sabato 15 agosto 2015

Poeti dimenticati: Guido Pereyra

Leonardo Lilia (in arte Guido Pereyra) nacque a Firenze il 6 settembre del 1881 e morì nel 1968. Di lui esistono poche notizie, si sa comunque che svolse la professione d'insegnate di lettere presso il Ginnasio "Dante" di Firenze. Iniziò a pubblicare volumi di versi col suo nome reale, quindi, nel 1920, decise di usare uno pseudonimo per la sua opera poetica più importante: Il Libro del Collare. In seguito ripudiò le sue poesie. Le migliori poesie di Pereyra posseggono elementi filosofici (in particolare si rifanno alle discipline filosofiche indiane) ed autobiografici: contengono, in pratica, dei discorsi introspettivi, ragionamenti logici e deduzioni provenienti dall'esperienza personale e dalla vita in società. Si occuparono dei suoi versi, tra gli altri, Emilio Cecchi, Pietro Mignosi, Glauco Viazzi e Alessandro Parronchi.




Opere poetiche

"A vent'anni", Barbera, Firenze 1901.
"Nuove poesie: testamento", Barbera, Firenze 1902
"Il Libro del Collare", Vallecchi, Firenze 1920.





Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VI, pp. 94-103).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 144-147).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo primo, pp. 277-281).




Testi

CANTO VI°

Attenti! quando vedete così sbiancare il mio viso,
è il segno: la marionetta allora spunta; è l'avviso.

Eccola! è lei: già la sento, che da' precordii m'affiora
sul volto scolorito. Non son lo stesso che or ora.

Non son più quello, non sono. Io vo verso l'ultima danza!
via questi libri, via tutto, via quel che c'è in questa stanza!

Fermi: non è niente. Perché v'arretrate alla parete?
Fermi, fermi, vi dico. Ecco: è bell'e fatto. Vedete?

Fatto. Son ritornato quel ch'ero, è passato il momento
brutto; per oggi potete stare tranquilli, lo sento.

Ma voi siete pallidi! Perché mi guardate così,
se vi dico che ormai non è altro, che tutto finì?

Animo! tornate qui con me: ritorniamo tranquilli
al nostro lavoro! volete proprio mostrarvi pusilli

da aver paura se in faccia a voi qualcuno sgambetta,
da aver paura di un essere innocuo, una marionetta?...

«Ma dunque quando tu parli con noi, tu non sei sincero?»
mi disse una volta uno. Io tacqui. Purtroppo è vero.

Purtroppo il mio vero essere non è già quello ch'io mostro,
è un altro, o uomini gravi, che sfugge allo sguardo vostro;

è un altro che nessuno sospetta, che invece è nascosto
dentro di me, che invece soltanto ha cambiato di posto.

«Non più, non più: nessuno ormai mi vedrà» questo il patto
che con me stesso - un giorno dirò forse come - ho contratto.

Mi sembra che la mia voce abbia mutato di tono,
e suoni falso ormai; che qualcuno in lugubre dono

m'abbia dato una maschera da gittarmi sopra la faccia,
che copre il mio vero essere, e, se riaffiora, in giù lo ricaccia,

e lo tiene compresso, allor che improvviso sgambetta
lui... chi sapeva che in me ci fosse una marionetta?

C'era, ma non si sapeva. O se c'era! e sta quieta
di solito, sì che a molti la cosa resta segreta;

ma, se vede gli altri uomini starsene al loro posto
con grande prosopopea, scoppia in un riso nascosto,

ma non meno sonoro, e sente il bisogno di andarsene
tra loro a portar scandalo, e a turbare le loro farse.

Ce ne vuole a tenerla allora; e talor nell'assalto
riesce, e trova benanco la via d'uscire su in alto...

Sì, soffocando la smania di un attimo definitivo
ch'ho in me, mi sforzo a viver la vita che tutti vivono,

a vivere al par di voi, a immergermi nelle diverse
cure in cui tutte l'altre creature sono sommerse;

ma io non sono sincero; vedete, non sono sincero,
perché il mio vero essere non è quel ch'io sono, è quel ch'ero;

perché, per esser sincero, io dovrei, ogni momento,
uscirvi fuori in questo assoluto pronunciamento:

«Non v'accorgete, o uomini, che il far gli affari del mondo
è una commedia di fronte all'ansito nostro profondo,

e che nessuna fede nell'immanenza assoluta
potrà soffocar questo conato, e rendere muta

la protesta immortale del calabra che si ribella
a essere incatenato, e i propri ceppi sfracella?»

