mercoledì 6 luglio 2022

La fonte

 

Una fontana nascosta dentro il profondo d'un bosco

 so, dove cresce l'edera folta intorno;

 

quando s'accosta alcuno, ne svolano mille farfalle

 notturne con dipinte l'ali di rosso e bruno.

 

Sopra s'addensan le querce dal cupo dentato fogliame,

 donde sempre suona vario d'alati un canto.

 

Sulla fonte reclino il volto e m'ardono gli occhi,

 che cercano insaziati quanto ho smarrito altrove.

 

Ecco ch'io scorgo nell'acqua cento volti già noti:

 sono le mie speranze, pallide nella fonte.

 

Vogliono perdersi, via svanire per sempre con l'acque.

 Or s'indugiano ancora tenuemente tremano;

 

esse aspettano ch'io precipiti dentro le fredde

 correnti: al mio cadere pronte dilegueranno.

 




 

COMMENTO

La fonte è il titolo di una poesia di Luigi Siciliani (Cirò 1881 – Roma 1925) che ho trascritto dalla raccolta Arida nutrix, pubblicata dalla Società Editoriale Quintieri in Milano nel 1920. La medesima raccolta, era già uscita in altre due edizioni, leggermente differenti da questa; la prima, fu pubblicata nel 1909 presso l’editore Modes di Roma; la seconda, pubblicata dallo stesso editore della terza, uscì nel 1912.

Questi versi parlano di una fonte che si trova in un luogo recondito, all’interno di un fitto bosco. Intorno alla fonte, vivono e crescono piante ed animali; l’edera la circonda e, al di sopra di essa, vi è una concentrazione di querce, che si fanno notare per le loro foglie scure e dentellate. Sopra i rami delle querce vi sono degli uccelli, che probabilmente non si vedono, pur facendo percepire la propria presenza col loro canto assai diversificato. Chi si avvicina alla fonte, vede anche moltissime farfalle notturne, con ali rosse e nere, che si trovano nei pressi dell’acqua, e che volano via e si allontanano non appena avvertono la presenza di un estraneo. La fonte ha qualcosa di magico, che spinge chi vi si avvicina a specchiarsi nelle sue acque. Il poeta lo fa e vede, sulla superficie acquosa, tanti volti conosciuti; sono le sue speranze, che hanno preso le fattezze umane, e spiccano per la loro bianchezza. Queste speranze, divenute esseri viventi e pensanti, vorrebbero dileguarsi per sempre con l’acqua che scorre; ma per ora non si muovono, attendendo che il poeta cada dentro la fonte, e misteriosamente sia portato via dalle fredde correnti; solo in quel momento, le speranze spariranno per sempre.    

domenica 3 luglio 2022

In riva al mare

 

Eran le sei del pomeriggio, un giorno

chiaro festivo. Dietro al faro, in quelle

parti ove s'ode beatamente il suono

d'una squilla, la voce d'un fanciullo

che gioca in pace intorno alle carcasse

di vecchie navi, presso all'ampio mare

solo seduto; io giunsi, se non erro,

a un culmine del mio dolore umano.

 

Tra i sassi che prendevo per lanciare

nell'onda (ed una galleggiante trave

era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,

un bel coccio marrone, un tempo gaia

utile forma nella cucinetta,

con le finestre aperte al sole e al verde

della collina. E fino a questo un uomo

può assomigliarsi, angosciosamente.

 

Passò una barca con la vela gialla,

che di giallo tingeva il mare sotto;

e il silenzio era estremo. Io della morte

non desiderio provai, ma vergogna

di non averla ancora unica eletta,

d'amare più di lei io qualche cosa

che sulla superficie della terra

si muove, e illude col soave viso.

 

 


 

COMMENTO

In riva al mare è una poesia di Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli, Trieste 1883 – Gorizia 1957). La si può trovare, tra i libri che raccolgono una parte o l'intera opera in versi dello scrittore triestino, in Poesie scelte (Mondadori, Milano 1992) e in Tutte le poesie (Mondadori, Milano 1993); io l'ho trascritta dal primo volume citato, dove si trova a pagina 85. Ancora inedita, apparve nel primo Canzoniere che Saba pubblicò nel 1921, come ultima poesia della sezione L'amorosa spina.

