domenica 3 maggio 2020

La morte nella poesia italiana decadente e simbolista


È l'argomento degli argomenti: il più trattato e in modi assai diversi. La Morte, come succede nelle arti figurative, in queste poesie si umanizza, e diviene una entità che può comunicare sia parlando: - Io sono la Fine: l'eterna Tenebra, l'Inerzia / eterna; sonno dei corpi, senza sogni. // A me dinanzi s'arresta ogni cosa: mi chiaman / soluzione d'ogni problema umano (Federico De Maria), che, magari, inviando un messaggio: Ei la guardò ne gli occhi, e aveva neri / come un antro, e in quell'antro c'era un fuoco, / segnal de l'incubo. / - Telegrafate!! - // E con fiato di tomba a quell'uomo / sussurrò una parola... / Batté i denti per febbre terzana / convulsivo il manipolatore; / balbettò, picchiottò: Morte... Morte... (Luigi Crociato); e può addirittura accadere che muoia lei stessa: Oh, l'errore come tenne forte / Parca: chiamare un morto a morire! / Un brivido si fece udire / Stramazzata, moriva la Morte! (Giuseppe Altomonte). Ci sono poeti che la temono: Ora una sconosciuta ansia ci assale / talvolta: e come un faticoso orrore.. / Oh mistero! Che è quando si muore? / Anima, e tu sarai, dunque, mortale? (Cosimo Giorgieri Contri), poeti che l'amano: Come un'amante nova io ti ricevo. (Mario Adobati), poeti che la desiderano: Dolcemente morire: / tale gioconda cosa / chiede l'anima stanca. / Salire in una bianca / serenità. Sentire / la Morte veniente. / Tale gioconda cosa / chiede l'anima stanca: / dolcemente morire. (Italo Dalmatico), poeti che la odiano e poeti che la considerano, come la vita, totalmente inutile: È vana l’arte. La sorte / vuol che ogni cosa sia vana, / vuol che la vita sia vana / e che sia vana la morte. (Carlo Vallini). C'è chi la vede in forma di giovane donna: Era bella, era donna, le chiome avea nere e fuggenti / Dietro le spalle bianche; / Gli occhi avea neri scintillanti, magnifici, fissi / in lontani orizzonti. (Giacinto Ricci Signorini); chi in forma di bambino: Mi appar la Morte un bimbo imperioso, / severo e grave, intento, col bel volto / chino, a scifrar un segno misterioso. (Gian Pietro Lucini); chi a cavallo: S'udì nella notturna aria un galoppo / e tutta bianca sul cavallo nero // passò rapida innanzi a quelle porte / spalancate. Protese egli le braccia / e la chiamò per nome: — Morte! Morte! — (Vittoria Aganoor); chi, secondo una antica tradizione, la immagina armata di falce: Alle vetrate, nelle commessure, / cadon le mosche, e l'acqua scroscia intanto: / la morte falcia le vite mature, / la pioggia lava i sassi in camposanto. (Pompeo Bettini); ma c'è pure chi la vede apparentemente innocua, con, in mano, un semplice ramo d'ulivo: A molti parrà strano, / Ma per vero lo scrivo: / Null’altro ella teneva in mano / Fuor che un ramo d’ulivo. (Arturo Graf). Ci sono infine i poeti che prefigurano il post mortem: Ogni spavento, ogni supplizio atroce, / Si muteranno nella immensa calma; / Diventeran la rigida, spettrale // Figura bianca, la marmorea salma / Stesa sull’urna, con le braccia in croce, / In fondo all’ombra della Cattedrale! (Camerana); Chiudi tutte le porte. / Noi veglieremo fino / all’alba originale, / fino che un immortale / stella segni il cammino, / novizii, oltre la Morte! (Sergio Corazzini); Quale sarà la mia sorte / novella dopo la morte? / In quali forme viventi / d’insetti o di chicchi di grano, / o d’altro che viva o non viva, / si trasformerà la passiva / carcassa dell’essere umano? (Carlo Vallini).





Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "L'odore della morte" e "Elegia della buona morte" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "L'egro dicea..." in "Leggenda eterna" (1900).
Vittoria Aganoor: "Dramma notturno" in "Poesie complete" (1912).
Giuseppe Altomonte: "La morte della Morte" in "Canzoniere minuscolo" (1906).
Pompeo Bettini: "Nella tomba di carta seppellito" in "Poesie" (1897).
Ettore Botteghi: "Seguimi" in "Poesie" (1902).
Umberto Bottone: "Pax lacrymarum" e "Quartine de la Morte" in "Lumi d'argento" (1906).
Giovanni Camerana: "Spes unica" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Sua maestà la Morte" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Scivolò tacita un'orma" in "I canti di Pan" (1920).
Guelfo Civinini: "Sestina del verno e della morte" in "L'urna" (1900).
Guelfo Civinini: "I grilli e la falce" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini: "Vigilavano le stelle" in «Marforio», novembre 1904.
Sergio Corazzini: "Ballata a morte" in «Cronache latine», gennaio 1906.
Sergio Corazzini: "Dopo" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Sergio Corazzini: "La morte di Tantalo" in «Vita Letteraria», giugno 1907.
Luigi Crociato: "Il messaggio de la Morte" in "Canta il selvaggio" (1912).
Italo Dalmatico: "Ecco, e la Morte bussa..." e "Solo il pensiero della morte resta" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "La visitazione" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Guglielmo Felice Damiani: "Nel senso della morte" in "Lira spezzata" (1912).
Federico De Maria: "La Morte" e "Colgocz" in "Voci" (1903).
Luigi Fallacara: "La morte" in "Illuminazioni" (1925).
Aldo Fumagalli: "I nove tocchi" in "Arcate" (1913).
Ugo Ghiron: "La fuga folle" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Giulio Gianelli: "Alla bellezza della morte" in "Intimi vangeli" (1908).
Giulio Gianelli: "Dopo la morte" in "Tutte le poesie" (1973).
Cosimo Giorgieri Contri: "Al di là" in "La donna del velo" (1905).
Corrado Govoni: "La fine" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Guido Gozzano: "La falce" in "Il Venerdì della Contessa", 1904.
Guido Gozzano: "Suprema quies" in "Poesie e prose" (1961).
Arturo Graf: "Pallida Mors" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "L'incontro" in "Le Danaidi" (1897).
Virgilio La Scola: "L'ineluttabile" in "La Via che attende" (1908).
Gian Pietro Lucini: "La Morte" e "La Morte bacchica" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).
Gian Pietro Lucini: "Il Rondò della Morte" in "Per una vecchia Croce di ferro" (1899).
Olindo Malagodi: "Vette di neve" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).
Enzo Marcellusi: "I dialoghi dei morti" in "I canti violetti" (1912).
Marino Marin: "Benigna è Morte..." in "Sonetti secolari" (1896).
Tito Marrone: "Lettera a una morta" in "Liriche" (1904).
Tito Marrone: "Le bare" in «La Riviera Ligure», novembre 1905.
Pietro Mastri: "Terrore notturno" e "La gran falce" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Marino Moretti: "Impazienza" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Angiolo Orvieto: "Morte" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli: "Scalpitio" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "Il brivido" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Francesco Pastonchi: "Il velo" in "Il pilota dorme" (1913).
Giacinto Ricci Signorini: "Era la sera, il sole dietro il fiume..." in "Poesie e prose" (1903).
Antonio Rubino: "Io mors!" in "Versi e disegni" (1911).
Agostino John Sinadinò: "La morte del poeta" in "Le presenze invisibili" (1898).
Giovanni Tecchio: "Suspiria extrema" in "Mysterium" (1894).
Carlo Vallini: "Il teschio fiorito" e "La morte" in "Un giorno" (1907).



