano 1968.

"Poesie complete", Adelphi, Milano 1974.

"Opere, I. Poesie e versioni poetiche", Adelphi, Milano 1983.

 

 



Testi


ALLA BRUMA

 

Alfine sei tornata, amica bruma!

Alle tue bigie folate m'arrendo

e mi ritrovo come in una patria,

lungi dal sole disastroso, dalla

nuda luce che odio. Come allevia

gli occhi feriti il tuo sfumato, morbido

alone. Come persuadi al giorno

l'umana, esatta misura, la forma

della casa, e discreta preannunci

lo studioso inverno. Come infondere

sai all'intera vita il molle indugio,

la stancata dolcezza, l'abbandono

del caro istante che precede il sonno.

 

(da "Opere, Volume I, tomo primo", p. 57)

 

 

 

 

 

FERMATA FACOLTATIVA

 

Va facendosi il mondo d'anno in anno

sempre più bello. Nel sole arretrando

s'addolcisce e si fa minuta ed intima

la strada cittadina, come il cavo

di due mani accostate, a rivelare

il prezioso accento d'una fronda

o un frammento d'azzurro, e il verde tram

sopraggiungendo fa d'ogni stagione

primavera.

                O tu lindo liscio nitido

mondo, i tuoi quieti rumori!

                                        Domani,

giunta di sua bellezza al colmo, forse

la fragile pellicola d'un tratto

schianterà lacerata? Sarà solo

l'immenso fiore di fumo di questa

nostra storia incendiata a sollevarsi

tremando contro un abolito cielo?

 

(da "Opere, Volume I, tomo primo", p. 69)

 

 

 

 

 

I LEONI

 

Urlavano i leoni nella notte,

gonfiavano nel buio, dardeggiavano

l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.

Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso

si stendeva la zampa imperiosa,

si stirava, graffiava l'impiantito.

Venne un giorno, scomparvero i leoni.

Non c'erano

alla stazione di Sovilla, sotto

le nuvole ronzanti, s'anche uscivano

dal gioco scomparendo

nel grano verde e i compagni, se presso

volavano i rametti al doppio colpo

lassù, dell'arboreo cecchino. 

                                         Non c'erano

più tardi,

nella città divampante, nei laghi

di fosforo, a filo

della pistola, nella gabbia cieca

del prigioniero.

                      Oggi che l'ombre

della sera s'infoltano, qualcosa

nel buio si rimuove, silenziosi

dall'infanzia ritornano i leoni?

Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo

cuore m'avvii, ridiscenda

sulla soglia, a incontrarli.

 

(da "Opere, Volume I, tomo primo", p. 71)

 

domenica 9 agosto 2020

Poeti dimenticati: Ernesto Ragazzoni

 Nacque ad Orta Novarese nel 1870 e morì a Torino nel 1920. Di famiglia benestante, dopo essersi diplomato lavorò per poco tempo come ragioniere e impiegato bancario; poco più che ventenne pubblicò il suo primo e unico libro di versi e, nello stesso periodo, incominciò a collaborare con giornali e riviste, scrivendo soprattutto prose. Agli albori del Novecento entrò in pianta stabile alla Stampa di Torino, e per questo giornale lavorò come corrispondente anche a Parigi e a Londra. Morì a soli cinquant'anni. Malgrado, anche in tempi recenti, siano stati pubblicati dei libri che contengono gran parte della sua opera poetica, ho voluto inserirlo ugualmente tra i poeti dimenticati, perché certamente, se non rientra oggi nella categoria, vi rientrava fino a poco tempo fa. I suoi esordi poetici, poco significativi, si rifanno al gusto tardo-ottocentesco; gli altri versi, pubblicati su varie riviste e riscoperti soltanto dopo la sua morte, mostrano accenti crepuscolari, che, pur partendo da una base d'ironia, spesso sfociano nel sarcasmo e nella comicità. Buone sono le sue traduzioni delle poesie di Edgar Allan Poe.


 


Opere poetiche

 

"Ombra", Tipografia Operaia, Novara 1891.

"Poesie", Chiantore, Torino 1927 (2° edizione, Martello, Milano 1956).

"Poesie e prose", Scheiwiller, Milano 1978.

"I bevitori di stelle e altre poesie", Scriptorius, Orta San Giulio 1997.

"Buchi nella sabbia e pagine invisibili. Poesie e prose", Einaudi, Torino 2000.

 

 

 

 

Presenze in antologie

 

"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 195-204).

"Così per gioco", a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 2001 (pp. 677-688).

