lunedì 18 settembre 2017

La scuola in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Da qualche giorno le scuole italiane hanno riaperto i loro cancelli agli studenti: è ricominciato l'anno scolastico. Ecco, allora, dieci poesie che parlano della scuola in diverse sfaccettature. Due poeti crepuscolari: Carlo Chiaves e Marino Moretti, s'indugiano a ricordare qualche vecchio compagno dei tempi della scuola, con un po' di malinconia e un non celato rimpianto. Altri, invece, mostrano una sorta di risentimento nei confronti di un'istituzione che non li ha mai compresi, non li ha considerati abbastanza. Altri ancora, dopo aver inneggiato alla fine del periodo scolastico, fanno una triste riflessione sulla vita non facile che attende chi lascia i banchi delle aule. E a proposito di quest'ultimo argomento, ci sono i versi di Gianni Rodari che sottolineano la difficoltà ben più accentuata dei compiti che si fanno nella "Scuola dei grandi". C'è, infine, chi si limita ad osservare i piccoli studenti o i collegiali che ispirano certamente una sana allegria. Buon anno scolastico a tutti.


LA SCUOLA È FINITA
di Alfredo Baccelli (1863-1955)

Dalla casetta rustica d'abete
cui fiorisce il geranio i davanzali,
fuggono, quasi al pié battesser l'ali,
Le turbe picciolette, agili e liete.

Rompe la festa in giubili corali:
nel mobile brillar delle inquiete
pupille d'aria e sole arde la sete:
squillan di risa tinnule i viali.

La pipa in bocca, immobile sorride
un alpigiano, e pare un monumento:
bionda una lady ancor li guarda e ride.

Ma dalle acacie, allo stormir del vento,
il passeraio garrulo che stride
Risponde come per consentimento.

(dalla rivista «Nuova Antologia», luglio 1911)




IL RIBELLE
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Sempre mi ribellai
al banco angusto, alla voce chioccia dei maestri,
non diedi che il meno rispetto ai professori.
Nessuno mi comprese, mai. Preferiti erano
i grandi sgobboni che correan l'olimpiade quotidiana
del dieci con lode. Oggi chi sa il nome loro,
nel Mondo non dico, ma pur nella Città?
All'aeropago di legno sùcido
la mia presenza poco pesava. Ma, nel silenzio
di quell'oblio volontario delizioso,
maturava il sacro germe della Poesia:
non mi nutrivo che di Sogno:
nasceva l'Avvenire d'un'anima.
E il professore di aritmetica mi diceva - asino! -
Ed io, come nella favola del quadrupede paziente,
fuori volava, verso l'azzurra Consolazione
ch'empiva i quadri delle finestre aperte.

(da "Poema dei quarantanni", Ed. Futuriste di Poesia, Milano 1922)




LA SCUOLA
di Giovanni Cena (1870-1917)

Settembre! Ricominciano gli orari,
bimbo. Tempo è di spolverare i tomi
dei classici, di scander gl'idiomi
dei padri antichi. Mano ai dizionari!

Ah! Gli par di rimovere sudari
polverulenti ond'escon vecchi aromi.
Oh sapienza! Afferra gli assiomi,
piccolo Fausto, e spremi i corollari!...

E con grand'occhi guarda la finestra
onde irrompendo lo turba l'odore
dei fieni e delle rondini il gridìo.

E una voce laggiù: «Fior di ginestra!»
L'infanzia passò. Passa l'amore,
forse. E richiude i vetri. «Addio, addio!»

(da "Homo", Nuova Antologia, Roma 1907)




AD UN COMPAGNO DI SCUOLA
di Carlo Chiaves (1882-1919)

O mio buon compagno d'un giorno,
t'ho visto passar ne la strada,
con l'aria d'un uomo che vada
perdutamente d'attorno

Per turbinose faccende,
immerso nei gravi pensieri,
e lontano dai desideri
che l'anima più non intende.

Non t'ho rincorso, non t'ho
chiamato, o compagno, perché,
lungo la strada, con te,
la mia giovinezza passò.