Testi 

SCIVOLÒ TACITA UN'ORMA
di Giovanni Alfredo Cesareo

Scivolò tacita un'orma
Lunga, prudente, di fiera
Obliqua: ombra più che forma:
    La Fanciulla nera.

Il dolce corpo si tolse
Nelle flebili braccia,
L'oscura chioma disciolse
    Su l'esangue faccia,

E se n'andò, come venne,
Muta e veloce. La casa,
Indi a quel dì, da perenne
    Stupore è pervasa.

(da "I canti di Pan")




IL TESCHIO FIORITO
di Carlo Vallini

E mi ricondussi al pensiero
l’immagine d’un cimitero
abbandonato e romito,
cinto di voli e di stridi
a primavera: ov’io vidi
un teschio umano fiorito.
Da molto tempo, da molto,
nessuno era stato sepolto
di là dalla soglia deserta:
la triste soglia era aperta
sul campo invaso dal folto
dell’erba, da un bosco di erba
selvaggia, da un mare di fiori
campestri, da un mare d’odori
primaverili, da sciami
d’api, da tutta la vita
che non visibili dita
sanno agitare per entro
la terra, da tutta la vita
che nasce e muore in silenzio.
Era quell’eremo pregno
di succhi e d’odori: tra i lacci
dell’erba emergevano bracci
di rade croci di legno.
Ed io procedendo e affondando
in quella selva vivente
ero detestabilmente
poetico e lirico: quando
fra un gruppo d’edere spesse,
aggrovigliate ad un branco
di spine acutissime e nere,
vidi o credei di vedere
un qualche cosa di bianco
che sembrava che m’irridesse.

Un teschio umano era quello
che m’irrideva: ripieno
tutto oramai di terreno
dov’era stato il cervello:
e come da un vaso di fiori,
a render piú tragico e buffo
quel misero avanzo, un gran ciuffo
d’erba ne usciva di fuori
con tal furore, che mosso
parea da quei resti carnosi
per compiere l’apoteosi
pazzesca d’un paradosso.
In quel sorriso supremo
di scherno eterno ben era
visibile quasi la vera
parola che mai non sapremo!

Ch’io creda alla favola trista
del vivere e del morire,
se il Tutto, dato che esista,
si può chiamar Divenire?
Tutto è la grande parola
che sbalordisce e consola
l’anima sciocca e fanciulla.
Tutto vuol dire anche Nulla.
Tutto vuol dire l’immenso
precipitare dei mondi
celesti verso l’ignoto.
Tutto è materia ed è vuoto.
Tutto è rinchiuso nel senso
dell’essere: è quello che vedi
e che non vedi, che credi
e che non credi: è pur quello
che già ti tese un tranello
col farti nascere: e appare
l’eterno mistificatore
nel fare crescere un fiore
e nel far muovere il mare.

Quale sarà la mia sorte
novella dopo la morte?
In quali forme viventi
d’insetti o di chicchi di grano,
o d’altro che viva o non viva,
si trasformerà la passiva
carcassa dell’essere umano?
O forse accadrà ch’io diventi,
se il caso mi toglie all’oblío,
la cosa che soffre ed ha un io,
quella piú vana che esista
nell’Universo, la trista
cosa che chiede perdono,
la cosa umana ch’io sono?
Destino! La libertà
con cui ci deprimi e bistratti
prova che tu non ci tratti
in abito di società!
Tu vedi: ho appena vent’anni
e il mondo non mi diverte,
sebbene non posi da Werther
ucciso dai disinganni;
ho una discreta memoria
e quasi sempre appetito:
non mi tortura il prurito
di un’inafferrabile gloria.
Che cosa, dunque, di meglio
per rendere un uomo felice?
Eppur qualche cosa mi dice
che potrei stare assai meglio.
Ho il benedettissimo vizio
di non creder ciò che si vede:
idea questa, come si vede,
da uomo di poco giudizio.
Aggiungi che a volte non posso
capir le piú semplici cose,
né credere che le cose
basti pensarle all’ingrosso.
Queste stranezze m’han fatto
un posatore ed un orso,
che non sa fare un discorso
e finge d’esser distratto.
«Se non sei nemmeno giocondo
prima dell’esperienza -
m’han detto - a che la presenza
della tua faccia nel mondo?»

