domenica 8 dicembre 2024

I rifiuti nella poesia italiana decadente e simbolista

 Il rifiuto, parlando del termine inteso come negazione in modo generico, può subentrare nella vita di un essere umano per diverse motivazioni che si ricollegano a particolari stati psichici e fisici; si può rifiutare qualcosa o qualcuno per timore, per sconforto, per stanchezza, per pigrizia o per principio. Ognuna di queste particolari cause che determinano dei rifiuti sono presenti nei versi di alcuni poeti italiani rientranti nella sfera dei decadenti e dei simbolisti. Tra quelle che di seguito ho elencato, Apologia di Sem Benelli (e in parte a questa poesia si potrebbero associare I cavalieri di Gloriana di Gian Pietro Lucini e Sonetto nero di Corrado Govoni) parla di un rifiuto intellettuale, se vogliamo superbo, di un uomo che decide di non offrire la sua mente al piacere offertogli da una donna particolarmente avvenente, ma priva di moralità. Ma si può rifiutare anche un amore puro e sincero, come avviene nei versi di Diego Angeli e di Enrico Panzacchi; nei primi, il poeta è costretto alla rinuncia per decisione di lei, mentre nella poesia di Panzacchi è il poeta stesso che, per ragioni d’incompatibilità e non solo, pone fine ad ogni possibilità di instaurare un rapporto con un ragazza. Corazzini, in Bando, svende le sue geniali idee, perché desidera solamente una vita oziosa e spensierata, simile a quella dei gatti. Nella lirica di Italo Dalmatico, si dichiara una rinuncia alla vita, perché la si vede quale è, in tutta la sua vacuità; per questo il protagonista aspira soltanto alla morte: unica consolatrice di coloro che non si fanno più illusioni. Ne Il cancello di Pietro Mastri, il poeta è costretto a rinunciare ad un aldilà magnificamente descritto e concretamente prefigurato, a causa di un simbolico cancello che impedisce l’uscita dalla vita. Nella poesia Il pappagallo di Palazzeschi è un animale il protagonista di un rifiuto testardo: per l’appunto un pappagallo, declina costantemente i continui incitamenti della “gente” affinché emetta un minimo suono; il suo unico comportamento è un mutismo ostinato, unito ad un “guardare” silenzioso tutti coloro che lo importunano con instancabili inviti alla parola. Ne La cena degli infelici, un gruppo di misteriosi commensali rifiuta caparbiamente qualsiasi cibo che arrivi alla loro tavola. Infine, si può dire che la causa di molti rifiuti alla vita (intesa come gioia di essere al mondo), nella maggioranza dei casi, nasce da una serie di esperienze negative vissute attraverso gli anni: drammi, tragedie, tradimenti, disillusioni; quest’ultima tipologia è ben presente nei versi di Sandro Baganzani, il quale, con la sua compagna decide di rimanere chiuso in casa proprio quando la natura, nella stagione primaverile, si mostra nei suoi aspetti più attrattivi.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Diego Angeli: "Ricordo del Redentore" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Sandro Baganzani: "Attimo" in "Senzanome" (1924).

Sem Benelli: "Apologia" in «Poesia», marzo 1905.

Carlo Chiaves: "L'impeto vano" in "Sogno e ironia" (1910).

Carlo Chiaves: "I profani e il sogno" in «La Donna», gennaio 1914.

Sergio Corazzini: "Bando" in "Libro per la sera della domenica" (1906).

Italo Dalmatico: "Taci. Noi siamo in tenebra fanciulli" in "Juvenilia" (1903).

Corrado Govoni: "Sonetto nero" in "Gli aborti" (1907).

Gian Pietro Lucini: "I Cavalieri di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Pietro Mastri: "Il cancello" in "La fronda oscillante" (1923).

Marino Moretti: "Rinunzia" in "Poesie scritte col lapis" (1910).

Nino Oxilia: "Dopo il rifiuto" in "Gli orti" (1918).

Aldo Palazzeschi: "Il pappagallo" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "La cena degli infelici" in "Poemi" (1909).

Enrico Panzacchi: "Che vuoi da me?" in "Poesie" (1908).

Guido Ruberti: "I suicidi" in "Le Evocazioni" (1909).

Giuseppe Villaroel: "Rassegnazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 Testi

 

RINUNZIA

di Marino Moretti (1885-1979)

 

Dolce la sera rimaner qui soli

nella penombra della stanza, presso

i vetri, e non parlar, neppur sommesso,

e non guardar neppur gli ultimi voli!

 

Immobili restare al proprio posto

dopo una lunga disputa, e dal cuore

sentir vanire l'ultimo rancore

e il rancore più vecchio e più nascosto.

 

Sentirci presi da una tenerezza

che non à baci e che non à parole,

ma che è tepida e dolce come il sole

primaverile, e come una carezza!

