venerdì 21 giugno 2024

Cinque poesie di Renzo Pezzani

 Come ho già ribadito più volte, ad un certo punto della mia vita andai a rispolverare ed a riscoprire vecchi libri di scuola, che avevo accantonato in uno sgabuzzino pieno di cose inutili. Nei testi scolastici delle scuole elementari ritrovai i nomi di poeti dimenticati o quasi, alcuni dei quali avevano scritto soprattutto poesie per il pubblico infantile. Uno di questi poeti è Renzo Pezzani (Parma 1898 - Castiglione Torinese 1951). Il suo nome, oggi, è poco ricordato; di lui, al massimo, vengono considerate le raccolte poetiche in dialetto parmense. Eppure, se - come ho fatto io - qualcuno volesse leggere le altre opere in versi di Pezzani, scoprirebbe un buon poeta. Ciò che colpisce maggiormente, nella poesia di Pezzani, è la disarmante semplicità (che a volte si tramuta in vera e propria ingenuità), così come un sincero amore - che scaturisce da una salda fede cristiana - rivolto a tutte le creature più inermi e delicate della terra. In effetti, quando era ancora in età giovanile, lo scrittore parmense ebbe degli elogi da illustri critici letterari, ed il suo nome era quasi sempre presente nelle antologie della migliore poesia italiana del XX secolo. Soltanto dopo che morì, la fama del Pezzani, seppur lentamente, andò scemando, fino a che la sua opera poetica in italiano fu praticamente ignorata da tutti. Oggi, a mio parere, andrebbe rivalutata in positivo, magari prendendo in considerazione soltanto alcune raccolte che furono fondamentali per le antologie scolastiche di quasi un secolo or sono. Da tali raccolte, che, all'incirca vanno da Angeli verdi (1932) a Innocenza (1950), ho estratto cinque poesie attestanti quanto detto sopra. 


Renzo Pezzani




IL FICO


Questo che piange lacrime di miele

e oltre i muri lo si vede sporto

abitatore placido dell'orto

e della casa vigile e fedele;


aspro di foglia e tenero di legno,

è il fico, che dà i bei frutti carnosi

che piacciono anche ai bimbi non golosi.

L'ape l'ha scelto a luogo di convegno.


Macchia d'un verde cupo il più appartato

cantuccio d'orto e muro di cascina.

T'offre il fico da fronda sì vicina

che pare un buon gigante inginocchiato.


(da "Angeli verdi", SEI, Torino 1932, pp. 91-92)





RONDINE PELLEGRINA


Ecco la rondine pellegrina

dono improvviso della mattina.

Emigrante che torna senza fortuna

orna la mia casa d'innocenza

come l'orlo d'una cuna.


Sei tu, sempre tu, rondine mia,

formicola insonne dell'aria,

operaia di poesia;

sei tu la fante del cielo

col grembiule di percalle bianco

sulla veste di nero satin,

e le chiavi del paradiso al fianco.


Sei tu l'Angelo della primavera sempiterna

che l'agile testa sporgi dal nido

come la vampa da una lucerna.


O infermiera dei mali arcani,

consolatrice, sorella:

sei tu che metti e spegni la mia stella

ne' benedetti cieli antelucani.


Ora prego il Signore

che dalla morte ti scampi

poi che cammini sul sentiero dei lampi;

e non si perda l'evviva

del tuo celeste messaggio,

fiore in bocca alla vita,

ambasciatrice di maggio.


(da "Sole, solicello", La Scuola, Brescia 1933, pp. 12-13)





AGNELLO

 

Nessuno ti pettina i ricci,

nessuno ti bacia sul muso,

la mamma è partita dal chiuso,

sei piccolo e senza capricci.


L’erbetta più tenera e fine

la cerchi nel prato da te;

si sente tremare il tuo bee

per vaste pianure e colline.