Sì, soffocando la smania di un atto definitivo,
tento prender sul serio l'Individuo, in cui tutti vivono;

ma talor la figura che, nolente me, avevo assunto
si rovescia d'un tratto, mentr'io mi scoloro in quel punto;

la figura dell'uomo empirico, il suo gesto, il suo atto
scompaiono in faccia agli altri che guardano: ecco, ad un tratto

gli astanti, incerti e stupiti, scoprono a fiore del suolo
l'antica marionetta levata sur un piede solo.

Io provo quel che provai di già, in un'ora solenne...
È l'essere senza nome, quello che un momento mi tenne

sospeso nel terribile dilemma, che ricompare,
e dice a me, uomo empirico: «O tu, non dimenticare,

tu che vinci, che un giorno insieme con te io ci fui!»
Io rivivo il dilemma tra l'uomo empirico e lui...

Niente: l'uomo empirico, che il suo titanismo reprime,
copre con la sua maschera codesta ironia sublime. 

(Da "Il Libro del Collare")

martedì 11 agosto 2015

Antologie: I poeti di "Circoli"

Mi piacciono molto le antologie poetiche dedicate alle riviste letterarie importanti, per questo apprezzo la recente pubblicazione di I poeti di "Circoli" 1931-1934, il periodo genovese, a cura di Michele Bono, San Marco dei Giustiniani, Genova 2009. Si tratta di una selezione poetica operata scegliendo i testi usciti nei primi anni di vita della rivista, quando essa prediligeva la poesia alla prosa, e a condurla era proprio un poeta: Adriano Grande, che ne fu anche il fondatore. Tutto ciò avvenne tra il 1931 ed il 1934, dopodiché Circoli assunse un altro aspetto, cambiando anche sede (da Genova a Roma) e dedicandosi maggiormente alla narrativa europea e americana. Ma, poeticamente parlando, quello che conta è il primo periodo; qui infatti partecipano alla rivista giovani poeti italiani di grande talento come Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero, Carlo Betocchi, Sergio Solmi, Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Giorgio Vigolo ecc. Insomma è presente nelle pagine di Circoli quella compagine di poeti che di lì a breve sarebbe stata definita da Luciano Anceschi "Lirici nuovi" (da cui il titolo della sua famosa antologia). Ad essi vanno aggiunti altri nomi di poeti più anziani di altrettanto valore come Enrico Pea, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Camillo Sbarbaro e Angelo Barile, i quali vanno a completare il panorama della poesia italiana più innovativa e di qualità che quel periodo storico potesse offrire. D'altronde erano anni, quelli lì, in cui proliferavano riviste letterarie molto interessanti, in cui la poesia occupava un posto importante, se non primario; a proposito di riviste, fra tante, è giusto per lo meno citare Solaria: pubblicata tra il 1929 ed il 1934: la rivista fiorentina è probabilmente la più significativa sia per la qualità dei testi che pubblicava, sia per lo spirito libero e innovativo che la caratterizzava. Ritornando a questa antologia, sarebbe sbagliato non considerare gli altri poeti presenti, i quali, seppur di minor valore, non sfigurano nel coro. C'è infine da sottolineare il lato internazionale della rivista, che ospitò spesso e volentieri poeti stranieri anch'essi di ottima qualità; ne fanno testimonianza le poesie presenti nella seconda parte del libro. Ecco l'elenco di tutti i poeti di "Circoli".






I POETI DI "CIRCOLI"

PARTE PRIMA - ITALIA
Angelo Barile, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Guglielmo Bianchi, Giorgio De Chirico, Libero De Libero, Filippo De Pisis, Giovanni Descalzo, Farfa, Marcello Gallian, Alfonso Gatto, Virgilio Giotti, Adriano Grande, Renzo Laurano, Curzio Malaparte, Glauco Natoli, Corrado Pavolini, Enrico Pea, Sandro Penna, Giacomo Prampolini, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro, Emilio Servadio, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Vigolo.


PARTE SECONDA - DAL MONDO
NORDAMERICA: Leonie Adams, Emanuel Carnevali, Countee Cullen, Edward Estlin Cummings, Emily Dickinson, H. D. Doolittle, Thomas Stearns Eliot, Robert Frost, Langston Hughes, Amy Lowell, Edgar Lee Masters, Marianne Moore, Ezra Pound, Edwin Arlington Robinson, Carl Sandburg, Wallace Stevens, William Carlos Williams.
FRANCIA: Jean Cocteau, Yvan Goll, Max Jacob, Lautrèamont, Jules Supervielle, Tristan Tzara.
PAESI SLAVI: Otakar Brezina, Velimir Chlebnikov, Vladislav Felicianovic Chodasevic, Nikolaj Liliev, Jiri Wolker.
SVEZIA: Dan Andersson, Erik Blomberg, Pär Lagerkvist.
OLANDA: Hendrik de Vries, Hendrik Marsman.
ROMANIA: Lucian Blaga.
SPAGNA: Jorge Guillén.
IRLANDA: James Joyce.

