mercoledì 9 dicembre 2020

Gli amici

 

Questa poesia è stata scritta da Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983) e fa parte del volume I fantasmi di pietra, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1977. Più precisamente è la sessantottesima e terzultima poesia di detto libro, e si trova a pagina 87. È la triste constatazione, da parte del poeta, di essere stato tradito da coloro che si definivano o che lui stesso pensava fossero amici. L'occasione che dimostra il tradimento, reale o simbolica che sia, è una promessa non mantenuta: Vigolo ha visto questi falsi amici allontanarsi da lui non prima di averlo rassicurato sul fatto che sarebbero tornati presto, e lo avrebbero portato con loro. Il poeta ha atteso ore ed ore con la speranza di vederne tornare almeno uno, ma nulla è avvenuto. La parte finale della poesia è ancora più amara, ed esprime in modo chiaro una fortissima sensazione di solitudine che prova il protagonista di questa spiacevole vicenda, il quale ha la netta impressione di essere già morto, perché ormai nessuno si ricorda più della sua presenza, della sua esistenza stessa: si sente come se tutti gli esseri umani si siano definitivamente dimenticati di lui, lasciandolo così nella più completa desolazione interiore.

 



 

   Gli amici mi avevano detto:

Aspettaci qui, torneremo a prenderti.

E io solo ad aspettare

un'ora, due ore.

Si fa notte: gli amici

si sono scordati: non vengono più.

 

  Stai lì solo,

terribilmente solo.

Ecco cosa vuol dire essere morti;

si scordano di passare a riprenderti.


 

  

domenica 6 dicembre 2020

La neve nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La neve nelle poesie dei simbolisti fa riferimento spesso ad una freddezza dell'anima, il manto nevoso rappresenta un aristocratico e tetro isolamento dal resto dell'umanità; il poeta, chiuso nel suo mondo sognante, intende frapporre tra sè ed il resto del mondo un folto strato di materia fredda sì da evitare qualsivoglia contatto umano. Ma a volte la neve ha tutt'altro significato, e ben più terribile: essa, insieme al freddo che invade ogni luogo circostante, è un chiaro presentimento di morte; infatti, nelle descrizioni di diversi poeti, il paesaggio è desolato, e si notano soltanto delle figure alquanto fosche (carri funebri, corvi, fantasmi...) che contribuiscono in modo netto a rendere l'anima del poeta spaurita, sconfortata e triste. In altri casi la neve, in quanto bianca, si ricollega ai simboli di purezza e sincerità, che riportano nella memoria dei poeti il felice periodo infantile.

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "La sonata nella neve" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Diego Angeli: "Giorno d'inverno a Lunghezza" in "La città di Vita" (1896).

Diego Angeli: "La madonna della neve" in «Il Marzocco», ottobre 1897.

Giovanni Camerana: "Folta è la neve" in "Poesie" (1968).

Giovanni Alfredo Cesareo: "Neve" in "Poesie" (1912).

Sergio Corazzini: "Sonetto della neve" in "Le aureole" (1905).

Guglielmo Felice Damiani: "Idillio fugace" in "Lira spezzata" (1912).

Giuliano Donati Pétteni: "Neve" in "Intimità" (1926).

Augusto Ferrero: "Fantasma invernale" in "Nostalgie d'amore" (1893).

Aldo Fumagalli: "La canzone mistica" in "Arcate" (1913).

Diego Garoglio: "Città sotto la neve" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Giulio Gianelli: "Prima neve" in "Mentre l'esilio dura" (1904).

Giacomo Gigli: "In Siberia" in "Maggiolata" (1904).

Emilio Girardini: "Nevicata" in "Chordae cordis" (1920).

Corrado Govoni "La neve" in "Gli aborti" (1907).

Luigi Gualdo: "Paesaggio" in "Le Nostalgie" (1883).

Olindo Malagodi: "Vette di neve" in "Poesie vecchie e nuove" (1928).

Nicola Marchese: "Nivale" in "Le Liriche" (1911).

Nino Oxilia: "Ha nevicato..." in "Canti brevi" (1909).

