Sono personaggi
solitari, isolati dal mondo per scelta o per circostanze avverse; per loro i
poeti mostrano grande simpatia e spesso pietà. Quasi tutti vogliono
rappresentare la sconfitta, la rassegnazione, la perdita di tutto: affetti,
cose, speranze. In alcuni casi però si nota una certa fierezza dell'uomo o
della donna che, contro tutto e tutti vive una situazione sfavorevole e trova
in tale stato la consapevolezza di essere, per alcuni versi, un eroe
incompreso. Non mancano figure misteriose, che a volte svolgono un lavoro
monotono e continuo, a volte sembrano immerse in una sorta di esistenza
mistica, la quale si conclude in modo talmente sorprendente da lasciare il
lettore (e forse anche il poeta) incapace di dare una qualsiasi spiegazione
alla vicenda.
Poesie sull'argomento
Mario Adobati:
"Il saggio della selva" in "I cipressi e le sorgenti"
(1919).
Pier Angelo Baratono:
"I perversi" in "Sparvieri" (1900).
Enrico Cavacchioli:
"La vedetta" e "Litanie del silenzio" in "L'Incubo
Velato" (1906).
Giovanni Croce:
"Frati" in "L'anima di Torino" (1911).
Auro D'Alba: "Il
suonatore ambulante innamorato delle stelle" in "I Poeti
Futuristi" (1912).
Federico De Maria:
"Il Beduino" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria:
"Lo scemo" in «Poesia», novembre 1908.
Marcus De Rubris:
"Zingani" in "La Veglia" (1910).
Giuliano Donati
Pétteni: "Rassegnazioni" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli:
"Buio:.. gente che passa per la via
deserta" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio:
"L'esule" in "Sovra bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri
Contri: "Attesa materna" in «Nuova Antologia», gennaio 1908.
Domenico Gnoli:
"La vecchietta dell'alpe" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini"
(1923).
Corrado Govoni
"Contraddizione" e "La mendicante" in "Gli
aborti" (1907).
Guido Gozzano:
«Historia» in "Poesie e prose" (1961).
Giuseppe Lipparini:
"Elena" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)"
(1916).
Tito Marrone:
"Crisalide" in «Poesia», gennaio 1906.
Pietro Mastri: "Accoccolato lì, come una balla" e
"Le scolte" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri:
"L'Errante" in "Dal profondo" (1910).
Giovanni Pascoli:
"La cucitrice" in "Myricae" (1900).
Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi: "L'amante ignota" in "Il Libro dei
Frammenti" (1895).
Guido Ruberti:
"La Devota" in "Le Evocazioni" (1909).
Domenico Tumiati:
"L'organista ambulante" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini:
"L'uomo-orchestra" in "Viburna" (1905).
Carlo Vallini:
"Lo scriba" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Remigio Zena:
"La mendicante" in "Le Pellegrine" (1894).
Testi
LA VEDETTA
di Enrico Cavacchioli
- Suggesti il latte,
o mio tenero amore!
Non pianger più. Non
pianger più. Ritorna
il sogno a carezzare
il tuo dolore. -
Ora il cielo di nubi
alte s'adorna
e tu, Vedetta, per i
baluardi
rimi il passo che sa
per dove aggiorna,
rimi il canto che sa
ritmi beffardi
e col battito triste
del tuo cuore
pensi alla terra, al
sole e non lo guardi,
e non l'invochi per
il tuo terrore!
*
- O ninna-nanna, o
ninna-nanna, o ninna-
nanna, la bimba s'è
tutta ferita:
sentite il grido suo
come tintinna?
Quale dolcezza non
l'avrà smarrita?
E qual silenzio nella
culla lenta,
lenta, non mai l'avrà
ringiovanita?
O ninna-nanna, o
ninna-nanna, è spenta
l'ultima luce che
t'avèa protetto,
l'ultimo sogno che
t'avèa redenta;
non ò culla: il cielo
è violetto...
*
Come zirlano i
grilli! Il mare immenso
venta alle tamerici;
il suo sospiro
salmastro sale su
come un incenso..
Una vela che trema,
in lento giro
disperde l'occhio
vigile del fiocco
malinconicamente; il
suo respiro
sembra ansimare
dietro allo scirocco
che la frusta, la fa
rabbrividire,
stirare con un
fulmine di schiocco.
Ed un gabbiano grida.
L'imbrunire.