domenica 2 agosto 2015

Poeti dimenticati: Augusto Garsia

Nacque a Forlì nel 1889 e morì a Firenze nel 1956. Fu poeta, prosatore e critico letterario; i suoi versi possono essere considerati una prosecuzione della poetica crepuscolare: lo si evince sia dalle atmosfere spente, languide e malinconiche che dalle ricorrenti parole come "stanchezza", "tristezza", "dolcezza" ecc. Garsia spesso ambienta le sue poesie in luoghi desolati, sul far della sera, e in questo contesto esprime i suoi pensieri e i suoi sentimenti pregni di rassegnazione e di nostalgia per un tempo lontano, per un entusiasmo perduto. Non sono assenti i momenti di un misticismo raccolto. Tutta la sua migliore lirica si sviluppò nel terzo decennio del XX secolo, e fu proprio in questo periodo che ottenne dei riconoscimenti. Troppo presto però fu dimenticato ed oggi nessuno ricorda il suo nome.




Opere poetiche

"Opposte voci",  Vallecchi, Firenze 1921 (1940²).
"Voci di là dal fiume", Battistelli, Firenze 1924.
"Poesie: 1921-1925", Giusti, Livorno 1926.
"Voci del mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927.
"Voci del mio cammino", Giusti, Livorno 1928.
"Le voci: Voci del mio cammino: Antologia di spente voci", Formiggini, Roma 1930.





Presenze in antologie

"Poeti Novecento", Mondadori, Milano 1928 (pp. 57-60).
"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 159-160).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 282-286).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. III, pp. 94-102).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 150-153).
"I crepuscolari: saggio e composizioni", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Milano 1966 (pp. 485-490).




Testi
FORSE

Come la sera d'agosto
ultima è dolce! Lontano
vien dalle nebbie del piano
timido zirlo quassù:

timido zirlo che tosto
lungo e sicuro si stende
da balza a balza, e s'accende
timido zirlo quassù;

Tremulo zirlo che monti
come un respiro di pace
dove impassibile tace
l'aria e s'illumina, tu,

calmo respiro dei monti,
mentre s'accendono l'Orse,
in cuor mi mormori «Forse»
e non mi dici «Mai più».

(Da "Opposte voci")



martedì 28 luglio 2015

Le figure dimesse nella poesia italiana decadente e simbolista

Sono personaggi solitari, isolati dal mondo per scelta o per circostanze avverse; per loro i poeti mostrano grande simpatia e spesso pietà. Quasi tutti vogliono rappresentare la sconfitta, la rassegnazione, la perdita di tutto: affetti, cose, speranze. In alcuni casi però si nota una certa fierezza dell'uomo o della donna che, contro tutto e tutti vive una situazione sfavorevole e trova in tale stato la consapevolezza di essere, per alcuni versi, un eroe incompreso. Non mancano figure misteriose, che a volte svolgono un lavoro monotono e continuo, a volte sembrano immerse in una sorta di esistenza mistica, la quale si conclude in modo talmente sorprendente da lasciare il lettore (e forse anche il poeta) incapace di dare una qualsiasi spiegazione alla vicenda.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Il saggio della selva" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Pier Angelo Baratono: "I perversi" in "Sparvieri" (1900).
Enrico Cavacchioli: "La vedetta" e "Litanie del silenzio" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Croce: "Frati" in "L'anima di Torino" (1911).
Auro D'Alba: "Il suonatore ambulante innamorato delle stelle" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Federico De Maria: "Il Beduino" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria: "Lo scemo" in «Poesia», novembre 1908.
Marcus De Rubris: "­Zingani" in "La Veglia" (1910).
Giuliano Donati Pétteni: "Rassegnazioni" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli: "Buio:.. gente che passa per la via deserta" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "L'esule" in "Sovra bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Attesa materna" in «Nuova Antologia», gennaio 1908.
Domenico Gnoli: "La vecchietta dell'alpe" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini" (1923).
Corrado Govoni "Contraddizione" e "La mendicante" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: «Historia» in "Poesie e prose" (1961).
Giuseppe Lipparini: "Elena" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Crisalide" in «Poesia», gennaio 1906.
Pietro Mastri: "Accoccolato lì, come una balla" e "Le scolte" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "L'Errante" in "Dal profondo" (1910).
Giovanni Pascoli: "La cucitrice" in "Myricae" (1900).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "L'amante ignota" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "La Devota" in "Le Evocazioni" (1909).
Domenico Tumiati: "L'organista ambulante" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "L'uomo-orchestra" in "Viburna" (1905).
Carlo Vallini: "Lo scriba" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Remigio Zena: "La mendicante" in "Le Pellegrine" (1894).