O Terra, a te m’abbandono
dopo la morte: di me
fa’ ciò che credi, fuorché
rifarmi quello che sono.

(da "Un giorno")


Hugo Simberg, "Death and the Peasant"
(da questa pagina Web)

domenica 26 aprile 2020

Sera della domenica


                                        per Alberto Tarchiani

Ora che li organi
di Barberia singhiozzano al Crepuscolo
li ultimi balli e le ultime canzoni
anche una volta, quasi una paura
folle di rimanere
soli nell’imminente ombra li tenga;

ora che i poveri
amanti hanno sepolta
nel cuore, senza piangere, la piccola
loro felicità domenicale,
e vanno muti
per il noto viale
al convegno dell’ultima tristezza;

ora che il pianto in maschera
di Sorriso
affetta ancora un’aria disinvolta
prima che scada il facile noleggio
dell’abito di gala;

ora che ne’ conventi e ne’ collegi
abbassano le lampade,
asciugano le lagrime,
e s’imagina che nel Paradiso
ogni giorno sarà
domenica;

ora che nei postriboli
le femine si lasciano baciare
cantando
il breve elogio funebre
della verginità;

il Poeta, ebro di morte,
viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni,
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!




Sera della domenica è la prima delle nove poesie che compongono l'esigua e ultima raccolta di Sergio Corazzini che s'intitola Libro per la sera della domenica e che venne alla luce nel 1906. Io l'ho trascritta dal volume Poesie (Rizzoli, Milano 1992), che contiene tutta l'opera poetica dello scrittore romano; Sera della domenica si trova alle pagine 201 e 202 del detto volume (la prima delle due si può osservare nella foto sottostante).



La lirica è dedicata all'amico e poeta Alberto Tarchiani (Roma 1885 - ivi 1964), che nello stesso anno aveva pubblicato, insieme al Corazzini, il suo unico libriccino di versi: Piccolo libro inutile. Il tema domenicale, così caro ai poeti crepuscolari (oltre al Corazzini si ricordano diverse poesie sul tema di Marrone, Govoni e soprattutto Moretti, che dedicò alle "Domeniche" un'intera sezione della sua raccolta più famosa Poesie scritte col lapis), ebbe origine già nei versi di certi poeti francesi e belgi di fine Ottocento; fu in particolare Jules Lafourge - morto di tisi come Corazzini, a soli ventisette anni - che nella raccolta Les complantes inserì una serie di poesie in cui predominano le atmosfere domenicali di alcuni luoghi cari al poeta. E la malinconica ironia di Lafourge è ben palpabile anche in questa poesia di Corazzini, come in tutta la raccolta di cui la stessa fa parte. Insieme alla domenica, la "sera" del titolo della poesia, è una parte del giorno particolarmente cara un po' a tutti i poeti decadenti e simbolisti (crepuscolari compresi), tanto che sarebbe impossibile ricordare le moltissime poesie che, a partire da Baudelaire, hanno come argomento portante le ore serali del giorno. Si nota, leggendo questi versi, che Corazzini pone l'accento su una serie di eventi verificatisi su per giù nello stesso momento, che indicano la fine della gioia, della spensieratezza e del divertimento tipici della giornata festiva; col sopraggiungere della sera, tutte queste manifestazioni vitali vanno a mano a mano scemando, lasciando il posto ad una buona dose di malinconia, che qualcuno cerca di allontanare sognando o fantasticando. Infine la situazione del Poeta che, stordito dalla sensazione di morte (ricordo che Corazzini quando scrisse questi versi era già seriamente malato e che perì l'anno dopo), fa un patto con la Disperazione, accettando ciò che ella gli offre: un futuro breve, funestato da sensazioni e sentimenti negativi. Si tratta dell'unica, dolorosa scelta per il Poeta, poiché l'alternativa sarebbe la morte; e forse, l'ultimo verso sta ad indicare la difficile situazione economica in cui versava la famiglia di Corazzini, il quale nell'ultima parte della sua vita fu costretto, seppur malato, a lavorare sodo per poter tirare avanti e per garantire una vita decente ai suoi cari.