Per quel campanello che scuoti

le valli non sono più mute;

la terra imbandita di rute

riporti ad incanti remoti.


Guidato a più libera altura

tra boschi, torrenti e perigli,

mio piccolo agnello somigli

un poco di neve che dura.


E se questo sole d’aprile

sciogliesse te in limpido corso,

il mare sarebbe il tuo ovile

ma io vorrei berti d’un sorso;


portarti, innocenza, con me,

al suono del tuo campanello

mio piccolo, bianco fratello

che preghi il Signore col bee.


(da "Belverde", SEI, Torino 1935, pp. 115-116)





PREGHIERA PER IL MINATORE


Signore, mio Signore,

proteggi il minatore.


Come formicola sulla terra

egli scende a cercar metalli,

carboni, sali, cristalli.

Porta un lume in tenebria

ghermisce roccia e lava;

con l'unghia s'apre la via,

col piccone scava.


Signore, mio Signore,

per lui non ride giorno né fiore:

per questo nostro povero fratello

mai che si fermi a cantare un uccello,

mai che una mano gli terga il sudore,

tanto è lontano dal mondo, Signore.


Dietro la roccia compatta e tremenda

mai che una gioia per lui risplenda;

solo la morte gli tocca la faccia

quando la frana ruinando lo schiaccia.


Tieni, o Signore, su lui l'occhio fisso;

scendi, o Signore, con lui nell'abisso.

Egli ha la madre, la sposa, i suoi figli,

solo per essi va incontro ai perigli.


Per l'uomo minatore

ti prego, mio Signore.


(da "Il fuoco dei poveri", Società Editrice "La Scuola", Brescia 1939, pp. 43-44)





FELICITÀ


Il grillo salta

da un’erba a uno spino.

Quando la notte sarà nel giardino

tutta la gente cantare l’udrà.


Salta l’agnello

fa mille capricci

ma mentre salta gli ride tra i ricci

un campanello di felicità.


Salta il capretto

ma più non ritorna

da quella nuvola. Mette le corna,

diventa luna sottile che va.


Salta il poledro

nitrisce contento.

Senza la sella galoppa col vento,

senza la briglia chissà dove andrà.


(da "Innocenza", Società Editrice Internazionale, Torino 1950, p. 12)


giovedì 20 giugno 2024

Due poesie di Guido Botta

 Lo scrittore e critico letterario Enrico Falqui (1901-1974), nel 1956 diede alle stampe un corposo volume che definirei fondamentale nell'ambito della poesia italiana del secondo dopoguerra. Io, diversi anni or sono, acquistai la 2° edizione di quest'opera, uscita nel 1957 presso la Casa Editrice Carlo Colombo di Roma. Tale volume s'intitola La giovane poesia, e comprende un interessantissimo saggio di Falqui, seguito da una parte prettamente antologica, in cui vengono selezionati versi di 140 poeti italiani nati tra il 1915 ed il 1936. Quindi, nella parte intitolata Bibliografia, il lettore trova un elenco di saggi critici e di antologie relative all'argomento trattato; nella terza parte di questa sezione, col titolo di Autori, vengono elencati ben 282 poeti (compresi gli antologizzati) rientranti nelle date limite di nascita tenute presenti nella parte antologica. Leggendo quest'ultimo elenco, ho preso in considerazione altri poeti che conoscevo poco o nulla; di loro ho cercato, nei cataloghi delle librerie antiquarie italiane, alcuni volumi poetici, non sempre citati dal Falqui per ragioni cronologiche. Guido Botta è uno di questi poeti; le notizie che lo riguardano, almeno in rete, sono pochissime: nacque a Napoli nel 1918, e pubblicò diverse opere in versi e in prosa. Ignoro la data della sua morte (sempre ammesso che non ci sia più). Leggendo le due raccolte da me acquistate, ho dedotto che il suo fare poetico è senz'altro da segnalare; ecco, allora, due poesie dello scrittore napoletano ingiustamente caduto nell'oblio. 