Testi

LA VEDETTA
di Enrico Cavacchioli

- Suggesti il latte, o mio tenero amore!
Non pianger più. Non pianger più. Ritorna
il sogno a carezzare il tuo dolore. -

Ora il cielo di nubi alte s'adorna
e tu, Vedetta, per i baluardi
rimi il passo che sa per dove aggiorna,

rimi il canto che sa ritmi beffardi
e col battito triste del tuo cuore
pensi alla terra, al sole e non lo guardi,

e non l'invochi per il tuo terrore!

*

- O ninna-nanna, o ninna-nanna, o ninna-
nanna, la bimba s'è tutta ferita:
sentite il grido suo come tintinna?

Quale dolcezza non l'avrà smarrita?
E qual silenzio nella culla lenta,
lenta, non mai l'avrà ringiovanita?

O ninna-nanna, o ninna-nanna, è spenta
l'ultima luce che t'avèa protetto,
l'ultimo sogno che t'avèa redenta;

non ò culla: il cielo è violetto...

*

Come zirlano i grilli! Il mare immenso
venta alle tamerici; il suo sospiro
salmastro sale su come un incenso..

Una vela che trema, in lento giro
disperde l'occhio vigile del fiocco
malinconicamente; il suo respiro

sembra ansimare dietro allo scirocco
che la frusta, la fa rabbrividire,
stirare con un fulmine di schiocco.

Ed un gabbiano grida. L'imbrunire.

*

O Vedetta vagante, muta e sola
nell'ombra in cui la luce si riposa
quale pensasti mai dolce parola?

Quale sorella in abito da sposa
vedesti comparire, tra le reti
dei pescatori? Quale lacrimosa

storia di monachelle e di roseti
nella quiete or vedi interlunare?
Ànno le stelle un lento tremolare,

anche tu fremi come li albereti.

*

Un grido sale: - All'erta sentinella!
Passa una barca rapida, fuggente,
e la notte l'avvolge nella bella

capellatura, aurina, iridescente.
Un passo si confonde, si diffonde
quasi sfiorato, quasi non si sente,

ed il tuo sogno va, per le profonde
immensità lontane che non so:
ma la tua voce lugubre risponde

velatamente, sola: - All'erta sto!

(Da "L'incubo velato", 1906)





ACCOCCOLATO LÌ, COME UNA BALLA
di Pietro Mastri

Accoccolato lì, come una balla
di cenci, ad uno stipite
della sua catapecchia,
si còce al sole. Come un lento pendolo
in bilico fra l'una e l'altra spalla,
dondola il capo, che ha mozza un'orecchia.

Dondola il capo non ancora adulto,
segnato a sangue e lividi
dai sassi della via nelle cadute,
di schianto giù, tutto il corpo in sussulto
che si sbatacchia e nella strozza un mugolo
rotto e la bava sulle labbra mute.

Dondola il capo. Pur d'udire il sincrono
ritmo: tic-tac, tic-tac... Ei, no, non l'ode.
Gli scorre il tempo, dentro, come un tacito
fiume notturno, che non abbia prode.

Per ore ed ore ed ore. Innanzi, il borgo
tace nel solleone che lo sgretola:
un buffo d'afa alza talvolta un gorgo
vorticoso di polvere.

Di tanto in tanto per l'arsiccia strada
passa una pésta grave, un trotto rapido,
un tardo scalpiccìo; schiamazza un sùbito
irromper di fanciulli... Egli non bada.

(E chi gli bada, a lui?). Bada alle mosche.
Ronzano a sciami intorno. Egli ne sèguita
il volo, a collo torto, con le losche
pupille, opache, di vitello morto.

E ride loro. E dalla bocca flaccida
squittiscon suoni che non son loquela
umana, - dalla crepa ove la sciabbia
viscida fila una sua ragnatela.

Scaglia una mano all'aria con fulmineo
gesto, a tratti, e una mosca acchiappa a volo.
Di sulla palma se la trae col solo
scorrere delle dita abili e caute.

L'ha fra il pollice e l'indice.
La guarda un poco. E poi... là, fra due denti,
l'acciacca... E intanto, mentre il capo dondola
coi bovini occhi spenti,

con quell'orecchia mozza,
dondola senza posa come un pendolo,
il suo riso gorgozza.