Giovanni Pascoli: "Orfano" e "Nevicata" in "Myricae" (1900).

Antonio Rubino: "Neve sotto la luna" in "Versi e disegni" (1911).

Giovanni Tecchio: "Neve" in "Canti" (1931).

 

 


Testi

 

LA CANZONE MISTICA

di Aldo Fumagalli

 

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Ne la piazza, nessuno: i tronchi spogli

Che vegliano ne l'aria immota e scura.

La basilica antica, sotto il velo

È bianca e impallidisce il suo profilo...

Nevica: bianca neve su la neve,

In un silenzio mistico e solenne.

Un mendìco vicino a la colonna

Sembra una macchia nera, sul terreno...

 

Chi s'avanza lontano? Dei cavalli

Neri, di sogno; non han ferri e muti

Camminano e non toccano la terra...

E dietro un carro nero ed una bara.

Passa quel morto su la bianca neve

Passa la gente nera, nera, nera.

Tace la piazza avvolta nel suo velo;

Non un ramo si move intorno ai tronchi,

Ed il vento non agita la neve...

 

La bara avanza lenta, grave, nera,

E non sembra passare, tanto è lungo

Il cammino che corre presso i tronchi.

Nevica: bianca neve su la neve

in un silenzio mistico e solenne.

 

(da "Arcate")

 

 

 

 

NEVICATA

di Emilio Girardini

 

Il paesaggio interminato stanca:

una pianura immersa ne la neve

con il mulino a vento ed una pieve

ne la monotonia de l'aria bianca.

 

Nevica ancora e mandano singhiozzi

soffocati nel cuore i miei ricordi;

somigliano, o campana, ai suoni sordi

che tu, di neve rivestita, strozzi.

 

In una solitudine lontana

e, come questa, senza tracce, danno

i ricordi nel cuor, cinto di panno,

spenti rintocchi, come i tuoi, campana.

 

Pure il cielo solcar qualche pensiero

mio tardo vedo, come la pianura,

tutta bianca d'un bianco che spaura,

vede passare qualche corvo nero.

 

(da "Chordae cordis")



Claude Monet, "Snow at Argenteuil"
(da questa pagina web)


mercoledì 2 dicembre 2020

Imbruna...

 

Imbruna; e di già l'ombra nella stanza

Incurva l'ala su 'na bianca fronte:

Tu siedi, e vegli in cuore una speranza.

 

Tendi l'orecchio in vano: alcun rumore

Non s'ode; il chioccolìo del fonte

Ti schernisce fra risa alte e canore.

 

Scoppietta la lucerna in sul mancare...

Com'è dolente e triste l'aspettare!

 



 

Questo madrigale è di Severino Ferrari (Molinella 1856 - Pistoia 1905) e l'ho trascritto dal volume Tutte le poesie (Cappelli, Rocca San Casciano 1966) che comprende l'intera opera in versi del poeta emiliano. Il titolo è fittizio, come si può notare nel libro citato, dove lo si trova a pagina 214, alla sottosezione intitolata Amore di Versi raccolti ordinati [1892], ovvero la sezione che riporta le poesie del volume Versi raccolti ordinati. Il Mago, pubblicato dall'editore Sarasino di Modena nel 1892. Apparve per la prima volta nel libriccino Il secondo libro di Bordatini, che uscì a Firenze nel 1886; qui si trova, sempre senza titolo, alla pagina 24. Protagonista della breve poesia è un personaggio femminile - ragazza o donna - che si trova nella stanza di una casa nel momento in cui la giornata sta per concludersi e cominciano a calare le ombre della sera; lei è sola e sta aspettando l'arrivo di qualcuno. Attenta, aguzza gli orecchi per ascoltare un minimo rumore che possa indurla a sperare nell'arrivo di una persona che, evidentemente, sta aspettando da molto tempo; ma l'unico rumore che percepisce è quello dell'acqua della fontana che, cadendo, sembra schernirla e ridere di lei, quasi fosse una povera illusa. Altro rumore presente, tutt'altro che piacevole, è quello di una lucerna a petrolio che si sta lentamente spegnendo e che, per tale motivo, emette degli scoppiettii; questi ultimi, insieme all'acqua che chioccola senza tregua, contribuiscono a rendere la lunga attesa della donna ancor più angosciante e triste.