Guido Botta




TORPORE


Odio ciò che finisce. Odio ogni suono

che si spegne, ogni lagrima che si asciuga,

ogni fiore che invecchia; odio ogni ruga

che segna un volto, ogni pensiero buono


che si corrompe, ogni ora che dilegua

ogni breve momento di dolcezza

perduta, e il vuoto che non dà più tregua,

quando il cuore s'ingolfa. Amara ebbrezza, 


rammentarsi d'un luogo, dire un nome,

svegliare un sentimento intorpidito……

È un giuoco astratto. Tu non l'ami. Tu


sei fatta per portare all'infinito

un inganno crudele. Non sai come

uscirne, o forse non vuoi uscirne più.


(da "Limbo ad oriente", Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1957, p. 55)





FELICITÀ


Com'è breve il cammino

della felicità: ti sfiora,

appena un tòcco, ed è via.

Ti volgi a guardarla. È sparita

nel giro di un giorno di un'ora.

Eppure, passando vicino,

ti brucia, ti lascia un segno

indelebile: il dolore.

Un attimo e sei arso. Come pegno

ti resta tutta la vita

e dolore, dolore, dolore.


(da "Disamore in diesis", Rebellato, Padova 1960, p. 21)

martedì 18 giugno 2024

Le ortensie in una poesia di Vittorio Sereni

 Le ortensie sono piante di una bellezza ineguagliabile, che fioriscono dall'inizio di giugno fino all'autunno inoltrato. Mia madre, che amava quasi alla follia i fiori, ne aveva piantate un paio nel nostro giardino di casa. Le ricordo ancora perfettamente, malgrado siano trascorsi più di quarant'anni. Certo, io non ho mai amato come lei il giardinaggio ed i fiori (grande fu il suo rammarico per questo motivo), però non posso dimenticare la bellezza di quelle piante che la mamma sapeva curare in modo perfetto. Ora, ogni volta che mi succede di vedere, in qualche luogo, delle ortensie bellissime (ed è accaduto anche di recente), mi è giocoforza ripensare a lei, e alle "sue" ortensie dai colori delicati eppur splendenti.

Anche la poesia senza titolo che ho trascritto di seguito a questo preambolo parla di ortensie; è di Vittorio Sereni (Luino 1913 - Milano 1983) e fu pubblicata nella raccolta d'esordio dello scrittore lombardo: Frontiera (Edizioni di «Corrente», Milano 1941); in realtà, tutte le cinque poesie - compresa questa - che fanno parte della sezione Versi a Proserpina, furono aggiunte al volume citato soltanto in una ristampa del 1966 (All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1966), pur risalendo agli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Frontiera. In questi versi le ortensie divengono simili agli esseri umani, e, come loro, sono in grado di parlare; così avvertono il poeta che una figura femminile non precisata - ma certamente cara al poeta -, tale Proserpina (il nome è fittizio o simbolico), è partita dal luogo dove i due hanno vissuto per un periodo assieme. Tale dipartita ha conseguenze negative sul paesaggio circostante che, anche a causa dell'ormai declinante stagione estiva, improvvisamente assume i primi aspetti dell'autunno, manifestantisi in pioggia e umidità. Secondo me è - in assoluto - una delle più belle poesie di Sereni.




[DICONO LE ORTENSIE]


Dicono le ortensie:

- è partita stanotte 

e il buio paese s'è racchiuso

dietro la lanterna 

che guidava i suoi passi - 

dicono anche: - è finita l'estate, è morta in lei 

e niente ne sapranno i freddi 

verdi astri d'autunno -.

Un cane abbaiava all'ora fonda

alla pioggia all'ombra del mulino 

e la casa il giardino

si vela di leggera umidità.