(Da "La Meridiana", 1920)





L'UOMO-ORCHESTRA
di Aurelio Ugolini

Come una polverosa
cicala che s'inebria alla gran fersa
del bollente meriggio e, senza posa,
inni dalle stridenti elitre versa;

per le dorate vie
fra gli obliqui veicoli, ridesta
la verde vision delle natie
valli, squassando i magri arti e la testa.

A un singulto di pelli
concave, a un formidabile clangore
di dischi, a uno scrollar di campanelli,
sporgono visi ai davanzali in fiore.

Ma invan, gialla di tedi
infiniti e scavata dalla fame,
leva la faccia ad ora ad or, se a' piedi
il tintinno oda e il rimbalzar del rame.

Agli occhi avidi innanzi,
le redolenti canove e le dapi
onde ricca è la via, passano e i manzi
sanguinolenti fra il ronzio dell'api.

E, mentre dall'interno
delle cucine fumide e vermiglie
giungegli — è il mezzodì — quasi uno scherno
stridulo di posate e di stoviglie;

Tantalo vero, umana
cariatide, ei va sotto gl'immoti
dardi del sole e lento s'allontana,
trempellando co' suoi due ventri vuoti.


(Da "Viburna", 1905)



Pierre Puvis de Chavannes,  "The Poor Fisherman"

domenica 12 luglio 2015

Il telefono in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ti chiamo... ancora una volta ti chiamo con la solita speranza: che finalmente parliamo di cose importanti, di noi, di ciò che proviamo l’uno per l’altra. Ma la mia speranza svanisce di nuovo, dopo nemmeno un minuto che parliamo. Tu ricominci a proporre argomenti futili, che riguardano fatti poco interessanti per me. Sto comunque al gioco, e ti rispondo dimostrando attenzione e coinvolgimento. Poi, mi stanco, e continuo a dirti – mentre tu prosegui instancabile il tuo colloquio – un “sì”: un’approvazione che significa sfinimento. Quando hai esaurito ogni possibile dettaglio, e oramai anche tu ti dimostri stanca ed annoiata, mi dici che si è fatto tardi, che hai qualcosa di urgente da fare, e mi saluti velocemente prima di chiudere la comunicazione. Certamente ci risentiremo: sarai magari tu a chiamarmi la prossima volta, o forse sarò ancora io, e di nuovo nascerà in me la speranza che potremo dirci, finalmente, delle parole importanti. No, non posso abbandonare questa mia illusione, poiché mi occorre per continuare a vivere, perché voglio continuare a parlare con te, anche senza vederti mai.



TELEFONO

di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Parla un uomo al telefono. Qualcuno
ch'io non odo né veggo a lui risponde:
prega un uomo all'altar: parla con Uno 
che per me tace, che per me si asconde.

Deh, se basta a varcar tanta distanza
un tenue filo a chi pur resta immoto;
se il tenue filo d'una pia speranza
basta pei cuori a penetrar l'ignoto,

date a me pure il fil che si dilunga
oltre il giorno dell'uomo e la sua sede;
datemi il tenue tramite che giunga
al Lontano che parla e non si vede!

(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)





PER TELEFONO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ascolto per telefono il fragore
di Roma liberata. «Vedi - insiste
l'amico nel chiamarmi - non li vedi,
sempre così, mostrati sulla terra.»
Incalza: «ma strafanno, l'aria è piena
di Roma, di campagne...». «Spegni», grido.
Resta il silenzio e non così divisi
dal filo che ci unisce, «Siamo stanchi»
dico nello scoprirmi amaro, vile
d'invidia «e questo caldo, questa smania
d'uscire... ma che fai, pronto, Giorgio...?»

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)





TELEFONATA NOTTURNA
di Margherita Guidacci (1921-1992)

La tua voce
intensa e quieta, che viene di tanto lontano,
come un raggio improvviso ha attraversato la notte,
inargentando foglie, facendo biancheggiare le spume
d'acque segrete, rivelando
nitido un altro lembo
di questo sempre nuovo paesaggio d'amore -
così vario
che mai finiamo di scoprirlo.

(Da "Inno alla gioia", Centro Internazionale del Libro, Firenze 1983)





Da "LE PETIT MONTAGNARD"
di Mario Luzi (1914-2005)

Lo squillo del telefono nella casa deserta
dà un brivido sottile, recide oscure speranze.
Non mi mossi, non scesi neppure fino all'orto.
Fui qui presente e assente in questa luce
da finestra a finestra della casa
ore e ore, lasciai venire e andare
pensieri eterni nella mente inerte.

