lunedì 12 dicembre 2016

Versi de l'inverno (parte I)

E visto che l'inverno è arrivato, anche se non ufficialmente, mi sembra opportuno pubblicare una ventina di poesie che parlino di questa stagione. Nella maggioranza di questi versi si notano descrizioni di paesaggi desolati, che l'inverno, imminente o cominciato da poco, ha già cambiato in modo netto. Il mese è, molto spesso, quello di dicembre: il primo che dimostri in modo chiaro un mutamento climatico, con le prime gelate e le prime nevicate (se si escludono i luoghi montani in cui, già a novembre la neve abbonda).
Lo spazio temporale in cui sono state scritte e pubblicate queste poesie va, all'incirca, dall'ultimo decennio dell'Ottocento al primo trentennio del Novecento.
Tra i poeti qui presenti, se ne possono trovare alcuni decisamente ottocenteschi come il Marradi e il Guerrini; eppure entrambi, almeno in questi componimenti, mostrano una tendenza verso la nuova poesia. Si faccia, ad esempio, un raffronto tra La quercia abbattuta di Marradi e La quercia caduta del Pascoli: entrambe uscite nello stesso periodo (ma quella del Marradi precede di poco l'altra).
Più legate al modo di poetare del XIX secolo sono le liriche di Avancini, di Belluso, di Boner e di Francesco Chiesa: poeta svizzero di lingua italiana, quest'ultimo, che subì costantemente, lungo l'arco della sua prestigiosa carriera poetica, l'influenza di Giosuè Carducci.
Fra gli altri, c'è da segnalare un poeta che non fu mai granché considerato, pur possedendo qualità non indifferenti: Augusto Edoardo Berta; coetaneo del Pascoli, fu autore di due volumi in versi molto belli e dalle caratteristiche innovative.
Vi sono anche dei poeti crepuscolari: Marrone e Govoni, che, rispettando le tematiche a loro più care, pongono l'accento sulla tediosità della fredda stagione.
Non son pochi, infine, i versi di quei poeti definiti "minimi", che pure, rileggendoli, sono da rivalutare per lo meno per alcuni tra i loro componimenti, come quelli che compaiono in questa selezione. Tra di essi vorrei citare un certo Tullio Ortolani, che oltre a scrivere e pubblicare poesie svolse l'attività di professore; a lui ho già dedicato un post nella sezione dei "poeti dimenticati".   




EPISTOLARIO, VI
di Bruna (pseud. di Laura Clementina Maiocchi, 1866-1945)

Amico mio, per voi questa mattina
colsi l'ultima rosa;
pendea pallida e china
quale una pensierosa

testa dolente. Coronata ell'era
di pure stille; ancora
il pianto de la sera
serbava e de l'aurora.

Ma vidi tosto al tocco de la mano
la corolla sfiorire
siccome sogno vano.
Or voglio rïunire

i petali rosati in questo foglio
che viene a voi, gentile
diletto amico; voglio
de la rosa d'aprile

mandarvi (mentre già l'inverno avanza,
cinto di nevi e brine)
la soave fragranza.
Restano a me le spine.

5 dicembre '97

(Da "In solitudine", Cappelli, Rocca S. Casciano 1898)




INVERNO IMMINENTE
di Augusto E. Berta (1855-1923)

Nel parco assiderato, che il gran brivido assale
dall'imminente inverno, va la Dama, superba
figurina vivente d'una scena spettrale.
Chiuso il ciel. - La ramaglia degli alberi non serba

che una scialba memoria del verde trionfale
de' bei giorni del sole. - Agonizza nell'erba
l'ultima rosellina. Fischia il vento - fatale
rovina! - ed urla al mondo la sua minaccia acerba.

Bella Dama elegante - vi dice il vento - è l'ora!
Fuggite questa tetra monotonia vasta
e desolata! Andate - o pensosa signora!

Tutto vi muore intorno! Tutto qui geme e implora
sotto i colpi crudeli del verno iconoclasta!
Al tepido salotto tornate - o Dama - è l'ora!