Intesi che è una dolcezza
morta per sempre e sepolta,
quella che rifulse una volta
magnifica spensieratezza.

Intesi: e la mente inquieta,
sai tu ciò che allora pensò?
che voi vi mutaste ed io no,
io solo, il vostro poeta!

Il poeta che già ne la scuola
cantava le nostre vicende,
che declamava le orrende
sue pagine a squarciagola.

E tu ripetevi quei versi,
e ne scrivevi, benigno...
Ora, con che viso arcigno
vedresti quei fogli dispersi!

E gli altri, ove sono? I cinquanta
compagni, i cinquanta campioni
che dormivano a le lezioni
con la costanza più santa?

Tutti s'aggiran pel mondo
ancora? o non, più avventurato,
alcuno se n'è addormentato
d'un sonno eterno, profondo?

Quanti seguiron la traccia
segnata? e quanti la sorte
ritenne proprio a le porte
donde la vita s'affaccia?

Quanti si sono avvinti
da le catene dei bisogni,
oh! come lontano da i sogni
dai desideri, dagli istinti!?

Quei che piegava tremante
sui classici l'anima onesta,
non piega or forse la testa
nel grembo di una folle amante?

Tutti per diverso destino
quelli che furon tanti anni
uniti in gioie, in affanni
e l'uno a l'altro vicino!

Se tu facessi ritorno,
o compagno del mio passato,
vedresti ch'io non sono mutato,
che il mio cuore è quello d'un giorno!

Io vorrei ne la mia segreta
anima, raccoglier l'intera
anima di tutta la schiera,
io solo, il vostro poeta.

E attendere che si ridesti,
gagliarda, come non mai,
con tutti i suoi palpiti mesti,
con tutti i suoi palpiti gai!

In una limpida aurora,
attendere che si sprigioni
un'eco possente, sonora,
come di cinquanta canzoni!

(da "Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910)




LA SCUOLA È FINITA!
di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

È giunta l'ora del distacco, è giunta;
io vi lascio sedili riscaldati
aule sapienti portici affollati
ora e per sempre!

Ansie e battaglie e faticose veglie
liete sconfitte e facili vittorie
e voi quaderni carchi di memorie
io v'abbandono.

Libero sono dalla tirannia
d'ogni minuto; sono rotti i ceppi
che per lunghi anni rallentar non seppi.
Libero sono!

Libero, e innanzi a me s'apre la vita
con gli orizzonti vasti ed intentati
e coi premi lontani ed agognati
nei sogni antichi.

Freme nel petto l'animo convulso:
sete di gloria e sete di sapere
desiderio d'azione e di piacere
in me ribolle.

In un amplesso solo poderoso
vorrei legare a me tutta la terra
vincere il fato e la fortuna ch'erra
cieca nel mondo.

Ma un brivido mi corre per le membra,
la vita è fredda e piena di sgomento,
triste isolato debole mi sento
vo' ritornare.

Vo' ritornare ai banchi della scuola
alla diuturna noia, alle catene
a quel fetore che facea sì bene,
ai professori.

Amici, or vedo quanto abbiam perduto;
della nostra esistenza, calda un'onda
nel buio del passato si sprofonda
inesorato.

Con quel legame che ci die' comuni
ore di gioia ed ore di sconforto
anche un periodo della vita è morto
in quest'istante.

Ma non dobbiam però chinar la fronte.
Col ferro in pugno verso l'ideale
ci batterem con animo leale!
In alto i cuori!

E se fra le battaglie della vita
saremo vinti forse, da lontano
ci volgeremo a stringerci la mano
... addio compagni!

(da "Poesie", Adelphi, Milano 1987)




POGGIOLINI
di Marino Moretti (1885-1979)

O Poggiolini! Lo rivedo ancora
con quel suo mite sguardo di fanciulla
e lo risento chiedermi un nonnulla
con una voce che, non so, m'accora.

Che cosa vuoi? Son pronto a darti tutto,
un pennino, un quaderno, un taccuino,
purché tu venga per un po' vicino
al cuore che ti cerca da per tutto.