sabato 25 aprile 2020

Due poesie sulle devastazioni causate dai bombardamenti avvenuti durante la 2° Guerra Mondiale


Se è vero che oggi è un virus il nemico da combattere, e che è proprio questo invisibile e insidiosissimo essere a mietere tantissime vittime in Italia così come in ogni parte del mondo, è altrettanto vero che, circa ottant'anni or sono, nel nostro territorio esistevano dei nemici in carne ed ossa, armati e crudeli, che facevano egualmente vittime coi loro comportamenti scellerati, guidati da dittatori e governanti che non conoscevano la parola "pietà". I bombardamenti a tappeto sulle città erano all'ordine del giorno, e ogni volta che si verificavano, subito dopo c'era una conta delle vittime: un elenco che si andava sempre più allungando, a mano a mano che i morti venivano estratti dalle macerie sotto le quali si trovavano. Le due poesie che riporto oggi, in occasione del 25 aprile, parlano proprio della devastazione e dei lutti causati da queste bestialità belliche, tutt'ora esistenti. I versi di Salvatore Quasimodo (Modica 1901 - Napoli 1968), ben noti, parlano di uno dei più terribili bombardamenti a cui fu sottoposta la città di Milano, nel mese e nell'anno che sono indicati nel titolo della poesia; oggi, come tutti sanno, la città meneghina sta vivendo giorni altrettanto difficili (anche se le modalità sono completamente diverse), da cui, mi auguro con tutto il cuore possa uscire al più presto, così come tutte le altre città e gli altri paesi dove si vive la medesima drammatica situazione.
L'altra poesia è di Dino Menichini (Stupizza di Pulfero 1921 - Udine 1978), poeta friulano che si mise il luce con due raccolte in particolare: Ho perduto i compagni (1947) e Patria del mio sangue (1950), in cui mostrò la sua tendenza ad un crudo realismo e volle denunciare, tramite un linguaggio totalmente privo di artifici e quindi limpido, le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, innalzando a soli protagonisti tutti coloro che subirono le peggiori conseguenze dal tremendo conflitto. Questi versi che ho scelto danno il titolo alla sua opera poetica più famosa e, così come quelli di Quasimodo, pongono l'attenzione sulla disumanità della guerra, in particolare quando la violenza che ne scaturisce va a colpire nel mucchio, senza la minima pietà per qualunque essere umano innocente e indifeso.    




MILANO, AGOSTO 1943
di Salvatore Quasimodo

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 132)






HO PERDUTO I COMPAGNI
di Dino Menichini

La città bombardata ora ha il volto
delle sue donne morte nelle vie.
Altre donne in gramaglie lente vanno,
i loro gesti suonano parole.
Tu, pallida ai capelli dove i baci
perdevano sapore di peccato,
stupisci della quiete che t'assolve,
dal limbo che ti smèmora riascolti
la tua voce nell'aria fatta il grido
delle cose tradite cui prestammo
innocenza di nomi.

                             Una bilancia
è ancora intatta, l'ago non oscilla,
il piatto è fermo, la misura è colma,
un Cristo guarda. Netto sul rottame
d'una campana è inciso «miserere».
Tu nemmeno hai pietà se la tua voce
m'assorda i giorni e mi devasta il sangue.
Ho perduto i compagni ad uno ad uno,
la mia vita è una somma di memorie
aperta al tempo...

(da "Poesia", Società Filologica Friulana, Udine 1998, p. 40)