(Da "Le stigmate", Tip. Vincenzo Bona, Torino 1894)




ODE INVERNALE
di Avancinio Avancini (1866-1939)

Salve dicembre: a grandi
passi tu varchi la deserta valle,
e di tue fredde pioggie i venerandi
boschi bagnati curvano le gialle

chiome in atto dolente;
miran le creste brulle, incoronate
di nubi, a 'l cielo sonnacchiosamente,
e con sordo fragor cento cascate

colan lungo le roccie
di vivo sasso, dileguando a 'l fondo
in una polve di minute goccie.
Di qua, di là, sopra la vetta e il tondo

fianco di monti, mute
le capannuccie stanno a l'inesausto
diluvio; i vetri splendono, e sedute
ne la luce invernal filano il fausto

canape le comari:
mentre di fuor sibila il vento, scossi
piegan li abeti in fila i secolari
scheletri lagrimosi, ed a i commossi

miei sensi il verno schiude
solennemente i barbari secreti
de 'l suo poema gigantesco e rude. -
Ma ne 'l vicin salotto, a le pareti

de 'l qual pendono i vecchi
quadri e si vedon raddoppiati i rai
de la fiamma festiva entro gli specchi,
ma ne 'l vicin salotto, ove di gai

fumi la mensa odora
e il prezioso vin ride traverso
a 'l lucente cristallo, è la signora
mia ritta ad aspettarmi; il guardo, perso

ne 'l crepuscolo, pare
d'un bellissimo sogno iniziato
serenamente il fil continuare:
cadono i ricci copiosi a lato

de 'l roseo volto, pura
cornice: sopra le due guancie, lisce
sì come pietra levigata e dura,
perenne maggio la beltà fiorisce.

(Da "Rime", Tip. Bortolotti di G. Prato, Milano 1888)




DOMENICA D'INVERNO
di Tito Marrone (1882-1967)

Domenica d'inverno aspra di pioggia
su le piazze deserte e su le strade,
conosco la malinconia che invade
tutte le cose umide del suo pianto:
l'edera che intristisce su la loggia,
il fior di crisantemo e il dior d'acanto.

Spento è novembre, con l'illusione
dell'estate dei morti a San Martino;
ora trascorre il fiato decembrino
dove un sorriso tenue fiorì:
la terra è triste come una prigione
che tutte le speranze seppellì.

Domenica d'inverno, ecco il tuo pianto:
lacrime in cielo, fango su la terra;
ed uno stesso affanno vi rinserra,
anima nostra, anima delle cose!
E vi ricopre ora uno stesso manto,
anima nostra, anima delle cose!

Lasceremo passare questo giorno
fino al tramonto che non si vedrà,
com'alba non si vide, e sorgerà
un altro giorno, con la stessa pioggia
forse, e ci sembrerà quasi un ritorno
di questo che si stempra su la loggia!

Lunedì: giorno di lavoro. Noi
non guarderemo immobili con tetri
occhi l'acqua che crepita su' vetri,
e non diremo inutili parole.
Ma oggi, ch'è domenica! non vuoi,
anima, un po' d'azzurro, un po' di sole?

(Da «Rivista di Roma», dicembre 1904)




PIOGGIA
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

Piove e fa freddo. Si gela.
Il cielo
è sconsolatamente disperato.
Anche il cieco cammina: l'ombrello forato
tentenna ondeggia si abbassa
guarda nel cielo, schiva le pozzanghere.
Egli guarda con gli occhi del cane
che annusa e scantona.
È il buon figliuolo
il solo
il bastone della vecchiaia
la sua pupilla destra
e forse anche sinistra.
C'è nell'aria intermittente
un odore di gabinetto chimico
filtra la pioggia indefinitamente.
Il cane s'arresta
se fiuta odore di più grossa tempesta.
Trema il guinzaglio
che accompagna le nuvole.