 

Mamma, ti vedo. Io vedo un po' di bianco

nell'ombra muta, il bianco del tuo viso,

e v'indovino il fior del tuo sorriso,

fiore appassito di sorriso stanco!

 

Passar così tutta la vita! È sera:

l'ombra.... il silenzio.... il tedio.... Più nulla,

Che importa? È così vana e così brulla

la vita per un po' di primavera!

 

Viviamola nell'ombra: è forse meglio,

e forse, mamma, ci si vuol più bene

se un desiderio vigile ci tiene

di non pensare al prossimo risveglio!

 

Roseo di peschi, bianco di susini,

cielo lucente.... Non ricordi tu?

Non ti par che il ricordo ne sia più

tepido di quei tepidi mattini?

 

Occhi mortali illusi da un colore

primaverile su uno sfondo azzurro!

Cuori mortali illusi da un susurro

di fuchi d'oro, d'incognito cuore!

 

Nulla. Noi nella nostra ombra romita

sentiam che tutto è inutilmente come

se fosse solo una parola, o un nome

breve, di quattro lettere, la vita...

 

(da “Poesie scritte col lapis”, Palomar, Bari 1992, pp. 150-151)

 

 

 

 

RASSEGNAZIONE

di Giuseppe Villaroel (1889-1965)

 

Sorella, tu sei venuta a vedermi, con l'anima sgombra

d'ogni sospetto, ignara che il male m'avesse sfinito.

Ed io ho avuto paura che tutto sarebbe finito

quando avresti trovato non l'uomo che amavi; ma l'ombra.

 

L'ultimo giorno ci siamo lasciati con una promessa negli occhi,

una promessa dolce come la carezza della tua mano,

La sera tingeva d'oro le vette degli alberi lontano

e la chiesa del monastero batteva i suoi lenti rintocchi.

 

E fu vana la dolce promessa. E torna grave l'addio

nel mio ricordo, ora che assisto alle fatale rovina

di tutte le cose più care attorno alia vita che declina.

Oh, come tramonta triste con me tutto ciò che fu mio!

 

Il mio occhio è diventato più grande, più buono, più chiaro

e l'anima ancora vi splende; ma tutto il mio corpo è disfatto.

Tu guardi queste mani di scheletro, questo volto scarno e contratto

e vuoi celarmi il ribrezzo con un sorriso pietoso e pur così mesto ed amaro!

 

Io penso che tu più non m'ami perché non si può più amare

una misera larva che giace come una pianta sfiorita.

Io penso che tu più non m'ami perché s'ama la forza e la vita

e io sono un uomo finito che s'ostina ancora a restare.

 

Ah, non sorridermi. Io sento lo sforzo della tua dolcezza

e vedo che gli occhi tuoi non hanno più quell'ardore.

Ah, non illudermi. È triste sentirsi ingannati dal cuore

a cui s'affidò la vita che un poco ogni giorno si spezza.

 

No, dolce sorella. È vana la tua lusinga pietosa.

Non vedi che io sono rassegnato come un cieco al suo destino?

che ho fatto rinunzia di tutto e non sono altro che un bambino

senza amore e senza conforto: una povera piccola cosa?

 

Ogni mattina mi adagiano su questa sedia a bracciuoli

presso la finestra aperta su lo sfondo di topazio

e resto a guardare il veleggio delle nubi nello spazio

o i lunghi pennacchi neri sulle bocche dei fumaioli.

 

E tutto il mio mondo e la mia vita è in questa gioia breve,

unica e pura gioia fatta di silenzio e di cielo.

E il sogno nella mia anima muore come lo stelo

pallido e freddo d'un flore sbocciato sopra la neve.

 

(da "La tavolozza e l'oboe", Taddei, Ferrara 1918, pp. 14-16)

 

Edvard Munch, "Melancholy"
(da questa pagina web)


domenica 1 dicembre 2024

Antologie: "Le poesie che amo"

 Quest'antologia poetica nacque a seguito del successo che ebbe una trasmissione televisiva pomeridiana in onda sulla Rai tra il 1996 ed il 2002. Tale trasmissione, concepita e diretta da Paolo Limiti (1940-2017), dedicava un piccolo spazio alla poesia; tale spazio era gestito dallo scrittore Alessandro Gennari (Mantova 1949 - ivi 2000), che in maniera concisa presentava al pubblico un poeta più o meno famoso, per poi recitarne una poesia. Anch'io seguivo assiduamente questo programma di varietà (si occupava per lo più di canzoni del passato), ed attendevo proprio il momento in cui il conduttore si sarebbe seduto sulla poltroncina accanto a quella di Gennari, per parlare di un altro poeta. Ricordo anche l'indubbia bravura dello scrittore mantovano nella recitazione dei versi, a cui va aggiunta quella di cantare alcune canzoni popolari di Fabrizio De André, come La guerra di Piero. Nel libro di cui parlo in questo post, sono presenti gran parte delle poesie che Gennari introdusse e recitò nella trasmissione diretta da Limiti. Alla fine dell'antologia figurano anche due testi dello scrittore mantovano, preceduti da un commento sagace e ironico, che dà l'idea della popolarità avuta in quel breve periodo di tempo; ne riporto soltanto la prima parte:


Da un recente sondaggio è emerso che sono il poeta più popolare d'Italia. Del resto da due anni, ogni giorno, di fronte a un vasto pubblico Paolo Limiti mi interpella dicendo: «Passiamo ora al nostro poeta», «Sentiamo che cosa ha da dire il poeta». Centinaia di lettere mi giungono ogni mese, indirizzate «al poeta», con o senza aggettivi. Questo titolo, che più volte mi è stato attribuito dai giornali e anche da un telegiornale della sera, mi lusinga e mi onora; devo però precisare ancora una volta che non ho mai pubblicato poesie, nemmeno una sola. È vero che di poesia mi sono sempre occupato, con passione ed entusiasmo, organizzando convegni e pubblicando riviste, ma ho sempre preferito tenere nel cassetto i miei versi e credo che questo, mantenendomi sopra le parti, abbia giovato alle mie relazioni con i poeti.


Chiarito tutto ciò, Gennari prosegue la sua presentazione parlando di come, accidentalmente, fu scambiato per poeta "autentico"; infine dedica poche parole alle due poesie inedite da lui stesso scritte, che chiudono il volume.

Ecco, infine, i nomi di tutti i poeti presenti in Le poesie che amo.





LE POESIE CHE AMO


Vincente Aleixandre, Manuel Altolaguirre, Angelo Barile, Gustavo Adolfo Béquer, Umberto Bellintani, Bertolt Brecht, George Gordon Byron, Lorenzo Calogero, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Giosue Carducci, Giorgio Celli, Luis Cernuda, Guelfo Civinini, Sergio Corazzini, Gabriele D'Annunzio, Dante, Rubén Darìo, Edmondo De Amicis, Emily Dickinson, Gerardo Diego, Ugo Foscolo, Robert Frost, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Arturo Graf, José Hierro, Langston Hughes, Juan Ramon Jiménez, Rudyard Kipling, Giacomo Leopardi, Antonio Machado, Katherine Mansfield, Marco Valerio Marziale, Edgar Lee Masters, Eugenio Montale, Vinicius de Moraes, Marino Moretti, Alvaro Mutis, Ada Negri, Arturo Onofri, Giovanni Pascoli, Boris Pasternak, Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, William Shakespeare, Percy Bysshe Shelley, Wallace Stevens, Johann Ludwig Tieck, Niccolò Tommaseo, David Maria Turoldo, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Paul Verlaine, Walt Whitman, William Butler Yeats, Alessandro Gennari.  

domenica 24 novembre 2024

Poeti dimenticati: Bruna

 Clementina Laura Majocchi, in arte Bruna, nacque a Cento nel 1866 ed ivi morì nel 1945. Sorella della più nota Jolanda (Maria Majocchi), Bruna si dedicò sia alla musica che alla letteratura. In quest'ultima disciplina privilegiò decisamente la poesia; ne fanno fede i numerosissimi versi pubblicati in volumi o in riviste nell'arco di un trentennio. Le sue liriche mostrano un deciso carattere intimistico, ponendo in primo piano i sentimenti, gli stati d'animo, le emozioni e l'amore per la natura. 



Opere poetiche


"Petali e lagrime", Cappelli, Bologna 1894.

"In solitudine", Cappelli, Rocca San Casciano 1898.

"Canti di capinera", Cappelli, Rocca San Casciano 1901.

"Il poema della casa", Tip. Scienza e Diletto, Cerignola 1901.

"L'Ermo sentiero", Cappelli, Rocca San Casciano 1906.

"L'intima fiamma", Cappelli, Rocca San Casciano 1910.

"L'Eterna chimera", Casa Editrice "La Fiorita", Teramo 1913.

"Ansia di luce", Cappelli, Bologna-Rocca S. Casciano, 1921.






Testi


GELO


Cadde a fiocchi la neve

nella nottata silenziosa; e lieve

ha ricoperto i prati

sterili, abbandonati.

Or dove siete, voi, dolci Napee?

ove togliete i fiori

per adornare il vostro crin lucente?

Liete ninfe campestri,

nei rigori del verno ove fuggite?

coi fior forse dormite?

Oh! voi felici cui la neve bianca 

le luci mai non stanca;

e mentre le campagne desolate

spiran tristezza all'alme,

voi sorridenti e calme

lo zeffiro d'aprile vi sognale.


(da «Cordelia», 24 novembre 1889)





UNA MARMOREA TOMBA


Una marmorea tomba, sempre adorna di fiori,

era tutta la fede, tutta la pace mia;

or non è che rimpianto. Più non vo' per la via

che adduce a quella tomba, recando freschi fiori.