"Torino Art Nouveau e Crepuscolare", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Crocetti, Milano 2006 (pp. 45-49).

"Poeti per Torino", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Viennepierre, Torino 2008 (pp. 39-41).

 

 

 

 

Testi

 

 

ROSE SFOGLIATE

 

Dal parco mi sento

venire a folate

un balsamo lento

di rose sfogliate,

 

un balsamo lento

perché già l’estate

declina, ed il vento

le rose ha sfogliate.

 

Ed ecco, a sembianza

d’un fiato di rose

sfogliate in distanza

mi giunge da ascose

 

memorie, fragranza

d’assai vecchie cose

siccome di rose

sfogliate in distanza.

 

(da "Buchi nella sabbia e pagine invisibili. Poesie e prose", p. 22)

 

 

 

 

IL MIO FUNERALE

 

Quando, uditemi amici, quando avvenga

che questa che mi rosica cirrosi

il fegato e dintorni m'abbia rosi,

come cirrosi fa che si convenga,

 

quando il medico, chiusa la sua cura,

ordinerà «portatelo pur via!»,

io voglio, per andar a casa mia

sottoterra, una magna sepoltura.

 

Ravvivatemi a tocchi di carmino

sapientemente la figura smunta;

questo fate, e indoratemi la punta

del naso e spruzzolatemi di vino

 

odoroso, che non m'abbia più l'aspetto

di un comune cadavere, e i capelli

fatemi tutti di vïola belli

e un non mai visto m'abbia cataletto.

 

Trascinino la mia spoglia mortale

sei porcellini tinti in verde e giallo

e Francesco Pastonchi, alto, a cavallo,

proclami «Che stupendo funerale!»

 

Cento musici in abito d'arconte

annunzino la mia corsa a Plutone

soffiando ampi venti di polmone

in cave corna di rinoceronte.

 

E cento bande strepitino poi

di strumenti impensati, impreveduti:

clisocorni, arcoflauti, fiascoimbuti,

trombicefali ed arpe-innaffiatoi.

 

Accorrano le turbe al pio passaggio

e a strilli, ad urla, a voci mozze e mezze,

si narrino le mie scelleratezze

e mi paia d'udire il lor linguaggio:

 

«Era il Gran Kan, il Padiscià degli orsi,

«Dei Bramini ridea, come di paria

«Era padrone di un castello in aria

«E si beveva il cielo in quattro sorsi

 

«Viveva nei più luridi angiporti...

«non aveva la testa troppo salda...

«Mangiava il cardo con la bagna calda

«di notte in compagnia di beccamorti.»

 

Infine sempre mi si tolga al sole

in una cripta, a un labirinto in fondo;

e tutti quanti i fior che sono al mondo,

tralci di rose, cespi di vïole,

 

effondano la loro primavera

fin giù nel buio delle mie caverne.

Ma siccome son io ch'ho da goderne,

i miei fiori piantateli in maniera

 

che le radici siano volte in alto

e le corolle sboccino sotterra...

Di sopra al sasso poi che mi rinserra

questa epigrafe scrivasi in ismalto:

 

«Qui giace ERNESTO RAGAZZONI D'ORTA

«nacque l'otto gennaio mille ed otto-

centosettanta» e sotto, questo motto:

«D'essere stato vivo non gl'importa».

 

(da "Buchi nella sabbia e pagine invisibili", pp. 149-151)

 