Pur non essendo molto conosciuta e malgrado non mi risulti mai selezionata in alcuna antologia famosa della poesia italiana del Novecento, ritengo questa composizione in versi una delle più belle mai scritte da Saba. Certamente il tema trattato non è allegro: il poeta ricorda un momento - parafrasando un capitolo del Canzoniere - di "serena disperazione" che lo ha travolto. Tutto ciò, come spiega Saba, è avvenuto durante un giorno di festa; verso le sei del pomeriggio, il poeta si trovava sulla spiaggia (probabilmente della sua città natale), e per passare il tempo si dilettava a lanciare dei sassolini nel mare, quando, improvvisamente si avvide della presenza, tra la sabbia, di un bel coccio marrone: forse un frammento di una teiera andata da chissà quanto tempo in frantumi; e guardando quel frammento ormai del tutto inutile, lo paragonò a se stesso, che evidentemente stava attraversando un periodo difficile; la sua situazione deficitaria e la depressione che ne scaturiva, lo portarono a fare un'amarissima considerazione, chiedendosi come aveva fatto, fino a quel momento della sua esistenza, a farsi allettare dalle innumerevoli illusioni che la vita offre, più o meno a tutti gli uomini, e a non amare solamente la morte: unica eletta perché sicura, non ingannevole e in grado di porre fine a qualsiasi tipo di sofferenza. Si nota, in questi versi, l'attenzione particolare che l'autore attribuisce ai colori degli oggetti che vede e del paesaggio; precisamente, tali colori posti in risalto sono due: il marrone del coccio ed il giallo della vela che si riflette anche nel mare. Questi, che in genere non sono associati a sentimenti dolorosi o tristi, in questo caso divengono i simboli della disperazione del poeta.

 

domenica 26 giugno 2022

L'orientalismo nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La predilezione e, in certi casi, la passione per l'arte, i luoghi, determinati personaggi e precisi oggetti che provengono dall'oriente, appartiene al miglior decadentismo e simbolismo europeo. La poesia italiana non fa eccezione, viste le numerose tracce di orientalismo che si possono trovare nei versi di tanti poeti riconducibili all'area decadente-simbolista. Fonte d'ispirazione dell'orientalismo poetico, sono senz'altro i romanzi e i racconti di grandi scrittori francesi dell'Ottocento, come Victor Hugo, Gustave Flaubert e Karl-Joris Huysmans (forse si potrebbe aggiungere anche il nostro Emilio Salgari); soprattutto Flaubert, autore, tra l'altro, dei racconti esotici Salammbô ed Hérodias, fu determinante nel diffondere tra i lettori una sorta di fascino tutto orientale e tutto al femminile, che quindi divenne fonte d'ispirazione per parecchi poeti italiani e non. Ciò che attraeva dell'allora misterioso oriente, era anche la musica e in particolare certe danze sensuali, in cui di nuovo erano protagonisti personaggi femminili più o meno leggendari (si pensi a Salomè, spesso presente anche nelle arti figurative di quel preciso periodo). Non di meno, affascinavano i suggestivi e, direi unici paesaggi che si trovano in alcune zone dell'Asia e dell'Africa orientale, comprendenti, nella descrizione accurata che ne facevano i poeti, piante ed animali del tutto sconosciuti a chi era vissuto sempre in Europa. Meno citati, ma pur presenti, sono i luoghi ed i personaggi inerenti alla Cina ed al Giappone (a tal proposito, si leggano i quattro bellissimi sonetti di Corrado Govoni, racchiusi sotto il titolo Ventagli giapponesi).

 

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Scheherazade" e "Salomè" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Giovanni Camerana: "Salammbô" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Danza delle scimitarre" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Guido Da Verona: "La canzone del fiume Jo-Yéh" e "La tazza di thé" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).

Raoul Dal Molin Ferenzona: "Notte antica" in "A Ô B (Enchiridion notturno)" (1923).

Federico De Maria: "Nostalgia d'Oriente" in "Le Canzoni Rosse" (1904).

Federico De Maria: "Il ricordo più bello" in "La Ritornata" (1933).

Domenico Gnoli: "Sul Gange" in "Jacovella" (1905).

Corrado Govoni: "Ventagli giapponesi" in "Le Fiale" (1903).

Luigi Gualdo: "Atarah" in "Le Nostalgie" (1883).

Virgilio La Scola: "Cantore arabo" in "La placida fonte" (1907).

Gian Pietro Lucini: "Il tappeto su cui, Bella, danzate" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Nicola Marchese: "Orientale" in "Le Liriche" (1911).

Tito Marrone: "La Stufa" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).

Angiolo Orvieto: "Il Fuji" e "Nikko" in "Verso l'Oriente" (1923).

Aldo Palazzeschi: "Habel Nassab" in "Poemi" (1909).