*
O Vedetta vagante,
muta e sola
nell'ombra in cui la
luce si riposa
quale pensasti mai
dolce parola?
Quale sorella in
abito da sposa
vedesti comparire,
tra le reti
dei pescatori? Quale
lacrimosa
storia di monachelle
e di roseti
nella quiete or vedi
interlunare?
Ànno le stelle un
lento tremolare,
anche tu fremi come
li albereti.
*
Un grido sale: -
All'erta sentinella!
Passa una barca
rapida, fuggente,
e la notte l'avvolge
nella bella
capellatura, aurina,
iridescente.
Un passo si confonde,
si diffonde
quasi sfiorato, quasi
non si sente,
ed il tuo sogno va,
per le profonde
immensità lontane che
non so:
ma la tua voce
lugubre risponde
velatamente, sola: -
All'erta sto!
(Da "L'incubo
velato", 1906)
ACCOCCOLATO LÌ, COME UNA BALLA
di Pietro Mastri
Accoccolato lì, come
una balla
di cenci, ad uno
stipite
della sua
catapecchia,
si còce al sole. Come
un lento pendolo
in bilico fra l'una e
l'altra spalla,
dondola il capo, che
ha mozza un'orecchia.
Dondola il capo non
ancora adulto,
segnato a sangue e
lividi
dai sassi della via
nelle cadute,
di schianto giù,
tutto il corpo in sussulto
che si sbatacchia e
nella strozza un mugolo
rotto e la bava sulle
labbra mute.
Dondola il capo. Pur
d'udire il sincrono
ritmo: tic-tac, tic-tac... Ei, no, non l'ode.
Gli scorre il tempo,
dentro, come un tacito
fiume notturno, che
non abbia prode.
Per ore ed ore ed
ore. Innanzi, il borgo
tace nel solleone che
lo sgretola:
un buffo d'afa alza
talvolta un gorgo
vorticoso di polvere.
Di tanto in tanto per
l'arsiccia strada
passa una pésta
grave, un trotto rapido,
un tardo scalpiccìo;
schiamazza un sùbito
irromper di
fanciulli... Egli non bada.
(E chi gli bada, a
lui?). Bada alle mosche.
Ronzano a sciami
intorno. Egli ne sèguita
il volo, a collo
torto, con le losche
pupille, opache, di
vitello morto.
E ride loro. E dalla
bocca flaccida
squittiscon suoni che
non son loquela
umana, - dalla crepa
ove la sciabbia
viscida fila una sua
ragnatela.
Scaglia una mano
all'aria con fulmineo
gesto, a tratti, e
una mosca acchiappa a volo.
Di sulla palma se la
trae col solo
scorrere delle dita
abili e caute.
L'ha fra il pollice e
l'indice.
La guarda un poco. E
poi... là, fra due denti,
l'acciacca... E
intanto, mentre il capo dondola
coi bovini occhi
spenti,
con quell'orecchia
mozza,
dondola senza posa
come un pendolo,
il suo riso gorgozza.
(Da "La
Meridiana", 1920)
L'UOMO-ORCHESTRA
di Aurelio Ugolini
Come una polverosa
cicala che s'inebria
alla gran fersa
del bollente meriggio
e, senza posa,
inni dalle stridenti
elitre versa;
per le dorate vie
fra gli obliqui
veicoli, ridesta
la verde vision delle
natie
valli, squassando i
magri arti e la testa.
A un singulto di
pelli
concave, a un
formidabile clangore
di dischi, a uno
scrollar di campanelli,
sporgono visi ai
davanzali in fiore.
Ma invan, gialla di
tedi
infiniti e scavata
dalla fame,
leva la faccia ad ora
ad or, se a' piedi
il tintinno oda e il
rimbalzar del rame.
Agli occhi avidi
innanzi,
le redolenti canove e
le dapi
onde ricca è la via,
passano e i manzi
sanguinolenti fra il
ronzio dell'api.
E, mentre
dall'interno
delle cucine fumide e
vermiglie
giungegli — è il
mezzodì — quasi uno scherno
stridulo di posate e
di stoviglie;
Tantalo vero, umana
cariatide, ei va
sotto gl'immoti
dardi del sole e
lento s'allontana,
trempellando co' suoi
due ventri vuoti.
(Da
"Viburna", 1905)
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Pierre Puvis de Chavannes, "The Poor Fisherman" |