(da "Frontiera. Diario d'Algeria", Guanda, Parma 2013, pp. 205-207)


lunedì 17 giugno 2024

Due bellissime poesie dei tempi della scuola

 Pianto antico di Giosuè Carducci (Valdicastello 1835 - Bologna 1907) e Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912) sono due poesie molto famose, che, ai tempi in cui io ero studente (ma sicuramente anche prima), era facilissimo trovare fra le pagine dei testi scolastici delle scuole medie inferiori e superiori. La prima, che il poeta toscano dedicò al figlioletto Dante prematuramente scomparso, la imparai a memoria - probabilmente già alle elementari - e mi rimase nella mente per decenni. La poesia di Pascoli, invece, la scoprii molto più tardi, andando a rileggere proprio uno di quei vecchi libri di scuola accantonati da qualche parte per anni e anni. Giustamente, è considerata un capolavoro della poesia italiana di tutti i tempi, ed è anche, citando il critico Giuseppe Nava (1937-2019), "uno dei risultati più nuovi e maturi del simbolismo pascoliano".




PIANTO ANTICO

di Giosuè Carducci 


L'albero a cui tendevi

La pargoletta mano,

Il verde melograno

Da' bei vermigli fior,


Nel muto orto solingo

Rinverdì tutto or ora

E giugno lo ristora

Di luce e di calor.


Tu fior de la mia pianta

Percossa e inaridita,

Tu de l'inutil vita

Estremo unico fior,


Sei ne la terra fredda,

Sei ne la terra negra;

Né il sol più ti rallegra

Né ti risveglia amor.


1871


(da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1992, p. 105)





IL GELSOMINO NOTTURNO

di Giovanni Pascoli (1855-1912)


E s'aprono i fiori notturni,

nell'ora che penso a' miei cari.

   Sono apparse in mezzo ai viburni

   le farfalle crepuscolari.


Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

   Sotto l'ali dormono i nidi,

   come gli occhi sotto le ciglia.


Dai calici aperti si esala

l'odore di fragole rosse.

   Splende un lume là nella sala.

   Nasce l'erba sopra le fosse.


Un'ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

   La Chioccetta per l'aia azzurra

   va col suo pigolìo di stelle.


Per tutta la notte s'esala

l'odore che passa col vento.

   Passa il lume su per la scala;

   brilla al primo piano: s'è spento...


È l'alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

   dentro l'urna molle e segreta,

   non so che felicità nuova.


(da "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, p. 246) 


domenica 16 giugno 2024

"Mia giovinezza" di Ada Negri

 Quando, più di trent'anni or sono, mi appassionai della poesia italiana del '900, una volta chiesi a mia madre che era piuttosto ferrata in fatto di letteratura, chi fosse la migliore poetessa italiana del XX secolo; lei ci pensò un po', quindi mi disse che a suo parere era Ada Negri (Lodi 1870 - Milano 1945). Mi meravigliai, perché io non conoscevo affatto questo nome; lei continuò dicendomi che quando era giovane (verso la fine degli anni '50), la Negri ancora veniva letta e ricordata; poi, per motivi che non sto qui a dire, è stata ignorata per circa quarant'anni. Qualche anno dopo, guardando attentamente gli scaffali di una libreria romana, vidi - finalmente - un libro che raccoglieva una piccola parte delle poesie di Ada Negri; questo libro s'intitola Mia giovinezza, e fu pubblicato dalla Rizzoli di Milano nel 1995. La struttura di Mia giovinezza è la seguente: dopo un Avvertimento non firmato, ma comunque molto bello, inizia la vera e propria selezione delle poesie della Negri (in tutto 41); la scelta, si è concentrata sulla seconda fase poetica della scrittrice lodigiana, che va rintracciata dalla raccolta Vespertina (1930), a Fons amoris (postuma, 1946). Effettivamente anch'io concordo nella decisione di privilegiare questa fase più matura, poiché avendo letto pressoché tutte le poesie della Negri, ritengo che sia la migliore per diversi motivi; volendo sintetizzare, si può dire che nella fase più matura del suo excursus poetico, la Negri si dimostri meno istintiva, e privilegi l'aspetto meditativo che si arricchisce di alcuni elementi fondamentali, relativi ad una sincera fede religiosa, una lieve ma facilmente riscontrabile malinconia e una propensione a dare sempre maggiore spazio ai ricordi più struggenti, spesso collegati con le manifestazioni stagionali della natura, che aiutano la poetessa a far rivivere dentro di lei i migliori momenti della sua vita passata. Dopo le poesie, si può leggere un saggio del poeta Davide Rondoni, intitolato La sorpresa nell'accostarsi; nell'ultimo capitolo di detto saggio, viene ripercorsa tutta la carriera poetica e non solo della scrittrice lombarda. Quindi segue una Cronologia, dove, divisi in tre caselle distanziate si elencano una serie di eventi riguardanti La vita politica e sociale, La vita e le opere di Ada Negri e La vita letteraria e artistica; tale elenco parte dal 1870, ovvero la data di nascita della Negri, e si conclude con il 1945: anno che coincide con la scomparsa della poetessa. Chiude il volume una Nota bibliografica. Ecco, infine, due poesie trascritte da Mia giovinezza.