Giuseppe Rino: "La figlia d'Erodiade" in "Poesia", agosto/settembre/ottobre 1909.

Guido Ruberti: "Le serre" in "Le fiaccole" (1905).

Carlo Vallini: "La leggenda del principe Siddharta" in "Un giorno" (1907)

Carlo Vallini: “Horo”, “Lo Scriba”, “L'offerta del Re” e “Nel Màstaba” in «Ardita», gennaio 1921.

 

 

 

 

Testi

 

VENTAGLI GIAPPONESI

CRIPTOMERIE

di Corrado Govoni

 

Per dei viali d’alte criptomerie

s’alternano le pulite casette,

giuocattoli minuscoli, berrette

di persone attillate e poco serie.

 

Sembrano femine in continue ferie

di gonnelle di stoffe un po’ civette,

increspate di splendide faccette

più azzurrognole di pontiderie.

 

Lontano, ad un incerto Timbuctù

migra un greggie d’anitre selvatiche

traverso un bianco cielo di gimè.

 

Nel lago tra le canne di bambù

una vergine tuffa le sue natiche...

e il paesaggio è di Kirosighè.

 

(da "Le fiale")

 

 

 

 

NEL MÀSTABA

di Carlo Vallini

 

Nel màstaba profondo, ove le offerte

giacciono intatte sulla pietra dura,

ove, nel chiuso delle quattro mura,

l'alito della nafta acre s'avverte,

 

guardano i grifi e gl'ibis con aperte

ali, fra i geni della sepoltura,

quella che ignota a Fthah, rigida e pura

dorme, fasciato il lungo corpo inerte.

 

Dorme pura e in eterno, ella, né teme

i mostri che s'inseguono per l'alto,

biechi, anelanti a lugubri connubi:

 

poiché, funebre iddio, sopra le estreme

sue sorti, con obliqui occhi di smalto,

vigila immoto lo sciacallo Anubi.

 

(da «Ardita», gennaio 1921)

 

 

Jean Paul Sinibaldi, "Salammbô"
(da questa pagina web)


mercoledì 22 giugno 2022

Innanzi l'alba

 

Coglierai sul nudo lito,

infinito

di notturna melodia,

il maritimo narcisso

per le tue nuove corone,

tramontando nell'abisso

le Vergilie,

le sorelle oceanine

che ancor piangono per Ia

lacerato dal leone.

 

Andrem pel lito silenti;

sentiremo la rugiada

lene e pura

piovere dagli occhi lenti

della notte moritura,

tramontando nel pallore

le Vergilie,

le sorelle oceanine

minacciate dalla spada

del feroce cacciatore.

 

Forse volgerò la faccia

in dietro talvolta io solo

per vedere la tua traccia

luminosa,

e starem muti in ascolto,

tramontando in tema e in duolo

le Vergilie,

le sorelle oceanine

a cui l'Alba asciuga il volto

col suo bianco vel di sposa.

 

Frontespizio della prima edizione di "Alcyone"



 COMMENTO

Innanzi l’alba è il titolo di una poesia di Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938), che fa parte della raccolta Alcyone, ovvero del Terzo Libro delle Laudi (gli altri due sono Maia ed Elettra, usciti poco tempo prima), pubblicato per la prima volta dai Fratelli Treves di Milano, nel 1904. Io l’ho trascritta dal volume: D’Annunzio, Poesie, Garzanti, Milano 1992 (VI edizione); trattasi di un’antologia delle poesie dello scrittore pescarese, con introduzione, scelta dei testi, note e commenti di Federico Roncoroni. Sconosciuta è la data di composizione di Innanzi l’alba; si sa per certo però che nel dicembre del 1902, quando i Fratelli Treves Editori annunciarono l’imminente uscita di Alcyone, essa era già stata scritta.

La scena è quella di una spiaggia deserta, nell’ora in cui si comincia ad intravedere appena la luce dell’alba; la stagione, probabilmente è l’estate. In questo luogo incantato (reso tale anche dal prolungato rumore delle onde che s'infrangono sulla riva), il poeta immagina di passeggiare insieme alla sua compagna. I due non si dicono nulla, letteralmente inebriati dal paesaggio; e, mentre la donna è intenta a cogliere dei fiori marini per farne delle ghirlande, il poeta è attratto dalle orme che, camminando, essa lascia sulla sabbia del lido, volgendo gli occhi anche al cielo, che si rischiara sempre di più, e alle Pleiadi che lentamente tramontano.