Questa è la via del camposanto, certo.
Un lampo illumina d'un colpo
quella miseria spettrale che passeggia.
Cadono tutte le maschere
e ruzzola nella mota
il ghigno di chi non ha visto.
Sta nella sera immota
la sua figura solenne.
E chiama chiama chiama
se venga di lontano
qualcuno che ha fame
qualcuno che ha pane
per sé e per il cane.

Pallidi indifferenti scettici
si affacciano ai balconi
i primi fanali monocoli.

(Da "Abbeveratoio", Libreria Della Voce, Firenze 1915)




GIORNO DI PIOGGIA
di Abdon V. Micillo (pseud. di Aldo C. Lombini, 1891-?)

Il giorno è freddo, oscuro e melanconico,
cade la piova e non ha posa il vento.
Al rudere, che crolla, ancor s'abbranca
la vite, con tenace abbracciamento;
ma via, con ala stanca
ad ogni infuriar de la bufera
cadon le foglie a schiera.
Il giorno è fosco, freddo e malinconico.

È fosca la mia vita e melanconica
cade la piova, e non ha posa il vento.
Al passato, che crolla, ancor s'abbranca
il pensier, con tenace abbracciamento;
ma via, con ala stanca
cadon le spemi giovanili a schiera
nell'urlante bufera.
È la mia vita fosca e melanconica.

(Da "Fremiti", Casa editrice dela F.I.G.P., Napoli 1911)




NELLA BRUMA
di Ugo Ghiron (1876-1952)

Pigra sera
decembrina: nuota oscura
l'ampia selva dei camini e delle cupole
entro l'aria densa e molle come vischio.
Un immenso
mar di fango piazze e strade,
su cui scialbo trema il guizzo dei fanali.
Passi fiochi,
fiochi strepiti di ruote, come in sogno;
dei rintocchi d'orologio - come in sogno -
che fra i lenti
veli oscillan della bruma...
Poi, d'un tratto,
- così chiaro che il ciel taglia -
(batte giallo,
dunque, il sole a qualche nera inferriata?)
un cantare
strano, stridulo,
di gallo!

[Da "Poesie (1908-1930)", Sandron, Palermo 1932]




IL VIATICO
di Angiolo Orvieto (1869-1967)

I campi stamattina
erano tutti fioriti di brina;
pareva nevicato da per tutto,
sopra gli alberi spogli
e sulle foglioline dei trifogli.
L'aria fredda e serena, appena appena
colorata di rosa ad oriente...
Quand'ecco fra la brina dolcemente
si sente la vocina
d'una cmapanellina.
Il Viatico andava dalla Rosa,
la vecchia contadina.
E intanto la sua nuora, poverina,
gemeva fra le doglie.
Cadean l'ultime foglie
dalla vigna avvizzita,
qualche boccio di rosa decembrina
si schiudeva alla vita.

(Da "La primavera della cornamusa", Bemporad, Firenze 1925)




VILLA BORGHESE
di Ettore Romagnoli (1871-1938)

Quivi crosciar di gelide acque cadenti, e attorno,
per le querce grigiastre, di frondi uno stormir;
e della vita il murmure, mentre declina il giorno,
per l'aer luminoso giunge fioco a morir;

e il sole che purpureo i raggi ultimi vibra
tra i foschi rami, a specchio del verde umido pian
su cui del ciel l'immagine diafana or si libra,
ed or limpide nubi con lento moto van.

Trilla un augello, e sùbito impaurito tace:
mentre dal nebiloso etra il notturno gel
piove su l'onde, e, trepida, la luminosa face
Espero leva, e ascende con lento passo il ciel.

(Da "Miti e fantasie", Carabba, Lanciano 1910)




TRA FIORI MORTI
di Tullio Ortolani (1869-?)

È il dì freddo: taciturna
tra fior morti tu cammini.
Mentre la luce diurna
va mancando, a terra chini

tieni i grandi occhi divini.
Sul giardin mesto quale urna
funeraria, donde fini
sogni salgon, la notturna

alta quiete ecco si versa
da le stelle, da la luna;
ma l'affanno che in cor porti

non ha pace. Sempre immersa
ne la tua triste fortuna
tu cammini tra' fior morti.