Non comparirmi, prego, come sei
ora, avvocato, chimico, tenente,
ché cercheresti invano nella mente
il mio ricordo dandomi del lei.

Saper io non vorrò neppure come
passaron gli anni sopra la tua vita:
voglio l'occhiata timida e smarrita
che rispondeva un giorno al tuo cognome.

Voglio che tu mi renda per un'ora
la parte del mio cuore che non pensi
di possedere da quei giorni intensi,
finché saremo i due compagni ancora.

Noi siederemo ad uno stesso banco
riordinando i libri a quando a quando,
e rileggendo un compito, e guardando
sul tavolino un grande foglio bianco.

Il registro a cui tutti eran diretti
quando c'interrogavano gli sguardi,
io lo sapevo a mente: Leonardi,
Massari, Mauri, Méngoli, Moretti...

Il registro coi voti piccolini
nelle caselle dietro i nomi grandi
tu lo sapevi a mente: Nolli, Orlandi,
Ostiglia, Paggi, Poggi, Poggiolini...

Dio, che tristezza ricordare questi
nomi d'ignoti a cui demmo del tu!
nomi che non si scorderanno più
 perché in fila così, perché modesti...

O Poggiolini, che fai tu? che pensi?
Forse tu vivi in una tua casina
odorata di latte e di cedrina
e sguardi e baci ai figli tuoi dispensi.

Forse la sera giochi la partita
fino alle dieci e mezzo, anche più in là,
con la moglie, la suocera e chi sa,
anche con Poggi o Méngoli... La vita!

Io... nulla. Quello che fu mio lo persi
strada facendo, quasi inavvertita-
mente, e adesso se ho un foglio e una matita
faccio, indovina un po', faccio dei versi.

(da "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910)




SCUOLA
di Sandro Penna (1906-1977)

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
dei collegiali. Chini
su libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1970)




LA SCUOLA
di Renzo Pezzani (1898-1951)

Chi mai l'ha costruita, un po' appartata
dall'altre case, come una chiesuola,
e poi che l'ebbe tutta intonacata
le ha scritto in fronte la parola «Scuola»?

E chi le ha messo al collo per monile
una campana senza campanile?

Chi disegnò per lei quei due giardini
con pochi fiori e giovani alberelli
difesi dall'insulto dei monelli
da fascetti di brocche irte di spini?

Chi seminò con tanto amor le zolle?
Per che bambino costruir le volle?

non per un bimbo, ma per quanti sono
nel mondo, suona quella campanella;
e la scuola ti sembra così bella,
e quell'aiuola un rifiorente dono

perché col giardiniere e il muratore
vi mise ogni dì mano anche l'amore.

(da "Odor di cose buone", Paravia, Torino 1950) 




LA SCUOLA DEI GRANDI
di Gianni Rodari (1920-1980)

Anche i grandi  a scuola vanno
tutti i giorni di tutto l'anno.

Una scuola senza banchi,
senza grembiuli né fiocchi bianchi.

E che problemi, quei poveretti,
a risolvere sono costretti:

«In questo stipendio fateci stare
vitto, alloggio e un pò di mare».

La lezione è un vero guaio:
«Studiate il conto del calzolaio».

Che mal di testa il compito in classe:
«C'è l'esattore, pagate le tasse».

(da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)





ASCOLTA LA VOCE DEL MAESTRO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Ascolta la voce del Maestro
la domanda che resta senza risposta
ecco il gesso, ecco l'unghia che stride
e scrive un nome sulla lavagna.
Sembrano voci di un altro regno
le dolci voci dei compagni.
Il ragazzo è solo nascosto
tra le ortiche delle tombe.
Spreme in pugno il veleno d'ogni foglia.
Ha voglia di morire. E uno squillo
di tromba lo accarezza, un richiamo
forte come un nitrito.
Riassapora l'inchiostro sulle dita:
è il Maestro che suona?


(da "Vidi le muse", Mondadori, Milano 1943)



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