domenica 29 novembre 2020

"Medusa" di Arturo Graf

 

Non considerando, per la marginalità che la caratterizza, una sua raccolta giovanile, si può benissimo affermare che Medusa sia la prima e più importante opera poetica di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913). Uscì per la prima volta nel 1880, presso l'editore Loescher di Torino; ebbe una seconda edizione l'anno dopo, e una definitiva pubblicazione nel 1890 - sempre grazie al medesimo editore - che si arricchisce di molti testi poetici e di alcuni disegni dell'artista Carlo Chessa.

A proposito di questa raccolta, che personalmente ritengo sia la migliore del Graf, ecco un frammento pertinente scritto dall'illustre critico Luigi Baldacci, all'interno dell'antologia Poeti minori dell'Ottocento:

 

[...] Si è detto che le fonti del Graf devono essere individuate nei romantici tedeschi e in Leopardi: già per questo il suo esempio doveva restare isolato nell'ambito del proprio tempo e di conseguenza mal compreso. Ma l'accusa crociana di riflessione¹ è sproporzionata alla natura del Graf, e il suo stesso leopardismo, anziché ragionato nel segno del mito o dell'incatenante sillogismo, ci appare piuttosto filtrato attraverso le esperienze del Parnasse: cioè tragicamente intuito, anziché razionalmente dimostrato, e soprattutto affidato all'evidenza di una pittura immaginifica e talora scenografica (Baudelaire, Leconte de Lisle). Così al mito si sostituisce il simbolo, secondo una variazione decadentistica di quelle che potevano anche essere remote autorizzazioni leopardiane².

 

Ciò che emerge nei versi di Medusa è, quindi, un leopardismo contaminato dall'irrazionalità e dall'istintività propri di determinate correnti letterarie come il simbolismo e il decadentismo. E proprio a proposito di queste ultime, in un altro frammento significativo di Anna Dolfi, ovvero della curatrice della più recente riedizione di Medusa pubblicata cento anni dopo la definitiva (Mucchi, Modena 1990), dopo aver dimostrato che l'acuta disperazione esistenziale del poeta è attenuata soltanto da un'intima introspezione, si mette in risalto una delle caratteristiche fondamentali dei versi di questa raccolta: l'assidua presenza dell'acqua:

 

[...] Si arricchiva così, in questa possibilità, sia pur unica di salvezza, anche il topos dell'acqua, certo acqua nera dell'ultimo viaggio sul mare, ma anche acqua bianca di lago, acqua non solo della dispersione ma dell'effettuato o sognato annegamento, quasi acqua del primo specchio cui avevano teso Ofelia e Narciso nel tentativo vano di riappropriarsi di sé. L'acqua non sarà allora solcata soltanto da imbarcazioni mortuarie (il viaggio grafiano, d'altronde, è spesso, più che una simbolizzazione della morte, un'allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale), da navi guidate da vecchi marinai che ripetono senza sosta il mito dell'eterno non ritorno; sarà anche l'acqua/specchio/vetro capace di riportare alle origini attraverso le immagini catottriche che enigmaticamente risvegliano il passato trasmettendone i lontani lamenti. Sia pur facendo di quel passato di nuovo un regno di morti, ridestato attimalmente alla vita nell'«acqua cheta» di antiche specchiere («Come un'acqua cheta si riflette la stanza: / Sembra ogni cosa diafana e leggera, / vision di sogno, baglior di rimembranza») e riconsegnato al nulla dopo la ritessitura momentanea degli arazzi, la ricomposizione dei colori trecenteschi delle cacce disperate, coinvolgenti anche dame e cavalieri³.

 

Medusa è composta da un totale di 163 poesie; a parte le prime due, tutte le altre sono racchiuse in tre sezioni: LIBRO PRIMO (1876-1879); LIBRO SECONDO (1880-1881); LIBRO TERZO (1882-1889). Concludo riportando tre fra le migliori poesie di questa formidabile raccolta, estratte dalla riedizione di trent'anni fa (vedi foto sotto).

