Come ho affermato
in altre occasioni, ritengo che l’opera poetica di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) sia stata
decisamente sottovalutata dalla critica letteraria italiana. Ricordo che, già
parecchi anni or sono, quando lessi alcune poesie dello scrittore romano
presenti in qualche sparuta antologia della poesia italiana del Novecento,
rimasi letteralmente incantato, perché mi trasmisero delle emozioni fortissime;
ma quando andai a cercare, nelle grandi librerie di Roma, almeno uno dei suoi
volumi poetici, rimasi deluso, non trovandone affatto. Per fortuna, attraverso
gli anni e con gradualità, ebbi modo di acquistare quasi tutti i libri di versi
di questo straordinario poeta, che sono ora, per me, dei tesori d’inestimabile
valore.
Quello che subito
notai, nella poesia di Vigolo, fu una sorta di “calma disperazione”, affiorante
in molti componimenti; in genere, questi versi divengono una confessione, forse
addirittura uno sfogo, che mostrano un uomo sopraffatto dalla solitudine,
intenzionato ad esternare le sue paure e le sue amarezze al lettore. Vi sono,
poi, altri tipi di versi, in cui emerge una fantasia ed una visionarietà
eccezionali per bellezza ed intensità; tutto ciò nasce dalla voglia di evadere
da una esistenza isolata e disperata, e l’occasione per farlo gli è offerta
dalla città di Roma, che il poeta ama alla follia, conoscendola perfettamente, compresi
tutti i luoghi più reconditi che vengono descritti minuziosamente, e che
riflettono atmosfere a volte mistiche ed a volte terrificanti. La mia vicinanza
alla poesia di Vigolo, in parte deriva dal fatto che anch’io, in gioventù,
spesso mi recavo nei quartieri centrali della capitale italiana, e m’incamminavo
lungo i vicoli più antichi e affascinanti di questa meravigliosa città; qualche
volta, come faceva il poeta, decidevo di entrare in una delle infinite, piccole
chiese che si trovano da quelle parti, rimanendo estasiato davanti ad un quadro
o ad una statua. La poesia di Vigolo, con il passare degli anni, riflette
sempre di più uno stato d’isolamento, di esclusione dal resto dell’umanità; nei
versi della vecchiaia, si moltiplicano le ansie e le angosce di chi sente che
il suo corpo sta mutando, perdendo delle facoltà importanti; di conseguenza, il
poeta, che si accorge di essere menomato e di non poter più assaporare
determinate possibilità visive e, più in generale, sensitive, si fa prendere
sempre più dalla disperazione; nell’ultima raccolta, i
brevissimi testi poetici dimostrano quanto Vigolo fosse ancora lucidissimo anche durante l’estrema vecchiaia, e come, ben consapevole del suo stato e della sua
precarietà, poco prima della sua dipartita abbia fatto i conti con la morte
senza sotterfugi. Insomma, da Conclave
dei sogni – prima raccolta di versi (la precedente contiene soprattutto prose) uscita nel 1935 – a La fame degli occhi, pubblicata un anno prima della sua scomparsa, Vigolo si dimostra un poeta di grandissimo valore, che,
spero, prima o poi verrà giustamente valutato e, conseguentemente collocato
quale uno dei migliori della poesia italiana novecentesca. Ecco, in fine,
l’elenco di tutte le opere poetiche di Giorgio Vigolo, e tre poesie tra quelle
che maggiormente mi stanno a cuore.
Opere poetiche
”Canto fermo”,
Formiggini, Roma 1931.
”Conclave dei
sogni”, Novissima, Roma 1935.
“Linea della
vita”, Mondadori, Milano 1949.
“Canto del
destino”, Neri Pozza, Venezia 1959.
“La luce
ricorda”, Mondadori, Milano 1967.
“I fantasmi di
pietra”, Mondadori, Milano 1977.
“La fame degli
occhi”, Florida, Roma 1982.
“Poesie religiose
e altre inedite”, Aracne, Roma 2001.
Testi
LA LUCE È PER LE
TENEBRE
Nessuno conosce
se stesso,
l'occhio non vede
l'occhio,
la salute è
apprezzata solo dai mali;
la giovanile
forza
dal tardo
rimpianto del vecchio.
L'invalido che dal gradino
della chiesa vede
passare
la giovane in
fiore,
sente fremendo
la bellezza delle
sue gambe,
il passo che pare
il tragitto d'un sole.
L'aurora più bella
è sorta
dall'occhio d'un cieco:
la luce è per le
tenebre
e le tenebre
l'hanno compresa.
(da "Linea della vita", Mondadori, Milano 1949, p. 184)
IL MIO ERRARE
Il mio
errare nei sogni e nei ricordi
pietrificati in
luoghi ove cammino,
in case, in
chiese, in vicoli, in assorti
atri di cavernoso
travertino,
è una lettura che i miei passi, quasi
dita di ciechi
fanno delle strade
di sera, dove la
tristezza evade
guidata come
nella prima età
da qualcuno che tiene la mia mano
nella sua amorosa
e mi conduce.
(da "La luce ricorda", Mondadori, Milano 1967, pp. 400-401)
RIPETTA
I platani autunnali
della Passeggiata
di Ripetta
fanno sull'altra
riva
del fiume un
bosco d'oro.
Così li vidi; e
adesso li vedrei
dalla finestra
mia sul Lungotevere
se vi abitassi
ancora
come in sogno la
notte vi ritorno.
Ora di pieno giorno
nella luce
dell'una
li vedo nel mio
sogno ad occhi aperti.
Sento che ormai
nella mia vita alcuna
parete non c'è
più tra veglia e sonno;
un unisono fonde
oggi con ieri
in un pedale
d'organo
di tristezza
infinita, e quasi gioia
diviene al
limitare
di non so quale
mutazione in altro.
(da "I
fantasmi di pietra", Mondadori, Milano 1977, p. 38)
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