I CANDELABRI 


Gl’ippocastani a maggio, in fronda e fiore 

son quali immensi candelabri accesi. 

A cento, a mille ardono i bianchi ceri 

sui candelabri di smeraldo, eretti 

verso l’azzurro a render grazie a Dio 

dator d’ogni bellezza in cielo e in terra. 

Ma chi li accese, i palpitanti ceri? 

Chi veglia a che durin le fiamme, sino 

a quando il maggio languirà nel giugno? 

E il dolce vento che le move, quale 

musica esprime, ch’io n’ho riverenza 

senza capirla? E perché mai non sono 

una d’esse? Gran sorte, o Dio, risplendere 

per Te com’esse mentre il maggio dura, 

morir com’esse col morir del maggio. 


(da: Ada Negri, "Mia giovinezza", Rizzoli, Milano 1995, p. 50)





OMBRE D'ALI


Cielo di giugno, azzurra giovinezza 

dell’anno; ed allegrezza 

di rondini sfreccianti in folli giri 

nell’aria. Ombre ombre d’ali  

vedo guizzar sul bianco arroventato 

del muro in fronte: ombre a saetta, nere: 

vive, al mio sguardo, più dell’ali vere. 

Traggon dal nulla, scrivono col nulla 

parole d’un linguaggio 

perduto; e le cancellano  

ratte, fuggendo via fra raggio e raggio. 


Vita che mi rimani, 

fin ch’io veder potrò quelle parole 

strane apparire scomparir sul muro 

candente al sole

(forse un tempo io le dissi a chi m’amava, 

egli le disse a me, bocca su bocca), 

vita che mi rimani, ancor dolcezza 

puoi darmi. Basta 

l’ombra d’un bacio alla memoria, basta 

l’ombra d’un’ala alla felicità. 


(da: Ada Negri, "Mia giovinezza", Rizzoli, Milano 1995, p. 63)


domenica 9 giugno 2024

La poesia di Salvatore Quasimodo

 Salvatore Quasimodo (Modica 1901 – Napoli 1968) è uno di quei poeti importanti che si dovrebbero studiare a scuola; tale io me lo ricordo, non tanto perché ai tempi in cui ero studente vi furono delle lezioni scolastiche in cui si parlasse della sua poesia, bensì per una curiosità personale, che mi portò a sfogliare il libro di testo della materia “Lettere” quando frequentavo il liceo, ed a leggere alcuni versi del poeta siciliano; in particolare ricordo la brevissima lirica intitolata Ed è subito sera, che è anche tra le sue più celebri, o Alle fronde dei salici: testo che quando uscì, subito dopo la fine della 2° Guerra Mondiale, rappresentò qualcosa di straordinario per la letteratura italiana e non solo. Ma per capire in modo abbastanza esauriente come è nata e si è sviluppata la poesia di Quasimodo, ho pensato di trascrivere un frammento tratto dall’introduzione ad alcune poesie dello scrittore modicano, selezionate da Alberto Frattini e Pasquale Tuscano nell’antologia Poeti italiani del XX secolo:

 

Nel quadro dell’ermetismo, «corrente di punta» della nostra lirica novecentesca, Quasimodo, che alla fondazione di essa aveva dato un apporto determinante, costituisce un caso particolare, abnorme diremmo se peculiarità della poesia non fosse proprio la sua facoltà di rinnovarsi, imprevedibilmente, dal suo interno: muovendo infatti da un’esperienza di macerata introversione e intensa auscultazione dell’io profondo Quasimodo si apre, nel tempo del secondo conflitto mondiale, alle più drammatiche sollecitazioni della realtà e della storia: il suo sentimento, in un primo tempo ancora indifferenziato, «senso di tutte le cose insieme» (Solmi), e già intriso di una forte carica etico-religiosa, può allargarsi e immedesimarsi, così, nella tragedia dei molti, animandosi, in un linguaggio meno quintessenziato, delle più profonde tensioni civili e ideologiche che sollecitano l’uomo, dopo l’immane catastrofe, ad una radicale palingenesi.¹

 

E il poeta siciliano, proprio grazie alla sua seconda fase, caratterizzata da una poesia fortemente “impegnata”, trovò grandi consensi e notorietà, a tal punto da essere insignito, nel 1959, del Premio Nobel per la letteratura. Ma, attraverso gli anni, la sua poesia è stata dapprima rivalutata in peggio da diversi critici italiani, per poi essere ridimensionata e infine trascurata. Più considerazione, ancora oggi godono le sue notevoli e personalissime traduzioni dei “Lirici greci” (questo è il titolo di un suo memorabile volume) e di Virgilio.

Chiudo riportando l’elenco delle opere poetiche di Quasimodo, seguito da quattro poesie che a me piacciono particolarmente.

 

NOTE

1)     Da Poeti italiani del XX secolo, a cura di A. Frattini e P. Tuscano, Editrice La Scuola, Brescia 1974, p. 649.

 

 

Salvatore Quasimodo

 

Opere poetiche

 

“Acque e terre”, Edizioni di «Solaria», Firenze 1930.

“Oboe sommerso”, Edizioni di «Circoli», Genova 1932.

“Erato e Apòllion”, Scheiwiller, Milano 1938.

“Poesie”, Edizioni «Primi Piani», Milano 1939.

“Ed è subito sera”, Mondadori, Milano 1942.

“Con il piede straniero sopra il cuore”, Edizioni di «Costume», Milano 1946.

“Giorno dopo giorno”, Mondadori, Milano 1947.

“La vita non è sogno”, Mondadori, Milano 1949.

“Il falso e vero verde”, Schwarz, Milano 1954.

“La terra impareggiabile”, Mondadori, Milano 1958.

“Dare e avere”, Schwarz, Milano 1966.

 

 

 

Testi

 

 

SPECCHIO

 

Ed ecco sul tronco

si rompono gemme:

un verde più nuovo dell’erba

che il cuore riposa:

il tronco pareva già morto,

piegato sul botro.

 

E tutto mi sa di miracolo;

e sono quell’acqua di nube

che oggi rispecchia nei fossi

più azzurro il suo pezzo di cielo,

quel verde che spacca la scorza

che pure stanotte non c’era.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 27)

 

 

 

 

 ALLA NOTTE

 

Dalla tua matrice

io salgo immemore

e piango.

 

Camminano angeli, muti

con me; non hanno respiro le cose;

in pietra mutata ogni voce,

silenzio di cieli sepolti.