domenica 2 agosto 2020

La poesia di Rocco Scotellaro


Ricordo ancora la prima poesia che lessi di Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 - Portici 1953): faceva parte di una vecchissima antologia scolastica ed era assai breve. Da quei pochissimi versi sarcastici, duri, epigrafici, fui immediatamente attratto, intuendo di già il grande talento del poeta lucano. Ritrovai altre sue liriche in varie antologie poetiche, ma ci volle un bel po' di tempo affinché riuscissi ad acquistare il suo volume di versi più famoso: È fatto giorno. Ora, e sono passati già diversi anni dalla sua uscita, è possibile leggere un libro che raccoglie l'intero corpus poetico di Rocco Scotellaro. Questo poeta e questo politico (fu sindaco di Tricarico a soli ventitre anni) è stato ed è un personaggio atipico, di quelli che certamente lasciano il segno. Dopo la sua precoce dipartita, nelle terre dove nacque e visse divenne un mito. Il motivo di tale mitizzazione risiede nella sua breve, coraggiosa e intensa vita, che lo vide a fianco dei contadini del sud Italia - siamo nel secondo dopoguerra - che lottavano per sopravvivere e per avere un pezzo di terra da coltivare; allo stesso modo, Scotellaro sosteneva e incoraggiava i braccianti, i pastori e tutti coloro che vivevano in condizioni miserevoli soltanto perché nati nel meridione italiano. E il poeta lucano dovette subire anche un periodo di carcere, pur essendo innocente, perché accusato di peculato. Uscito di galera, Scotellaro, probabilmente perché amareggiato dalle ingiustizie subite, lasciò definitivamente la politica, ma non la scrittura, e in particolare la poesia (gli ultimi suoi versi risalgono a poche ore prima della morte). Ma accanto all'impegno politico, Scotellaro riuscì a stupire i lettori per la palpabile passione con cui riusciva a descrivere le bellezze naturali delle terre dove visse, così come l'altrettanta bellezza delle anime che ivi incontrava: povera gente, semplice, troppo spesso votata al sacrificio. Rileggere oggi i suoi versi significa rituffarsi in una realtà ormai lontana, è vero, ma che possiede un fascino arcano, forse dovuto ad una genuinità in gran parte perduta, o forse all'ingenuità di certe figure definitivamente scomparse. Non a caso, il primo che scoprì e che commentò con toni entusiastici i suoi versi (che uscirono postumi) fu Arrigo Levi, ovvero l'autore del romanzo Cristo si è fermato a Eboli, che trasporta nella prosa quel mondo poeticamente descritto da Scotellaro, fatto per la maggior parte di contadini, braccianti e pastori distanti anni luce da altre e ben diverse realtà italiche, come se per loro (e soltanto per loro) il tempo si fosse fermato per sempre, e il progresso - con il conseguente benessere - non fosse mai giunto da quelle parti. Non vi sono dubbi infine, sul fatto che Scotellaro poeta deve qualcosa ad alcuni suoi contemporanei e non; prima di tutto si ritrovano tracce che fanno risalire ai versi degli ermetici meridionali (Quasimodo, Gatto, De Libero e il corregionale Sinisgalli); poi, seppure in minor misura e con caratteristiche differenti, è possibile identificare particolari tematiche già trattate, in altri tempi e in altre realtà ovviamente, da alcuni poeti del secondo Ottocento e del primo Novecento (Rapisardi, Guerrini, Satta e Cena).
Ecco, per chiudere, l'elenco delle opere poetiche di Rocco Scotellaro, seguito da quattro poesie indimenticabili.



Opere poetiche 

"È fatto giorno", Mondadori, Milano 1954 (1982²).
"Margherite e rosolacci", Mondadori, Milano 1978.
"Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004.





Testi


IL GIARDINO DEI POVERI

È cresciuto il basilico
nel giardino dei poveri:
hanno rubata l’aria alle finestre
su due tavole hanno seminato.

Verranno i passeri,
verranno le mosche,
nel giardino dei poveri.

Ora quando non sai che fare
prendi la brocca in mano,
io ti vedrò cresciuta tra le rose
del giardino dei poveri.

(Potenza, 21 ottobre 1948)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", pp. 10-11)




CASA

Come hai potuto, mia madre, durare
gli anni alla cenere del focolare,
alla finestra non ti affacci più, mai.

E perdi le foglie, il marito, e i figli lontani,
e la fede in dio t’è caduta dalle mani,
la casa è tua ora che te ne vai.

(1951)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 109)




TU SOLA SEI VERA

Colei che non mi vuol più bene è morta.
È venuta anche lei
a macchiarmi di pause dentro.
Chi non mi vuol più bene è morta.
Mamma, tu sola sei vera.
E non muori perché sei sicura.

(13 dicembre 1953)

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 150)




LETARGO

Nero e lucente
serpente che narri
le tue solitudini al sole
e i ricordi del tuo lungo letargo
tra un rombo ventilante di mosche,
anch’io i miei poveri giorni di calde speranze
ricordo e i luoghi del mio ozio
ove mi sentivo grande e solo al mondo
e solo per un passo molesto
m’imbuca sottoterra,
cadendo dall’orlo della luce.