Il giorno lungo e fradicio leva alti i suoi vessilli.
È tardi? il carpentiere sale sui castelli e i ponti.
Lo sai, mi tengo pronto al tuo richiamo,
veglio, attendo, fo sì che non risuoni
lo squillo del telefono nella casa deserta.


(Da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965)





TELESELEZIONE
di Daria Menicanti (1914-1995)

Soprattutto mi piace col telefono
entrargli nella camera lontana
di là dal monte,
sentire il mio squillo
che si avventa nel buio. Poi la cara
voce fra tutte che risponde:
Sì-ì?

(Da "Canzoniere per Giulio", Manni, Lecce 2004)





TELEFONO
di Marino Moretti (1885-1979)

Sei tu! sei tu! sei tu! Mentre ti parlo,
mentre t'ascolto, immobile, mi pare
che la tua voce seguiti a vibrare
in questo orecchio mio per lacerarlo.

Sei tu! sei tu! La tua voce mi giunge
da una profondità d'anima oscura:
io ti rispondo, amica, ma ho paura,
che vicina mi sei tu che sei lunge.

Ho paura di te, di quest'ordigno
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirito maligno!

E mi par quasi che fra tanto fasto
d'illusioni solo quest'ordigno
fedele al muro, come un vecchio scrigno
pieno di voce tua, mi sia rimasto!

Tu parli e io vedo il tuo bianco profilo
un po' chinato sovra l'apparecchio
mentre raccogli nell'intento orecchio,
più che il mio dire incerto, il mio respiro;

tu parli e io non t'ascolto: non t'ascolto
perché ti vedo: vedo d'improvviso
una lieve penombra di sorriso
ch'erra nel volto tuo, chino e raccolto.

Ah, ridi ridi ridi tu che sei
bella e ami solo la tua gioventù.
Io? Ti rispondo, ma non sono più
che due numeri: 10-36...

(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)





PAROLE CHE VENGONO DI LONTANO
di Nino Oxilia (1889-1917)

Dalla finestra aperta guardo i monti.
Qualche nuvola bassa
sui dentati orizzonti
vivida di bagliori
passa.
Ora curvi, ora dritti, i falciatori
taglian l'ultimo fieno
sotto il cielo sereno
con larghi gesti monotoni...

La mia stanza è un immoto
carcere d'ombra ove io sento
battere battere a vuoto
le pale del Tempo che in ozio consumo.
Il vento
anima l'infinito
silenzio di profumo.
Improvviso come un nitrito 
nell’ombra squilla il telefono...

«Pronti! Pronti!» Lo specchio 
a parete, murato nel tepore 
delle stoffe, riflette l’apparecchio 
nell’ombra paolotta. 
L’apparecchio borbotta: 
«Pronti pronti! O mio amore!»

«Pronti! Pronti! Amor mio,
sono giunta stamani.
Ora siamo lontani.
Sono triste» (un contatto) «amore mio!»
«Per quanto tempo! Mi angoscia...»
Ascolto. E l'occhio in giro percepisce
le cose che non guardo:
il gesto or lesto or tardo
dei falciatori e il fieno che si affloscia
sotto le falci lisce...
«Mi angoscia questa vita di bugìa
con l'uomo che non amo e non capisce;
cui fingo. Oh! come ti amo, anima mia!»

Penso la sua bocca leggiadra
nel cerchio nero del trasmettitore,
la sua bocca d'amore
ladra.
Penso il braccio rotondetto
sopra il tavolinetto;
dentro l'alcova il letto.

«Oh! fuggire da quella gabbia!
Correre nelle tue braccia!»
Quanto resta la traccia
di un nome sulla sabbia,
tanto nel cuore umano
le parole che vengono di lontano...

«Son triste. Quest'asilo
è da gufi - Tu sei lontano e poi...»
Gorgoglia l'apparecchio
schernevole all'orecchio;
ora parlo, ora ascolto...
Odo la voce ma non vedo il volto...
E il filo il filo il filo
infinito tra noi...

(Da "Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918)





TI DICEVO AL TELEFONO 
di Elio Pagliarani (1927-2012)

Ti dicevo al telefono (di cui 
più mi prendono le pause, gl’imbarazzi 
docili, e se ci udiamo respirare) 
ti dicevo al telefono un amore 
che urge, e perché. 

(Da "Tutte le poesie: 1946-2005", Garzanti, Milano 2006)





ER TELEFONO
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Co' quello antico? Vergine Maria! 
Giravi per un'ora er girarello 
e, se volevi un oste, sur più bello 
te risponneva quarche farmacia.