 

Il primo tuo uomo

non sa, ma dolora.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 56)

 

 

 

 

THÀNATOS ATHÀNATOS

 

E dovremo dunque negarti, Dio

dei tumori, Dio del fiore vivo,

e cominciare con un no all'oscura

pietra «io sono», e consentire alla morte

e su ogni tomba scrivere la sola

nostra certezza:

«thànatos athànatos»?

Senza un nome che ricordi i sogni

le lacrime i furori di quest'uomo

sconfitto da domande ancora aperte?

Il nostro dialogo muta; diventa

ora possibile l'assurdo. Là

oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi

vigila la potenza delle foglie,

vero è il fiume che preme sulle rive.

La vita non è sogno. Vero l'uomo

e il suo pianto geloso del silenzio.

Dio del silenzio, apri la solitudine.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 158)




DARE E AVERE


Nulla mi dài, non dài nulla

tu che mi ascolti. Il sangue

delle guerre s’è asciugato,

il disprezzo è un desiderio puro

e non provoca un gesto

da un pensiero umano,

fuori dall’ora della pietà.

Dare e avere. Nella mia voce

c’è almeno un segno

di geometria viva,

nella tua, una conchiglia

morta con lamenti funebri.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 237)



domenica 2 giugno 2024

La repubblica

                                                                                                           giugno '46


Svetta ancora allo svolto la vecchia pianta

e improvvisa brulica al vento.

Lampi di caldo, presagi,

parvenze forse s’incarnano nell’intima bruma.

Ma nessuno

                   ne sa niente.




COMMENTO

La repubblica è il titolo di una poesia di Vittorio Sereni (Luino 1913 - Milano 1983), che fa parta della raccolta Gli strumenti umani, pubblicata dall'editore Einaudi di Torino nel 1965. Io l'ho trascritta da una ristampa della stessa, uscita nel 1995. Non sono di facile interpretazione, a mio avviso, questi pochi versi dello scrittore lombardo. Evidente appare il fatto che la poesia parli dell'evento più importante riguardante la nostra nazione, che si verificò il 2 giugno del 1946, quando il popolo italiano (comprese le donne che fino ad allora non potevano votare), si recò alle urne per decidere se l'Italia sarebbe rimasta uno stato monarchico, o se sarebbe diventata una repubblica. Per quel giorno, infatti, si decise di dare il via al referendum istituzionale che avrebbe tracciato il futuro politico della nazione italiana. Dopo tali elezioni il risultato fu il seguente: 12.718.641 votanti favorevoli alla repubblica e 10.718.502 votanti favorevoli alla monarchia. In seguito a questo verdetto finale, l'Italia divenne perciò una repubblica.

I versi di Sereni, inizialmente parlano di una "vecchia pianta" che ancora svetta e brulica al vento; forse questa immagine vuole simboleggiare proprio la nostra nazione, che ha resistito ad una guerra devastante, ed ora è in balia di venti opposti, rappresentati appunto dai fautori della monarchia e da quelli della repubblica. Seguono quelle percezioni visive e sensoriali, provate all'interno di un paesaggio nebbioso: i "lampi di caldo" che coincidono anche con il periodo - i primi giorni di giugno - precedente la stagione estiva; i non definiti presagi, che comunque fanno pensare a qualcosa di positivo per il futuro dell'Italia; infine delle parvenze, ovvero delle apparenze, riferite a qualcosa che si delinea sempre di più, ma che ancora rimane piuttosto impreciso (la futura Repubblica Italiana). L'ultimo verso rafforza l'incertezza, se non l'assoluta inconsapevolezza, riguardante ciò che stava per accadere a livello politico e sociale in Italia. Ora, però, sappiamo tutti che quella data rappresentò il vero "anno 1": l'anno in cui, finalmente, l'Italia divenne uno stato democratico e fondato sulla libertà, uscendo definitivamente da un periodo infausto che visse per oltre un ventennio.