Il sentiero che solca le pianure stellate

di turgide ninfee, nel sogno sol rivedo;

quasi ogni notte in sogno, lenta e tranquilla, incedo

pel tacito sentiero, per le valli infiorate.


E ancora i crisantemi siccome un giorno reco

e una blanda mestizia ne l'anima dilaga.

Impaziente il ciglio, come a quel tempo, indaga

se spuntano i cipressi laggiù. Nessuno è meco.


Alfine su la gelida tomba la bocca ardente

un lungo bacio imprime che santo fa la morte,

e l'anima accasciata, stretta a le chiuse porte,

la parola di vita dolce sonare sente.


Ma non è più che sogno. L'aurora ci divide,

tomba negletta, mio rimorso, mio dolore!

Lasciai le tue ghirlande strappare fior per fiore…

Pallida, muta, guardo chi s'allontana e ride.


(da "L'Ermo Sentiero", Cappelli, Rocca S. Casciano 1906, pp. 78-79)





DOLCEZZA ESTREMA


Autunno, ben conosco i tuoi languori

stemperati né cieli sonnolenti,

e l'urlo angoscioso de' tuoi venti

onde sfrondato ne l'inverno muori.


Ma oggi ancora vivi e fiamme, ed ori

hanno i viali a dispogliarsi lenti

e un trepido sorriso par che tenti

anche il giardino con gli ultimi fiori.


Oh benedetta questa luminosa

ora che versa la dolcezza estrema!

Cogliamo le corolle che domani


correbbe il verno con sue fredde mani.

E il cuore non abbrividi, non tema.

Il rosaio non muor se muor la rosa.


(da "L'Eterna chimera", "La Fiorita", Teramo 1913, p. 22)


sabato 2 novembre 2024

I crisantemi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Il bellissimo fiore chiamato "crisantemo" o "fiore d'oro d'Oriente" (fu coltivato per la prima volta in Cina nel 500 a. C.), ai giorni nostri è diffusissimo, soprattutto nel periodo autunnale. Tutti sanno che questo fiore abbonda nei cimiteri, allorquando ricorre il Giorno dei Morti, ovvero il 2 novembre. Ed è proprio tra la fine d'ottobre e l'inizio di novembre che il crisantemo fiorisce di più, preferendo non troppa luce e non eccessivo calore. Le 10 poesie che ho selezionato e trascritto, come avviene spessissimo in questo blog, sono state scritte da poeti italiani del Novecento; come accadeva nel passato ancor più che nel presente, questi fiori autunnali sono strettamente legati alle tombe dei cimiteri: luoghi questi ultimi assai visitati proprio nel penultimo mese dell'anno, ovvero il mese dei morti. In più di una poesia, i crisantemi divengono un vero e proprio simbolo delle persone care decedute; tramite questi fiori, i poeti, dolorosamente, ricordano i parenti e gli amici scomparsi da poco o da molto tempo; nei loro versi spesso si avverte, oltre ad un profondo dolore, una tangibile emozione, soprattutto se i cari assenti sono dei bambini. Vi sono poi coloro - la maggior parte - che si concentrano sulla rara bellezza delle piante, e decantano i crisantemi: gli ultimi, splendidi fiori dell'anno che sta per morire. 



I CRISANTEMI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



CRISANTEMI

di Leopoldo Baroni (1885-1963)


Anche le vendemmiali opre gioconde

finirono. La nebbia su dall'aie

fuma piovigginando alle tralciaie

                 meditabonde.


Finirono anche i cantici sul poggio

dove il sole s'indugia ogni dì meno;

e il cielo è bigio; e vestono il terreno

                 d'un manto roggio,


le foglie morte cui sospinge il vento,

le foglie morte cui persegue il cuore

come un suo, che lusinghe ebbe d'amore,

                 sogno, e ch'è spento.


E non di rose ormai, né d'elianti

sorriso più; ma sfatti crisantemi

dentro gli orti solinghi, fiori estremi

                 dei camposanti.


Poi, dimane, la neve. E noi dimane,

sedendo al fuoco nella chiusa stanza,

ci chiederem di tanta, ahimè, speranza

                 che ci rimane!


(da "Uomo d'orti", Nistri-Lischi, Pisa 1962, p. 34)





IL CRISANTEMO

di Guido Cavani (1897-1967)


Mi ritorna nel cuore

una parola e mi ricorda un fiore

funebre che assomiglia tanto a te.

Schiacciato fra le pagine di un libro

d'appunti lo ritrovo

in questa mattinata che s'allarga

sulla campagna nuda.