Invece mó, coll'urtimo modello, 
chiami cór deto, parli e tiri via, 
che se tu vedi la signora mia 
ce se diverte come un giocarello.

Jeri, presempio, appena s'è svejata 
ha bevuto er caffè cór rosso d'ovo 
eppoi s'è fatta la telefonata.

E manco ha preso in mano l'apparecchio 
ch'ha liticato co' l'amante novo 
e ha fatto pace co' l'amante vecchio.

(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)





TELEFONO PIÙ RADIO
di Cesare Vivaldi (1915-1999)

Dì che è tardi. Baciamoci
nel frettoloso telefono.
Disperdi pure il grigio
della tua voce,
non temere il silenzio.
Lieve continui ad abitarmi accanto,
respirando in un valzer
di cristallo, che in nitidi
tocchi s'estingue.

Serro il capo tra i gomiti. Un cavallo
bianco fende la nebbia,
opaco s'allontana,
si distingue dall'ombra
appena per un palpito lieve.

(Da "Poesie scelte: 1952-1992", Newton Compton, Roma 1993)




Sergei Vishinsky, "On the telephone"

martedì 30 giugno 2015

Le fate nella poesia italiana decadente e simbolista

Sorta di semidee, estremamente affascinanti, misteriose, spesso ricoperte di gemme, di ori e di pietre preziose, le fate si mostrano ai poeti nelle ore notturne e probabilmente sono il simbolo dell'arcano. In alcuni casi però, questi personaggi sono identici o quasi a quelli delle classiche favole, e in tali contesti potrebbero rappresentare sia la maternità (ovvero madri che, viste con gli occhi dell'infante, posseggono dei poteri speciali), sia la donna intesa come essere sovrannaturale (e qui, in parte, si ritorna ad una deificazione della figura femminile).




Poesie sull'argomento

Ugo Betti: "La fata Fiorediselva e il principe Risodisole" in "Il re penserioso" (1922).
Bino Binazzi: "La protettrice" in "Turbini primaverili" (1910).
Gustavo Botta: "Le gemme delle fate" e "Le fate" in "Alcuni scritti" (1952).
Lucio D'Ambra: "La Chimera" in "Le Sottili Pene" (1896).
Gabriele D'Annunzio: "Melusina" e "Morgana" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Corrado Govoni: "La regina Mab" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "La fata" in "Le Rime della Selva" (1906).
Gian Pietro Lucini: "La Fata" e "I Sonetti di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Olindo Malagodi: "Apparizione" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).
Tito Marrone: "Il palagio delle fate" in "Cesellature" (1899).
Giacinto Ricci Signorini: "Egli pensava, nella notte azzurra" in "Rime" (1888).
Domenico Tumiati: "Canapaiole al lume di luna" in "Liriche" (1937)
Alessandro Varaldo: "E mentre inseguo folle ed anelante" in "Marine liguri" (1898).




Testi 

LA PROTETTRICE
di Bino Binazzi

Al tempo che le profondità
della notte, inesplorate,
era un mistero, un soggiorno di fate
dagli occhi di stelle,
(il coprifuoco cantava le belle
ninne nanne in lontananza
alla mia tranquilla stanza)

e il soave tremolio
de' grilli era un coro pio
d'invisibili gnomi
sussurranti piacevoli nomi
come per giuoco,
al novenne che assopiasi a poco a poco,

al tempo dell'età mia nova,
mentre le tende dell'alcova
ne' rabeschi prendevan forme umane
che parlavano a me d'una dimane
avventurosa, e, dall'urna
piccola uscite al confine
della vita, mi parlavan del breve
passato le morte sorelline,
palpitando la lampada notturna,
Ella venne con passo lieve lieve.

Ella venne: nella quiete
eran muti i sensi della veglia,
regnati dal senso divino
dei sogni. La parete
si divaricò silenziosa
come chiusa corolla in sul mattino
alla prima carezza rugiadosa
del giorno che si risveglia.

Spuntò l'alba del mio intelletto
d'amore. Il ritorno
della luce cantavan gli araldi del giorno
e il cielo albeggiante
spiava il candor del mio letto
per la fessura dell'imposta chiusa:
ed io, anima chiusa
a una letizia nova,
cantai quel giorno con gli uccelli a prova.

Ella vegliò la mia puerizia
con quell'amor che s'ode
simboleggiar nell'angelo custode:
e ogni raggio di stella ed ogni fiore,
ogni tronco, ogni pietra
ebbero un'armonia di blanda cetra.

Tu sai che letizia,
lettore che fosti poeta,
lettore che fosti fanciullo.