È una delle poesie più affascinanti e sognanti di Alcyone, e possiede, come tante altre della medesima raccolta, una magistrale musicalità. In alcuni versi, vi sono dei chiari riferimenti alla mitologia greca; le Vergilie, ovvero le costellazioni delle Pleiadi e delle Iadi, da tale mitologia sono considerate sorelle; entrambe figlie di Atlante erano anche nipoti di Oceano; Ia (Hyas in greco) invece, fratello da parte di madre delle Iadi, fu sbranato da una leonessa perché tentò di portargli via i piccoli (da ciò nasce il pianto delle stelle). Le Vergilie, al verso 19, subiscono la minaccia  del “feroce cacciatore”, ovvero dalla costellazione di Orione, che proprio i greci raffigurarono simile ad un gigante armato di spada, che impaurisce le Pleiadi mentre esse, lentamente, si dileguano. Bellissima è infine l’immagine dell’alba che stende un velo bianco nel cielo, per consolare le stelle fuggenti e piangenti.


Elihu Vedder, "Pleiades"
(da questa pagina web)



domenica 19 giugno 2022

Chiudi gli occhi agli orrori della notte


 


«Chiudi gli occhi agli orrori della notte

apri gli occhi al bello del giorno»

questo non lo disse il saggio cinese

ma un certo vecchio cocomeraio

che dal suo campo riusciva a farsi dare

dal suo campo le più belle angurie

 

«chiudi gli occhi sull'orrido della notte,

aprili alla bellezza del giorno»

questo non lo disse il saggio cinese

ma il vecchio cocomeraio Amerio Botto.

Lui che non sapeva né leggere né scrivere

ma gli dava il suo campo le migliori angurie

con dentro come la più bella bandiera

del nostro mondo.

 


 COMMENTO

La saggezza popolare racchiusa in una frase detta da un anziano e analfabeta venditore di cocomeri già estinto, che un poeta trasforma in due bellissimi versi, seguiti da altri, che mettono in risalto un uomo semplice, per nulla istruito, capace di attrarre la parte più attenta e sensibile dell’umanità grazie agli ottimi frutti scaturiti dal suo lavoro umile, e grazie alla sua scarna ma incontestabile saggezza.

La poesia senza titolo che inizia col verso Chiudi gli occhi agli orrori della notte, fu scritta da Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po 1914 - San Benedetto Po 1999), e fa parte della raccolta Nella grande pianura, pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore di Milano nel 1998. Più precisamente, si trova alla pagina 163 di detto libro, e chiude la terza ed ultima sezione: Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, che contiene i versi inediti del poeta lombardo. Nelle altre due, infatti, sono riportate le poesie delle due precedenti raccolte di Bellintani: Forse un viso tra mille e E tu che mi ascolti.¹ Nella frase del vecchio cocomeraio Amerio Botto, e anche nella poesia intera, si possono rintracciare dei simboli. La “notte”, coi suoi orrori, equivale al male, che si caratterizza anche con il buio completo o, volendo usare un colore, col nero; gli occhi chiusi equivalgono ad una rimozione mentale di tutto ciò che rappresenta il male e il conseguente orrore che si prova dalla sua constatazione. Il “giorno”, rappresenta invece il bene e la bellezza; ciò che implicitamente si collega a queste caratteristiche positive, sono la presenza del sole e la conseguente luminosità diffusa (luce=bellezza; buio=orrore). Grazie al sole e alla luce (oltre che all’acqua), possono crescere I magnifici cocomeri nel campo di Amerio Botto. Questi frutti, tagliati a metà, divengono ancora più belli, per i colori che si sprigionano dal loro interno, e che tanto somigliano a quelli della bandiera italiana, a detta di Bellintani: “la più bella bandiera / del nostro mondo”.

 

 

NOTE

1) Forse un viso tra mille uscì nel 1953, presso l’editore Vallecchi di Firenze, e in Nella grande pianura è riportata solo parzialmente; E tu che mi ascolti fu pubblicato nel 1963, anch’essa dalla Mondadori, e qui viene ripresentata totalmente.

domenica 12 giugno 2022

La poesia di Giorgio Vigolo


 


Come ho affermato in altre occasioni, ritengo che l’opera poetica di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) sia stata decisamente sottovalutata dalla critica letteraria italiana. Ricordo che, già parecchi anni or sono, quando lessi alcune poesie dello scrittore romano presenti in qualche sparuta antologia della poesia italiana del Novecento, rimasi letteralmente incantato, perché mi trasmisero delle emozioni fortissime; ma quando andai a cercare, nelle grandi librerie di Roma, almeno uno dei suoi volumi poetici, rimasi deluso, non trovandone affatto. Per fortuna, attraverso gli anni e con gradualità, ebbi modo di acquistare quasi tutti i libri di versi di questo straordinario poeta, che sono ora, per me, dei tesori d’inestimabile valore.