È l'inverno che torna e che mi porta

il freddo della morte. Già la brina

incrosta l'erba sopra la tua buca;

sale la nebbia su dal fiume ai tuoi

cipressi. Il fiore vizzo

mi stride fra le mani ed io lo getto

nel fuoco: fiammeggiando

per un istante il cuore tuo rivive.


(da "Poesie", Rebellato, Padova 1968, p. 194)





CRISANTEMI 

di Paride Chistoni (1872-1918)


Un’interrotta melodia sospira 

    con ròse note da l’angusta via: 

    cade una foglia su la mia finestra 

    e l'occhio sconsolato la rimira; 

un cieco canta ne l’angusta via. 


Povera foglia, chi ti trasse al cespo 

    lieto di verde e di vivaci fiori, 

    al rigoglioso palpitar d’amori 

    nel brusire del pensile giardino? 

È più flebile il canto del meschino. 


E il mio spirto si chiuse a la speranza 

    e al sole gli occhi tuoi, povero cieco; 

    e a me poco di vivere m'avanza, 

    foglia, cui manca l’alito vitale: 

e m'intono la nenia sepolcrale.


(da "Ritmi di Valdimagra", L. Battei, Parma 1906, p. 56)





CRISANTEMI

di Emilio Girardini (1858-1946)


Non li volevi in orto i crisantemi. 


Altri fiori a l’altare a mani piene 

portavi a maggio e quanto quel tuo vago 

vestito intorno a cui stancasti l’ago, 

dentro la bara, ahimè, ti stava bene! 


E se il pensier che le mortali spoglie 

ti composero in esso mi fa male, 

lo sa questa reliquia, il tuo ditale, 

su cui tarda una lagrima si scioglie. 


Ne le tue brevi orecchie, due marine 

conchiglie assorte in tenui echi lontani, 

vorrei, facendo imbuto de le mani, 

dir mille cose e mille, senza fine. 


Oh! bastasse al tuo gelo ora lo scialle 

che, in villa, quando in umidi e sottili 

vespri accusavi brividi febbrili, 

ti racconciavo ai fianchi e su le spalle. 


Non li volevi in orto i crisantemi. 


(da "Poesie scelte", Arti Grafiche Friulane, Udine 1938, pp. 117-118)





CRISANTEMI ROSSI

di Adolfo Jenni (1911-1997)


Crisantemi di modesto sangue

nei barattoli di latta

sui banchi all'aperto del novembre.

È vostro quel sentore

di nebbia e spazio

con dentro cose

che non vogliono morire;

di primavera dissepolta

e presto risvanita.

Un sole di seta lambe

il marciapiede,

la venditrice di campagna.

Nel giro d'un sogno chiude

il vostro grumo sfilacciato.

Curvi, guardate la terra

ch'è tutta pelle di foglie,

sterminato autunno.


(da "Addio alla poesia", Guanda, Parma 1959, p. 14)





GRISANTEMI

di Marco Lessona (1859-1921)


Questi, che il pallido sol di novembre baciava

Là, nel giardino, o diletta, io, pensando


A voi, raccolsi e il piccolo mazzo oggi invio

A voi, splendente fiore di giovinezza.


I bianchi grisantemi vi dican: Noi siamo, o gentile,

L'ultimo fior dell'anno; tu sei l'ultimo sogno


Della sua stanca vita... Nel triste desiderio del sole

Noi morremo tra poco... Forse che l'amor suo


Dovrà morire anch'esso perché gli manchi il soave

Raggio dei tuoi begli occhi sorridenti d'affetto?


(da "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930, p. 127)





IL CRISANTEMO

di Guido Marta (1889-1960)


Odora il crisantemo, ora, negli orti

al sole, come una verginea bocca,

vogliosa di baci e non mai tòcca,

fiorita nell'april giallo del morti.


Al sole pigra si protende: scocca,

nel silenzio dell'ora, un bacio: gli orti

all'improvviso si son fatti accorti

che, nel queto meriggio, un cuor rintocca.


E un desiderio rapido li scuote:

poi ch'ànno visto, nel dolce atto china,

l'Amante bianca dalle labbra vuote.


...E la Morte rivarca quella soglia,

mentre dietro il suo cuore che cammina,

il crisantemo pallido si sfoglia.


(da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola Letterario, Catania 1922, p. 99)





IL CRISANTEMO 

di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919)


E non perenne come stel d’acanto 

che da marmi fiorì la radiosa 

Ellade; né d’amor tenero vanto 

come al latin tripudio la rosa. 


Straniero; e in cuor con un sottile incanto 

tu infondi una tua grazia pensosa 

di luna, e un tuo desìo che di rimpianto 

odora come antica «aria» amorosa. 


Lent'«aria», eco di danza, il pensier vola 

a un lido, come augel su tremol’ali, 

ove pinte beltà, cui la viola 


del languore pe’ volti il minio screzia, 

vagan in aurei scalmi pe’ canali 

azzurri d’una oriental Venezia! 