 

 


 

ACQUA CHIARA...

 

Picciol lago, che in mezzo

a questa valle e a questi sassi enormi,

d’ignota vena ti raccogli e dormi

dell’alte querce e de’ grand’olmi al rezzo;

 

sul margin tuo che in giro

tutto verdeggia solitario io seggo;

la stanca fronte con la man mi reggo,

lo specchio di tue pure acque rimiro.

 

Primaticce vïole

e verde timo fan l’aria fragrante:

in te la bianca nuvoletta errante,

e dall’alto del ciel si guarda il sole.

 

Intorno a te nereggia

silenzïoso il bosco; dalla frasca

la secca foglia vagolando casca,

e lieve sulla cupa onda galleggia.

 

Tra ’l verde, in dolce rima,

un usignol la primavera canta:

passano l’ore e d’ombre il ciel s’ammanta,

splende la luna ai negri sassi in cima.

 

Acqua chiara e tranquilla,

sul tuo margine io seggo; il ciel sereno

veggo in te rispecchiarsi, e nel tuo seno

dagli occhi miei piove un’amara stilla.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 12-13)

 

 

 

 

IL VASCELLO FANTASMA

 

Io lo vidi, io lo vidi! un mar di piombo

senza voce, senz’onda: in occidente

il sol morente insanguinava il cielo,

le bige nubi lacerando a strombo.

 

Io lo vidi, io lo vidi! i cupi abissi

venia premendo, procedeva stanco,

l’enorme fianco arrotondava al sole,

pareva un mostro dell’Apocalissi.

 

Laggiù, guardate! In ogni parte sua

negro lo scafo; avviluppata e nera

una bandiera penzola da poppa,

bieca si drizza una Medusa a prua.

 

Splendon vestiti di lucenti lame

gli alberi smisurati; per le nere

cave troniere luccicano in doppia

fila i cannoni di color di rame.

 

A prora, a poppa, in cima agli alti fusti,

ai gran canapi, su, stanno ammucchiati,

stanno aggrappati i cento marinai,

estenuati, pallidi, vetusti.

 

Il capitan coi cento marinai,

scrutando il cielo, investigando il morto

pelago, un porto invan spïando, il porto

sempre invocato e non raggiunto mai.

 

Così l’alto vascel naviga ed erra,

e se talor la nebbia all’orizzonte

simula un monte, stanco ed affannato

si leva il grido: Terra, terra, terra!

 

Ma breve error gli spiriti soggioga:

si dilegua il fantasma: orrida e grave

la negra nave in suo cammin procede,

e la Speranza dietro a lei s’affoga.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 68-69)

 

 

Disegno di Carlo Chessa presente nella 3° edizione di Medusa, relativo alla poesia Il vascello fantasma

 

 

L’ABETE SOLITARIO

 

Dalla trachite eccelsa, vestito di gramaglia,

il solitario abete smisurato si scaglia

       siccome un dardo nel profondo ciel;

tutto solo dell’Alpe sulla pendente balza,

dove più furïosa la tramontana incalza,

       dove più morde nel silenzio il gel.

 

Sott’esso uno sgomento di traboccate rupi,

d’irte lacche; di baratri caliginosi e cupi,

       e un confuso di prone arbori stuol;

sopr’esso in luminoso giro l’etere immenso

e le nuvole bianche via per l’azzurro intenso

       e sfolgorante nell’azzurro il sol.

 

Lontan, nella bassura, il solitario abete

vede colli ubertosi, vede pianure liete

       di messi e d’acque, di paschi e di fior;

vede come sognando, e tra le selci ignude,

in sua triste gramaglia più rigido si chiude,

       muto, superbo, nell’alpino algor.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 194)

 

 

 

NOTE

1) Il celebre filosofo Benedetto Croce non lodò mai la poesia di Graf, così come un poeta che tutto sommato non si discostava molto dal suo intento poetico: Pompeo Bettini; fu proprio quest'ultimo che, in una rivista, etichettò in maniera negativa il Graf poeta, affermando, come riportò poi anche il Croce, che in esso dominava la "riflessione", ovvero un elemento identificabile in un bel difetto soltanto se si parla di prosa.