Quello che subito notai, nella poesia di Vigolo, fu una sorta di “calma disperazione”, affiorante in molti componimenti; in genere, questi versi divengono una confessione, forse addirittura uno sfogo, che mostrano un uomo sopraffatto dalla solitudine, intenzionato ad esternare le sue paure e le sue amarezze al lettore. Vi sono, poi, altri tipi di versi, in cui emerge una fantasia ed una visionarietà eccezionali per bellezza ed intensità; tutto ciò nasce dalla voglia di evadere da una esistenza isolata e disperata, e l’occasione per farlo gli è offerta dalla città di Roma, che il poeta ama alla follia, conoscendola perfettamente, compresi tutti i luoghi più reconditi che vengono descritti minuziosamente, e che riflettono atmosfere a volte mistiche ed a volte terrificanti. La mia vicinanza alla poesia di Vigolo, in parte deriva dal fatto che anch’io, in gioventù, spesso mi recavo nei quartieri centrali della capitale italiana, e m’incamminavo lungo i vicoli più antichi e affascinanti di questa meravigliosa città; qualche volta, come faceva il poeta, decidevo di entrare in una delle infinite, piccole chiese che si trovano da quelle parti, rimanendo estasiato davanti ad un quadro o ad una statua. La poesia di Vigolo, con il passare degli anni, riflette sempre di più uno stato d’isolamento, di esclusione dal resto dell’umanità; nei versi della vecchiaia, si moltiplicano le ansie e le angosce di chi sente che il suo corpo sta mutando, perdendo delle facoltà importanti; di conseguenza, il poeta, che si accorge di essere menomato e di non poter più assaporare determinate possibilità visive e, più in generale, sensitive, si fa prendere sempre più dalla disperazione; nell’ultima raccolta, i brevissimi testi poetici dimostrano quanto Vigolo fosse ancora lucidissimo anche durante l’estrema vecchiaia, e come, ben consapevole del suo stato e della sua precarietà, poco prima della sua dipartita abbia fatto i conti con la morte senza sotterfugi. Insomma, da Conclave dei sogni – prima raccolta di versi (la precedente contiene soprattutto prose) uscita nel 1935 – a La fame degli occhi, pubblicata un anno prima della sua scomparsa, Vigolo si dimostra un poeta di grandissimo valore, che, spero, prima o poi verrà giustamente valutato e, conseguentemente collocato quale uno dei migliori della poesia italiana novecentesca. Ecco, in fine, l’elenco di tutte le opere poetiche di Giorgio Vigolo, e tre poesie tra quelle che maggiormente mi stanno a cuore.





Opere poetiche

 

”Canto fermo”, Formiggini, Roma 1931.

”Conclave dei sogni”, Novissima, Roma 1935.

“Linea della vita”, Mondadori, Milano 1949.

“Canto del destino”, Neri Pozza, Venezia 1959.

“La luce ricorda”, Mondadori, Milano 1967.

“I fantasmi di pietra”, Mondadori, Milano 1977.

“La fame degli occhi”, Florida, Roma 1982.

“Poesie religiose e altre inedite”, Aracne, Roma 2001.

 



Testi

 

LA LUCE È PER LE TENEBRE

 

Nessuno conosce se stesso,

l'occhio non vede l'occhio,

la salute è apprezzata solo dai mali;

la giovanile forza

dal tardo rimpianto del vecchio.

 

  L'invalido che dal gradino

della chiesa vede passare

la giovane in fiore,

sente fremendo

la bellezza delle sue gambe,

il passo che pare il tragitto d'un sole.

 

  L'aurora più bella

è sorta dall'occhio d'un cieco:

la luce è per le tenebre

e le tenebre l'hanno compresa.

 

(da "Linea della vita", Mondadori, Milano 1949, p. 184)

 

 

 

 

IL MIO ERRARE

 

  Il  mio errare nei sogni e nei ricordi

pietrificati in luoghi ove cammino,

in case, in chiese, in vicoli, in assorti

atri di cavernoso travertino,

 

  è una lettura che i miei passi, quasi

dita di ciechi fanno delle strade

di sera, dove la tristezza evade

guidata come nella prima età

 

  da qualcuno che tiene la mia mano

nella sua amorosa e mi conduce.