Camaiore, ottobre 1915.


(da "Sillabe ed Ombre", Treves, Milano 1925, p. 48)





CRISANTEMI

di Guido Ruberti (1885-1955)


Voi che fiorite a l'ombra de i cipressi

su le povere fosse abbandonate

forse ascoltando i mormorii sommessi


per le limpide notti, a 'l ciel d'estate

o se scroscia la pioggia ed urla il vento

traverso i fori di mascelle arcuate;


voi che cresceste il fiore sonnolento

forse da 'l cuor di bianca giovinetta

cui gli ideali caddero a 'l cimento


e ancora il bruno fidanzato aspetta;

fiori di sogno, bianchi come neve

che pura fiocchi sovra eccelsa vetta;


che fiorirete come sogno lieve

là dove alfine troverò riposo

quando non mi sarà la terra greve:


amo il sorriso tacito e pensoso

de gli occhi vostri pieni di mistero

e l'aroma sottile ed oblioso,


amo in sogno coperto il mio sentiero

di bianca messe come non fu mai

fiorito in Maggio il mesto cimitero;


e moriran le rose ne i rosai

che a 'l vento e a 'l gelo ancor su le mie porte

la fedel messe tu ritroverai


de i crisantemi da 'l cespuglio forte,

timidi come piccoli bambini,

vigili sentinelle della morte,


bianche sfingi da gli occhi sibillini.


(da "Le fiaccole", Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905, pp. 61-62) 





IL CRISANTEMO GIALLO

di G. A. Sanguineti (?-?)


Gelido spicca su la bottoniera

quasi fosse un enorme cuore giallo,

o cuore freddo e insano

ne l'eleganza della veste nera!


Tacito e fermo guarda con sarcasmo

la gente che d'intorno gli ribolle,

e nella torma folle

esala intanto il suo sottile miasmo


serenamente. E pare

un segnacolo triste del Destino,

un pacato ricordo sul cammino,


ricordo a chi non vuol più ricordare,

ricordo di quel Fato che ci opprime

con la feroce sua tranquillità.


(da "Il sorriso della sfinge", Montorfano & Valcarenghi, Genova MCMIX, p. 19)



Henri Biva, "Chrysanthemums and roses in a vase on a salver"
(da questa pagina web)



domenica 20 ottobre 2024

Tre poesie di Gabriele Briganti

 Gabriele Briganti (Ripafratta 1874 - Lucca 1945) non pubblicò mai raccolte di versi; svolse per tutta la vita l'attività di bibliotecario, limitandosi saltuariamente a dare alle stampe alcuni suoi studi su Giovanni Pascoli. A proposito del poeta romagnolo, nel 1901 fece uscire un opuscolo con la famosa poesia Il gelsomino notturno, proprio per le nozze dell'amico Briganti. Ma ciò che in questo post voglio mettere in risalto, è la segreta e quindi inedita scrittura di versi del bibliotecario toscano, che rimase sempre un appassionato di poesia non soltanto pascoliana. Il primo a fare cenno di tale celata attività fu Pietro Pancrazi, in un saggio a lui dedicato subito dopo la sua scomparsa. Quindi Antonio Baldini, sulle pagine della rivista Fiera Letteraria, pubblicò tredici poesie del Briganti, ritrovate fra le sue carte inedite e familiari. Si tratta solamente di un saggio - come specifica lo stesso Baldini - del corpus poetico di Briganti, che evidentemente deve essere ben più consistente. Da questo saggio ho trascritto tre poesie che attestano, oltre ad una affinità incontestabile con la poesia del Pascoli, una capacità e un talento poetico che fanno del Briganti un vero e originale poeta. Fu quasi certamente l'eccessiva timidezza (peculiarità caratteriale che lo avvicinava una volta di più a Giovanni Pascoli) ad impedire al bibliotecario toscano di trovare il coraggio per proporre ad un editore i suoi ottimi versi; peccato, sarebbe stato interessante poter avere tra le mani un volume di liriche del Briganti, e leggere per intero la sua opera poetica.




Da "TREDICI POESIE DI GABRIELE BRIGANTI"


III.

Fredda estate dei morti, estate mia,

cader di foglie e sogni in un languore

chiaro di sole, e di malinconia

                     chiusa nel cuore.


Fredda estate dei morti: ultima luce

chiara nel cielo; poi, nuvole e pianto,

e poi, per me, la strada che conduce

                     al camposanto.





VII. 

Dolce l'oblio. Poi che tramontan l'ore

de la tua vita, e non un raggio pio

più scalda il gelo del tuo triste cuore,

dolce l'oblio…


Dolce l'oblio di un troppo dolce amore

che ti sorrise, appena, in un addio

tacito e ti lasciò col tuo dolore.


Poiché tutto scolora e tutto muore

e vano è il sogno, ormai, Signore Iddio,

sul mio cammino sbocci, unico fiore,

dolce l'oblio…





X.