(Da "Vox in deserto", Tip. P. Castaldi, Feltre 1895)




OH COME ACCIDIOSA A POCO A POCO
di Gustavo Brigante Colonna (1878-1957)

Oh come accidiosa a poco a poco
Entra la notte nella muta stanza!
Oh come il vento va parlando roco
Da presso e sospiroso in lontananza!

Nessuno nel camino ha acceso il fuoco,
Nessuno a me consiglia una speranza;
E pur dei dì che vanamente invoco
M'assale ancor la viva ricordanza.

E pur m'assale ancor la nostalgia
Degli inverni lontani, allor che accanto
Al fuoco, nella mia casa silente,

Riposavo in un sogno confidente,
E m'era augurio affettuoso e santo
La tua buona carezza, o madre mia.

(Da "Gli ulivi e le ginestre" M. Carra & C., Roma 1912)




PATINA DI BRONZO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Cantano tra la nebbia
dei galli da dei pollai;
il freddo trebbia
l'ultime rose dei rosai.

Una campana da un convento articola
l'ore:
un'altra stampa una particola
di rumore.

La stanza prende un aspetto strano
di archeologia...
Oh quel tamburo lontano
che buratta la sua malinconia!

Unica fede ne l'addio
de l'orto verdeggia il bosso.
Tra le foglie c'è lo scoppiettio
dei bubboli d'un pettirosso.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)




BALLATA JEMALE
di Gino Del Guasta (1875-1940)

Nei viridarii squallidi è cascata
l'ultima foglia sotto un cielo algente;
e a piangere ritorna la dolente
anima - di fantasmi arca gelata -

Io non attingo nell'ansia segreta
il malioso farmaco d'amore
a una feminea bocca sensuale,
ma struggo i giorni miei sì come asceta
ne la febre dell'arte e nel dolore.
E a notte, per la tenebra glaciale
una vanente immagine spettrale
mi persegue. Sei tu, madre, che gemi
nella fossa acquidosa e ignuda tremi
fra le croci terragne, sconsolata!

(Dalla rivista «Le Varietà», febbraio 1894)




INVERNO
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Inverno, poiché il tuo fiato aspro lima
la terra e striscia ruvido nel cielo,
come ved'io non apparenti prima.

Nuda la verità fuor d'ogni velo
caduco scerno: semplice, virginea,
immobil entro numeri di gelo.

Fuor d'ogni veste florida, pampinea,
la collina, ecco, si rivela, chiusa
perfettamente di più salda linea.

Ecco l'albero che scuote e ricusa,
vani accidenti, fiori e foglie; e austero
rientra nella sua formola astrusa.

Rientra, come talor uomo parliero
si ritrae dalla torbida parola
dentro i nitidi schemi del pensiero.

Del parlar onde sdegna, ei si consola
ivi intendendo... E tra le fronde rade
meglio penetra il sole e l'aria svola;

e chiare tracce appaiono di strade
per entro i boschi; ed una gemma pronta
spunta nel segno ove una foglia cade.

Nudo e più fermo ogni macigno impronta
sé nella luce: aspra la terra indura
che marciva, e il gel fulgido sormonta.

A te nei veli d'Iride natura
non piacque, o Inverno; e rigida le serri
sulle membra palladie un'armatura.

Ferma vuoi tu bellezza, e che non erri
di colore in colore: e l'erbe stingi
e i rami tempri come grigi ferri.

Tu il riso errante a fior di cosa stringi
dentro; tu il riso delle cose impietri
d'un'immobilità, come alle sfingi.

O puro austero! E tu sospendi i tetri
marciumi; tu l'architettura rude
del mondo sgombri; tu d'argenti e vetri,

o buon mago, la lurida palude
copri, e vi danzi e vi ti specchi e ridi;
de' semi, quel che più vigore inchiude

tu, buon arbitro, serbi e gli altri uccidi.