(Da "Poesie")





LA FATA
di Gian Pietro Lucini

Io son la bella Oriana e il seggio mio,
materiato in rubini e diamanti,
scintilla nell'azzurro, in contro a Dio,
tra il nimbo delli incensi fumiganti.
I miei baci son filtri e dan l'Oblio,
brillan nelli occhi miei fascini erranti,
e il mio corpo è una Coppa che il Disio,
abbevera di vini estasianti.

Facile e avventurosa è la mia strada:
invitan l'acque d'or del mio verziere,
e sulle rame i bei frutti di giada.
A me i Baron' sulla gaietta alfana,
e al tintinnìo d'argentee sonagliere,
vengan le Dame in lunga carovana.

(Da "Il libro delle Figurazioni Ideali")





EGLI PENSAVA, NELLA NOTTE AZZURRA
di Giacinto Ricci Signorini

Egli pensava, nella notte azzurra,
Sull'acque intentamente fiso:
L'acacia arguta strepita e sussurra
Del maggio nell'amor, nel riso.

Quando una donna dalle vesti bianche
Sull'onda gorgogliante apparve;
Dice: Deh vieni, e le tue membra stanche
Riposa giù in quell'acque chiare!

Sopra quell'erbe molli di rugiada
Eterna un letto io t'apprestai,
Vieni, o diletto, nella mia contrada
Si sogna e non si pensa mai.

E là vi è pace e più tranquillo scende
Di luna un raggio a salutarmi,
E violato il ciel più dolce splende,
E vibra l'armonia dei carmi.

Vedrai le ninfe, che hanno il piè d'argento,
In caccia sui fioriti prati,
Ed ondeggiare gli asfodeli al vento,
E correre i cavalli alati.

E sempre al fianco ti sarò, pensosa
Il bacio ti darò d'amore;
Vieni al mio amplesso, sul mio seno posa
O senti come batte il core.

Così cantava nella notte azzurra
La fata bella e sparve giù:
L'arancia arguta strepita e sussurra,
Ma il giovin non fu visto più.

(Da "Rime")





E MENTRE INSEGUO FOLLE ED ANELANTE
di Alessandro Varaldo

E mentre inseguo folle ed alenante
un canto pieno d'armonie divine
di tra li effluvi d'alighe marine
sale al verso un profumo inebriante.

Forse le bianche fate oceanine
scherzando giù nel mare azzurreggiante
traggono quel profumo inebbriante
di tra li effluvi d'alighe marine.

La nave è ferma. Ne la calma sera
io mi tuffo ne l'onde appassionate
de i ricordi con acre voluttà.

E quel profumo de la primavera
mi sale a raccontare de le fate
leggende piene di soavità.


(Da "Marine liguri")



Sophie Anderson, "A portrait of a fairy"

domenica 14 giugno 2015

Poeti dimenticati: Giuseppe Zucca

Nacque a Messina nel 1887 e morì a Roma nel 1959. Si dedicò alla poesia nella prima fase della sua eclettica attività artistica. In seguito, oltre a fondare una casa editrice: «Il Fauno» e una casa cinematografica: «Fauno Film», scrisse soprattutto prose e romanzi che hanno alla base l'elemento principe dello scrittore siciliano: l'umorismo. Stessa cosa si può dire dei suoi versi, che contengono inoltre una sfumata malinconia, la quale, assieme ad una non comune fantasia e ad una intelligente ironia, lo pone come prosecutore della poetica crepuscolare.




Opere poetiche

"La lucerna", Nalato", Roma 1913.
"Vincere, vincere, vincere", Bemporad, Firenze 1918.
"Io", Formiggini, Roma  1919.
"Italia chiamò",  Bemporad, Firenze 1919.
"Poesie 1912-1922", Sansoni, Firenze 1923.






Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 478-479).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VIII, pp. 85-98).




Testi

LA COMMEDIA

In programma si annunzia «brillantissima».
Il titolo: «La Vita». È in un sol atto.
Gli attori, cani. E si fa un rider matto,
più assai non promettessero gli affissi.

E su la scena il brio cresce... D'un tratto
taccion tutti; e all'interno han gli occhi fissi:
negli occhi è la vertigin degli abissi.
Che c'è? Il suggeritore s'è distratto?

No. Entra, zitta zitta, avvoltolata
in uno scialle sbrendolato e nero,
una vecchia, tutt'ossa, alta, scalvata:

l'ho vista in certe stampe del Durero.
Non parla: ride. E al riso solitario
piangon comici e pubblico. — Sipario.

(Dalla rivista «Nuova Antologia», giugno 1913)