Solitudine mia, tu mi trapungi

il seno di sottil malinconia,

da che le illusioni ultime lungi

con la speranza ultima van via.


Solitudine mia, di già la notte,

notte senza stellato e senza aurora,

con le tenebre cala, ininterrotte:

solitudine mia, venuta è l'ora.


Non odi? già la pallida fanciulla,

sorella Morte, il ventilar dell'ala

verso te muove. Attendi un poco e sulla

sua dolce bocca alfin l'anima esala.


(da «Fiera Letteraria», Anno 1, N. 26, 3 Ottobre 1946)


domenica 13 ottobre 2024

"Canto autunnale" di Umberto Bellintani

 Soltanto di recente ho avuto modo di leggere l'unica raccolta poetica di Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po 1914 - San Benedetto Po 1999) che ancora non conoscevo. Ricordo che nel 1998: anno in cui fu pubblicata - insieme ad un'altra che ricapitolava l'intero percorso poetico dello scrittore lombardo - pur sapendo che era uscito, trascurai il volume, pensando che non aggiungesse gran che al resto dell'opera in versi di Bellintani. Ora so per certo che sbagliavo, poiché Canto autunnale (è questo il titolo della raccolta) è uno dei libri di poesie più belli che abbia letto in questi ultimi anni. Qui c'è, di nuovo, il migliore Bellintani: un poeta allo stesso tempo semplice e complicato, dotato di un talento eccezionale ma, purtroppo, non particolarmente prolifico. Sicuramente sarebbe il caso, dopo ben venticinque anni dalla sua scomparsa, che uscisse un volume con la sua intera opera poetica, comprendente anche un ulteriore libro pubblicato postumo non molti anni fa. Canto autunnale è stato pubblicato a Verona, da Perosini Editore; contiene in tutto 45 poesie, divise in quattro sezioni senza titolo, ognuna preceduta da una citazione di poeti o di scrittori famosi. Molto bella è anche la prefazione alla raccolta, scritta dal poeta Italo Bosetto. Ovviamente consiglio a chiunque di reperire e di leggere per intero questo assai prezioso volumetto di 88 pagine che è, in sostanza, una vera e propria "perla" di poesia. Ecco, infine, tre poesie che ho trascritto da Canto autunnale.





NULLA POTRAI


Qui tu cerchi un barlume di luce, una certezza

che in sé contenga tutta l'immensità.


Tu vuoi fermarti così, a metà del tuo cammino

e il duro nodo disbrogliare della storia.


Nulla potrai nemmeno in capo al giorno:

un uomo è appena una goccia d'universo


che dentro il cuore della vita si consuma.


Quietati dunque. Già sai che la speranza

or non ti resta a dar senso al tuo dolore.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 27)





CONTINUARE


Bisogna continuare a credere nella poesia,

bisogna continuare a vivere di poesia,

a vivere la vita.

Bisogna uscire dalla folla,

credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,

tornare alla contemplazione dei fiori,

della luna, delle piccole e grandi cose.

Lasciamoli agli altri gli stadi

le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze

dove s'infolla l'essere e muore.


Se uccidi un grillo, quale strada

può accogliere il tuo piede, quale cielo

il tuo occhio?

Quale cavallo la tua mano, quale fiore

il tuo sorriso?


Tutto è così difficile, impossibile... Ma chissà.

È nel mistero il clamore bianco della gioia.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 36)





È DIO


Semplice:

quando vedi qualcosa di bello

di più bello o di meno bello

è Dio che vedi

sempre Dio


perché Dio è la terra

il sole e le stelle

è la mattina la sera e la notte.

La vita la morte e la resurrezione

sono sempre Dio.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 63)



domenica 6 ottobre 2024

La poesia di Adolfo Jenni

 Adolfo Jenni nacque a Modena nel 1911 e morì a Berna nel 1997. Stabilitosi a Parma con la famiglia (suo padre era svizzero tedesco e sua madre modenese), ivi frequentò il liceo per poi iscriversi all’Università di Bologna, dove nel 1935 si laureò in Lettere. L’anno successivo emigrò in Svizzera, avendo preferito la nazionalità elvetica a quella italiana, avendo trovato enormi difficoltà a lavorare stabilmente nella nazione di nascita. A Berna divenne insegnante, e nella capitale svizzera completò la sua carriera lavorativa durata quarant’anni. Jenni, letterariamente parlando, rimase sempre italiano, preferendo in modo assoluto la nostra lingua a quella tedesca – ovvero del Cantone nel quale risiedeva e lavorava –. Ebbe fortuna come prosatore e saggista, meno come poeta; eppure, secondo me, la sua opera in versi, del tutto particolare e direi unica nel panorama letterario italiano del XX secolo, possiede delle qualità indubbie. Lo Jenni, dopo aver ripudiato le sue prime raccolte risalenti agli anni ’30 del Novecento, andò via via raffinando e precisando il suo fare poetico, caratterizzato da strutture assai differenti, che vanno dalle forme chiuse ai versi liberi; dai recitativi (è questo anche un titolo di un suo volume) alle prose poetiche. La poesia, praticamente, rimase sempre centrale negli interessi e nelle preferenze dello scrittore italo-elvetico, tant’è che le sue raccolte (la prima è del 1943 e l’ultima del 1992) attraversano un arco temporale vastissimo, che sfiora i cinquant’anni. In conclusione riporto l’elenco delle opere poetiche di Jenni, comprese quelle ripudiate, a cui seguono tre bellissime poesie che già da sole rendono l’idea del talento di questo scrittore ingiustamente trascurato.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Le notti e i giorni", Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1937.