[1942]

(da "Tutte le poesie 1940-1953", p. 165)




domenica 26 luglio 2020

La natura nella poesia italiana decadente e simbolista


Nel descrivere paesaggi, fenomeni e trasformazioni naturali, i poeti decadenti e simbolisti rimangono spesso estasiati; così, gli spettacoli offerti dalla natura divengono qualcosa di arcano e nello stesso tempo incomparabilmente bello. Sia in chi ha una fede religiosa, sia in chi non ce l'ha, nascono emozioni e sentimenti che vanno oltre la sfera del razionale, e la natura diviene così ella stessa divinità (o manifestazione del divino). Però ci sono anche i poeti che, rifacendosi al Leopardi, vedono nella natura una sorta di entità lontana e del tutto indifferente sia alle sorti dell'umanità, sia a quelle di qualunque altro essere vivente; tra questi c'è sicuramente Carlo Vallini, che, come spiega bene il titolo di una sua poesia, in modo assai amaro fa dell'ironia sull'esistenza dell'uomo e sul mondo in cui vive; più subdolo e sarcastico si dimostra Antonio Rubino, che giunge a dire: «...e il mondo è come un cuore, / come un immenso cuore che deliri». Ma più vicino al Leopardi è sicuramente Arturo Graf, che chiaramente accusa la natura di essere ambigua e incomprensibile, e di porre insidie e trappole nei luoghi che appaiono tra i più rassicuranti. Provocatoria è la lirica di Enrico Cavacchioli che, in perfetta sintonia con i proclami del futurismo, incita la natura affinché distrugga il vecchio armamentario del mondo, in modo da poterlo sostituire con una "nuova civiltà". Non mancano coloro che provano a personificare la natura: Giovanni Alfredo Cesareo, per esempio, la vede come un "Avola cieca" che vive in completa solitudine, sedendo "fuori del tempo e fuori dello spazio".



Poesie sull'argomento

Enrico Cavacchioli: "Sermone alla natura" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "Le forme" in "Homo" (1907).
Giovanni Alfredo Cesareo: "L'Avola" in "Le consolatrici" (1905).
Girolamo Comi: "Cantico dell'Argilla" in "Cantico dell'Argilla e del Sangue" (1933).
Ugo Codogni: "Alla Terra" in "Poesia", gennaio 1906.
Italo Dalmatico: "Io, solo, in vetta, a la montagna..." in "Juvenilia" (1903).
Luigi Donati. "Sinfonia" in "Poesia di passione" (1928).
Giulio Gianelli: "Le guide" in "Mentre l'esilio dura" (1904).
Corrado Govoni: "Amo" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "O natura!" in "Medusa" (1990).
Giuseppe Lipparini: "Circe" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Marino Marin: "Provvida è la natura..." in "Sonetti secolari" (1896).
Nino Oxilia: "Sotto i ciuffi dell'erba umida..." in "Canti brevi" (1909).
Guido Ruberti: "All'amica lontana" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "La bellezza del mondo" in «Poesia», ottobre 1908.
Emanuele Sella: "Il Nascimento d'una Pianta Nuova" in "Rudimentum" (1911).
Emanuele Sella: "Infantia mundi" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Giovanni Tecchio: "In alto" in "Canti" (1931).
Federigo Tozzi: "In Maremma" in "La zampogna verde" (1911).
Carlo Vallini: "L'ironia" in "Un giorno" (1907).



Testi

IO, SOLO, IN VETTA ALLA MONTAGNA...
di Italo Dalmatico

Io, solo, in vetta a la montagna. Passa
il corpo di una nuvola fra il monte
e il sole: e l'ombra passa su la fronte
de le rocce. Laggiù, fuma la grassa

terra che l'uomo avidamente squassa,
preme, frange, apre, semina con pronte
mani, levando gli occhi a l'orizzonte
torbido. (Morte generosa ingrassa

le terre onde verrà pane per noi).
Liberi, in alto, i falchi. E laggiù, cupi
servi, pia madre terra, i figli tuoi,

ne l'ombra fredda, dentro il solco breve,
bestie al pascolo, cani a l'acqua, lupi
ringhiosi su gran campi di neve.

(da "Juvenilia", p. 42)




INFANTIA MUNDI
di Emanuele Sella

Madre Natura tiene l'occhio fisso
sopra un bimbo piangente: e questo bimbo
è il Mondo: sulle teste alita un nimbo
di stelle e sotto i piedi ella ha l'abisso.

E come ella si libri sullo spazio
è un cieco enigma, e come ella lo guidi
e lo governi e pe' cammini infidi
ne blandisca col cantico lo strazio.

Ma d'un tratto si sente venir meno
per la fatica; ...odesi in lontananza
un armento che lento lento avanza
nell'aspra notte sotto il ciel sereno.

(da "L'ospite della sera", p. 32)





Alfons Maria Mucha, "Nature"
(da questa pagina web)