2) Dal volume: Poeti minori dell'Ottocento, Tomo I, Ricciardi, Napoli 1958, p. 1142.

3) Dal volume: Arturo Graf, Medusa, Mucchi Editore, Modena 1990, p. XVIII.

 

mercoledì 25 novembre 2020

Alba di novembre

 

Ai confini della città.

Quattro fanali dimenticati,

tutti soli e trasognati,

per la lunga strada vuota,

- due di qua due di là, -

sotto un cielo color di mota.

 

Su l'asfalto del pavimento

lustro come una cerata,

quattro sprazzi di livido argento.

 

Dentro l'aria addormentata

un lontano rotolamento

di carrozzone che se ne va.

 



 

Alba di novembre è il titolo di una poesia di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976); fu pubblicata come prima delle Canzonette milanesi, nella rivista La Diana del 25 novembre 1915; fu quindi inserita - col titolo più generico di Alba e con leggerissime varianti - nella prima sezione della raccolta Crisalide (Taddei, Ferrara 1919); successivamente ricomparve in tutte le raccolte ricapitolative dell'opera poetica di Valeri, fino alla definitiva Poesie (Mondadori, Milano 1962).

In questi versi del poeta veneto si ha una descrizione di visioni, sensazioni e impressioni, relative ad un'alba novembrina vissuta dal poeta stesso, in un luogo non ben precisato della periferia milanese. Ciò che focalizza l'attenzione di Valeri, in quel preciso momento della giornata, è la visione di quattro fanali situati in una zona isolata della città, ai margini di una strada deserta. Tale visione fa emergere l'estremo senso di solitudine che si respira in quel luogo abbandonato, ed anche un senso di malinconia, accentuato da quel "cielo color di mota", ovvero tra il grigio ed il marroncino, che si sovrappone e completa il paesaggio cittadino osservato dal poeta. Quindi, gli occhi di Valeri si indirizzano verso la parte più bassa di tale paesaggio, ossia il pavimento lucido come una tela cerata (probabilmente a causa della pioggia recente), e sui riflessi argentei della luce dei fanali, che somigliano a schizzi ("sprazzi") di argento freddo ("livido"), e che quindi contribuiscono non poco, in un contesto già assai desolato, ad aumentare la dose di rigidità che caratterizza quel preciso spazio. Chiude la poesia una percezione uditiva: il rumore lontano delle ruote di un carrozzone che si allontana, e che sembra quasi disturbare "l'aria addormentata" del luogo.

domenica 22 novembre 2020

Antologie: I poeti italiani della «Voce»

 