"Foglie", Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1938.

"Le bandiere di carta", Collana di Lugano, Lugano 1943.

"Addio alla poesia", Guanda, Parma 1959.

"Recitativi", Pantarei, Lugano 1971.

"Le occorrenze recitate", Pantarei, Lugano 1976.

"Ricapitolazione", Pantarei, Lugano 1980.

"Poesie e quasi poesie", Casagrande, Bellinzona 1987.

"Mia cara giardiniera", Casagrande, Bellinzona 1992.

 

 



 

 

Testi

 

 

 PRIMASERA

 

  La bambina magra e selvaggia rincorre la sua palla rossa che le è sfuggita per incontrare la sera. Infatti, alla prima ombra dove rotola, diviene ormai grigia. La luce elettrica dell'unico negozio di fiorista, nel sobborgo dignitoso e povero, è di un rosa goloso. I petali si colorano a caramelle vitree, e le foglie grasse e puntute si metamorfosano a lance di stagnola ramarro, lamiera verniciata.

  È quell'ora fuggitiva di prima sera, che pare sempre autunno, un autunno sereno, appena fresco, fatto soprattutto d'aria, così stinto com'è.

 

(da "Le bandiere di carta", Collana di Lugano, Lugano 1943 p. 31)

 

 

 

 

 

ORCHESTRA IN DICEMBRE

 

  La grande orchestra esalava

gli affreschi di angeli e rose

l'andante in sordina

della Sinfonia opus 9 numero 2

in mi bemolle maggiore di Bach,

e il signore dagli occhi celesti

pensava alla sua età più giovane,

alle occasioni perdute.

  Mentre poi si effondeva

il Concerto per violoncello e archi

(Largo, Allegro, Lento alla siciliana,

Allegretto) di Antonio Vivaldi,

rivide con lancinante

nostalgia la giovane donna

che anni prima aveva più amata,

ora morta, ora più niente.

  E quando infine,

dopo il più lungo intervallo,

la stessa orchestra scandiva

la Simple Symphonie

di Benjamin Britten

(Boisterous Bourrée,

Playful Pizzicato,

Sentimental Saraband,

Frolicsome Finale),

capì davvero, sentiva,

di avere sciupato da sempre

la sua vita, per sempre.

  Ma dopo il concerto,

uscito a rivedere le stelle

(le stelle gremite, nel cielo

di quel dicembre sereno),

per l'eco nell'animo dei suoni

combinato col palpito arcano,

angoscioso nell'infinto, degli astri,

si ricordò la gente,

fuori da lui:

con le altre pene di anima e corpo

i travagli di classe e di miseria

che aspettavano, e bisognava risolverli.

  E la storia del suo io,

in ultimi giorni dell'anno

finalmente moderni,

prese proporzioni più miti.

Se quei princìpi si fossero incarnati,

a riudire le stesse musiche

le avrebbe trovate, in buon ordine, trionfali.

Da mattina di Capodanno.

 

(da "Le Occorrenze recitate", Pantarei, Lugano 1976, pp. 41-42)

 

 

 

 

QUANDO NON SEI PIÙ GIOVANE

 

Quando non sei più giovane, ogni calare del pomeriggio in sera è per l'animo, anche se non lo pensa la mente, il simbolo del deperire e morire: di tutto, di te.

 

Ogni giorno così, per quanti anni, passati, futuri.

 

E in quella figurazione ci vivi, ben dentro. Nido fondo e ruvido.

 

Il lento spettacolo t'invade da ogni parte: quel mutare del clima, il colore nuovo dell'aria,

 

come se ogni giorno si succedessero due stagioni.

 

A lungo andare è una vicenda che ti sfibra, subdola.

 

Si ripete a distanza troppo breve.

 

Migliaia di volte. E con una regolarità che puoi prevedere, fino all'alba.

 

Ogni sera ti spegni anche tu come una fiaccola consunta.

 

M., 16.2.72.

 

(da "Mia cara giardiniera", Casagrande, Bellinzona 1992, p. 37)