(Da "I viali d'oro", Formiggini, Roma 1911)




IL SALUTO
di Aldo Fumagalli (?-?)

Lontano, su le cime aspre dei monti
Venne la neve, da la valle aperta
Venne il vento ghiacciato sovra i boschi:
Primo saluto! Se diamni a l'alba
Il sole brillerà su le boscaglie
Le troverà già vecchie, ne l'autunno
Arse dal soffio immane de la morte!
Ne le case già brilla il focolare
Dei primi ciocchi lenti e silenziosi.
Or la Lena dov'è? Dov'è Maria?
Dov'è lo sciame garulo dei bimbi?
Oggi non li ritrovo su la via
Consueta, e, intorno alita l'inverno.
Sui boschi è un velo: sovra i campi attesa
De gli squarci profondi de gli aratri,
E del riposo de le nevicate...
Levasi intorno grave di bellezza
L'ampio saluto de la pace, mite
Come suono lontano di campane.
Levasi intorno a l'ora de la pace
Una muta bellissima preghiera.

(Da "Arcate", Puccini, Milano 1913)




HIEMALIA, I
di Edoardo Giacomo Boner (1866-1908)

T'amo, nemboso inverno! a me stagione
Grata non men d'ogni altra sei; ché quando
S'empie d'ira e di tenebre il vallone,
O spuma e scoppia il Jonio venerando,

E quindi 'l vento dal settentrione
Soffia, un pianto di volghi ansii recando,
Quinci dell'arsa Libia il solleone
Narra e i palmèti dal profilo blando,

Parmi aspirar nobili sensi alteri,
Foco al tuo gelo attingo, e l'aure sfido
Anima e capo ergendo; e mentre i ner

Flutti s'avventan su 'l deserto lido
E rumoreggia il tuon, franchi pensieri
Che vincan forse i tempi al vento affido.

(Da "Plenilunio", Emilio Quadrio, Milano 1889)




DICEMBRE
di Mario Adobati (1889-1919)

Anima mia, in una stretta lieve,
come la siepe di un giardino morto,
racchiudi in te con l'ultimo tuo breve
sogno sepolto l'ultimo conforto.

Rifiorirà ancora un bucaneve
entro la cinta del lontano orto,
anche se il gelo generò la neve,
anche se il gelo vi recò sconforto.

Ma in te, anima mia, in te sì sola,
entro il tuo gelo non avranno vita
dolci pensieri in morbido abbandono.

Un latte incorruttibile sol cola
dal tuo gelido cielo. Su le dita
questa neve raccolgo come un dono.

(Da "I cipressi e le sorgenti" , Tip. C. Conti e C., Bergamo 1919)




MUTO DICEMBRE
di Enrico Cardile (1884-1951)

Muto dicembre, nella bianca valle
non di voce o campana eco si ascolta:
rabbrividisce la mia fronte, a volta,
come sfiorata d'ala di farfalle.

(Nevica sui capelli, o sovra il cuore?)
Natività, ma tu non sei più quella,
è spenta in cielo omai l'ultima stella,
ucciso è omai sul monte il Salvatore...

Muto Dicembre, la tua bianca cuna
non dondola, per me, sulla speranza,
tutto quel che di vita ora mi avanza
ceppo non offre all'ultima fortuna.

Fuoco non dona il canto, o Gioventù:
l'Anima non si esalta o si ribella,
e col Natale non si rinnovella,
e col Natale non sorride più...

(Da "Sintesi", Studio Editoriale Moderno, Catania 1923)




QUERCIA ABBATTUTA
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Tu giaci, quercia; e quante volte, al blando
tuo rezzo verde che il villino ombrava,
vedesti i bimbi, in compagnia dell'ava,
saltar d' intorno a lei, rosei vociando!