 

(da "La luce ricorda", Mondadori, Milano 1967, pp. 400-401)

 

 

 

 

RIPETTA

 

  I platani autunnali

della Passeggiata di Ripetta

fanno sull'altra riva

del fiume un bosco d'oro.

Così li vidi; e adesso li vedrei

dalla finestra mia sul Lungotevere

se vi abitassi ancora

come in sogno la notte vi ritorno.

 

  Ora di pieno giorno

nella luce dell'una

li vedo nel mio sogno ad occhi aperti.

Sento che ormai nella mia vita alcuna

parete non c'è più tra veglia e sonno;

un unisono fonde oggi con ieri

in un pedale d'organo

di tristezza infinita, e quasi gioia

diviene al limitare

di non so quale mutazione in altro.

 

(da "I fantasmi di pietra", Mondadori, Milano 1977, p. 38)

 

domenica 5 giugno 2022

Antologie: "LETTERATURE STILE SOCIETÀ testi e profili di cultura europea – XIX secolo"

 

Ecco un’altra antologia che per me ha un alto valore affettivo. Trattasi di un volume dei tempi in cui ero uno studente liceale; più precisamente, è il libro di testo della materia “Lettere”, che mi accompagnò nella stagione scolastica compresa tra l’autunno del 1982 e la primavera del 1983. Fu concepito e curato da Bruno Basile e Paolo Pullega; la prima edizione (la mia è una ristampa) fu pubblicata da Zanichelli Editore di Bologna nel 1977. Il titolo: LETTERATURE STILE SOCIETÀ, e, in parte, anche il sottotitolo: testi e profili di cultura europea, segnalano la particolarità dell’antologia, che non si concentra soltanto sulla letteratura italiana e mondiale – in questo volume specifico, del XIX secolo – ma anche su determinati aspetti politici, economici e sociali, che a volte sono direttamente collegati con quelli letterari e che contraddistinguono i cento anni presi in considerazione. Nella foto che ho inserito in questo post, è facile notare che tale volume presenta dei segni del tempo piuttosto evidenti, e risulta anche logoro, a causa di un uso frequente. Infatti, fu grazie alle pagine di quest’antologia che io, da ragazzo, tornai dopo alcuni anni a leggere le poesie più celebri di Giacomo Leopardi; fu, forse in quel preciso periodo, che la poesia cominciò ad avere un’importanza non irrilevante nella mia vita. Sempre grazie a queste pagine, conobbi dei poeti  che sui banchi di scuola non ebbi modo di conoscere affatto, perché nei licei scientifici di allora (e, forse, anche di oggi) la letteratura aveva ben poca importanza; parlo soprattutto dei poeti “maledetti” francesi (Baudelaire, Verlaine e Rimbaud), degli scapigliati (Praga e Tarchetti), e di altri grandi poeti italiani dell’Ottocento che vennero considerati e trattati dai miei professori con trascuratezza. Furono, le mie letture, del tutto personali, nate dalla curiosità di approfondire la mia scarsa cultura poetica. Oggi, come già detto all’inizio, tengo, con grande affetto e un po’ di nostalgia, quest’antologia in un angolo appartato della mia libreria, e, ormai, non la consulto più. Ecco infine i nomi di letterati, filosofi, politici, economisti e sociologi presenti nelle pagine di quest’opera, concepita e strutturata specificatamente per gli studenti italiani delle scuole medie superiori.

 

 

LETTERATURE STILE SOCIETÀ testi e profili di cultura europea – XIX secolo

 



 


Johann Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, Ugo Foscolo, Samuel Taylor Coleridge, Percy Bisshe Shelley, George Gordon Byron, August Wilhelm Schlegel, François-René de Chateaubriand, Madame de Staël, Giovanni Berchet, Ludovico Da Breme, Vincenzo Monti, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Stendhal, Victor Hugo, Carlo Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Giusti, Giuseppe Cesare Abba, Ippolito Nievo, David Ricardo, Thomas Robert Malthus, Pierre-Joseph Proudhon, Carlo Pisacane, Karl Marx, Honoré de Balzac, Charles Dickens, Gustave Flaubert, Emile Zola, Eugène Sue, Alexandre Dumas, Jules Verne, Emilio Salgàri, Charles Baudelaire, Artur Rimbaud, Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstòj, Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti, Luigi Capuana, Antonio Fogazzaro, Paolo Valera, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Giovanni Verga.