Ed or che il verno addensa la bufera,
or che a colpi di scure ad una ad una
cascarono le tue braccia sfrondate,
gioconderai d'alacri vampe a sera
le veglie della casa, ove raduna
l'avola i bimbi a novellar di fate;
mentre in lei fisse, trepide, incantale,
le testine auree nell'opaca sala
splendono al focolare, in cui s'esala
il tuo spirito antico, alto fìammando.

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1923)




GUARDANDO LA TERRA
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Dormono i germi che si sveglieranno
nel suol che un giorno ci addormenterà.

L'inverno è mite. Una serenità
cerula sovra il piccolo orto tepe:
la vecchia terra è ruvida di crepe,
nera la siepe che fu verde già.

La terra nel suo mite ozio si adagia
novellamente. Come calma! Come
par che contempli, tra le rade chiome,
un cielo chiaro a fiocchi di bambagia.

Stanca posa e pur sogna: e pure invita:
chi del suo letto si atterrì, chi mai?
ella è buona a chi dorme: ella ai rosai
sempre serbò la ritmica fiorita.

E queste zolle, or or vangate, ancora
non paion dunque soffici, tramate
ancor dei rivi che alla nova estate
ripulluleran fuori, acqua canora?

Terra fedele, letto ultimo e pio,
onde il fervido odor delle radici
voi respirate, taciti e felici,
o morti, in braccio all'infinito oblìo,

Terra, oh com'oggi ti sopisci, come
ti adagi al sonno tra i brulli arboscelli,
tra le siepi oggimai senza capelli,
e i cipressi alti dalle eterne chiome!

Il cielo è mite. Una serenità
cerula sta sopra le cose. Hanno
tutte le cose in questa fine d'anno
come un sorriso d'anima che sa.

Dormono i germi che si sveglieranno
nel suol che un giorno ci addormenterà.

(Da "La donna del velo", Lattes, Torino 1905)




LUNA INVERNALE
di Alfio Belluso (1855-1904)

Fra gli alberi nudi e silenti
Che sporgon su' muri dell'orto,
Sospirano gelidi i venti.
Il disco manchevole e smorto
La luna fra nuvole e veli
Nasconde nell'alto de' cieli.

Trascorre la notte invernale
Fra sibili arcani e singulti...
Nell'umide tenebre, quale
Mistero di spasimi occulti
E inganno di sogni dubbiosi
Affanna e lusinga i riposi?

S'addensan, si squarcian nel cielo
Le nubi cacciate dal vento,
E passa tra 'l pallido velo
La luna: un immane lamento
Par s'oda da lungi venire...
Lamento d'un grande martìre.

(Da "Cerere", Giannotta, Catania 1899)




DICEMBRE
di Olindo Guerrini (1845-1916)

Nel ciel grigio e sonnolento
è una gran malinconia,
e la neve senza vento
muor nel fango della via.

Un mortale increscimento
assalì l'anima mia;
agghiacciato il cor mi sento
nel sudor dell'agonia.

Muore il giorno e al mondo invia
un addio che fa spavento,
un singhiozzo d'elegia.

Muore l'anno e lento lento
nel languor dell'etisia
l'amor nostro, ecco, s'è spento!


(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)



Lorenzo Delleani, "Inverno"

3 commenti:

  1. Una selezione impegnativa dal punto di vista estetico! La poesia richiede il suo tempo per essere metabolizzata.
    Sarebbe bello fare una lettura pubblica.

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  2. ti segnalo il sito http://diepicanuova.blogspot.it, e'di un mio caro amico Franco Romano'.

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    1. Grazie della segnalazione! Ho dato già una sbirciata al sito da te raccomandatomi e ho notato la presenza di interessanti articoli. Vi tornerò sicuramente per cercare ed approfondire argomenti che potrebbero coinvolgermi. Riguardo alla lettura pubblica di queste poesie, potrebbe essere una buona idea, ma, come hai ben detto, visto che i versi spesso necessitano di tempo per esser metabolizzati, la cosa migliore è sempre e comunque leggerli con la massima attenzione. E se ci piacciono, leggerli all'infinito...

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