Prendendo in considerazione il primo ventennio italiano del XX secolo, è possibile affermare che la rivista politica e letteraria più importante e, direi, fondamentale nell'ambito del rinnovamento della cultura e della vita nazionale, sia stata La Voce. Nata a Firenze alla fine del 1908 con caratteristiche esclusivamente politiche, ben presto allargò i suoi orizzonti, dando spazio nelle sue prestigiose pagine ad articoli di eminenti economisti, filosofi, storici e critici; nello stesso tempo, il lettore affezionato ebbe l'opportunità di usufruire della presenza di prose e versi pubblicati dai migliori scrittori italiani dell'epoca (Papini, Saba, Govoni, Ungaretti, Cardarelli, Rebora, Sbarbaro ecc.). Il merito della creazione di un giornale così ricco qualitativamente e così variegato in quanto a discipline e tematiche trattate, va attribuito ai due direttori che si sono avvicendati alla conduzione de La Voce: Giuseppe Prezzolini e Giuseppe De Robertis, il primo dei quali, cercò sempre di far prevalere la parte politica nella struttura del giornale; il secondo, al contrario, diede spazio esclusivamente alla letteratura. Detto questo, aggiungo che fu il critico Enrico Falqui a curare una prima antologia che raccogliesse tutte le poesie pubblicate nella Voce; questa venne alla luce nel 1966, grazie anche all'editore Vallecchi. Trentadue anni dopo, il poeta e critico letterario Paolo Febbraro ne curò un'altra: I poeti italiani della «Voce» (Marcos y Marcos, Milano 1998), che in sostanza ripropone tutti i testi poetici susseguitisi all'interno della rivista fiorentina, fino al suo ultimo numero che fu pubblicato nel dicembre del 1916. Il motivo per cui questa rivista risulta determinante per ciò che concerne lo sviluppo della poesia italiana del Novecento, va rintracciato, oltre che nell'indubbia genialità dei poeti, per la loro capacità di contaminare l'estetica di Benedetto Croce con suggestioni esterne, in particolare con quelle scuole o correnti letterarie come il decadentismo e il simbolismo, che avevano già da anni impresso una decisa svolta alla struttura e ai temi della poesia francese, rinnovandola a tal punto da mescolarla con la prosa, dando il via così ad un concetto di liricità "pura" che va al di là e al di sopra di ogni schema. Grazie agli scrittori della Voce, anche in Italia tale rivoluzionario concetto trova spazio e dà i suoi migliori esiti, inaugurando quel "frammentismo" che sarà determinante, negli anni successivi, per la nascita di una nuova poesia italiana, e che infine sfocerà nell'ermetismo.

Come al solito, chiudo riportando i nomi dei poeti presenti in questa antologia.

 

I POETI ITALIANI DELLA VOCE

 


Giannotto Bastianelli, Giovanni Boine, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Carlo Carrà, Salvatore Di Giacomo, Corrado Govoni, Piero Jahier, Gian Pietro Lucini, Nicola Moscardelli, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Enrico Pea, Giuseppe Prezzolini, Clemente Rebora, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti.

martedì 17 novembre 2020

I gattici

 

E vi rivedo, o gattici d' argento,

nudi in questa giornata sementina:

e pigra ancor la nebbia mattutina

spuma dorata intorno ogni sarmento.

 

Già vi schiudea le gemme questo vento

che queste foglie gialle ora mulina:

e io che al tempo allor gridai «cammina»

ora gocciare il pianto in cor mi sento.

 

Ora, le nevi inerti sopra i monti,

e le stridule pioggie, e le lunghe ire

del rovaio che a notte urta le porte,

 

e i brevi dì che paiono tramonti

infiniti, e il vanire e lo sfiorire,

e i crisantemi, i fiori della morte.

 


 


Questo sonetto di Giovanni Pascoli l'ho trascritto dalla rivista Vita nuova del 17 novembre 1889. Con pochissime varianti (vedi foto in alto¹), entrò a far parte della raccolta più celebre del poeta emiliano: Myricae, a partire dalla seconda edizione che fu pubblicata nel 1892. Si tratta di una poesia malinconica, in cui Pascoli manifesta il suo pessimismo esistenziale. L'occasione è data dalla visione dei "gattici d'argento", ovvero dei pioppi bianchi, così chiamati perché presentano dei riflessi argentei nella parte inferiore delle foglie. La giornata, che il poeta definisce "sementina", è quasi sicuramente quella di un novembre inoltrato; ora gli alberi sono spogli, e il paesaggio è quello tipico autunnale, nebbioso, con il terreno pieno di foglie cadute. Queste immagini fanno sì che il Pascoli si lasci prendere da una intensa tristezza (e non a caso questa poesia fa parte della sezione intitolata Tristezze), e pensando agli alberi fioriti e rigogliosi che ricordava bene ai tempi della primavera trascorsa, medita sulle speranze e le illusioni giovanili (la primavera dell'umanità) e sulle rassegnazioni e le disillusioni dell'età matura (l'autunno dell'umanità); nelle due terzine del sonetto c'è una accurata descrizione della situazione climatica e meteorologica che contraddistingue il periodo dell'autunno già inoltrato: monti innevati; piogge frequenti e abbondanti (definite "stridule" nella versione in rivista e "squallide" nella raccolta citata); un forte vento di tramontana ("rovaio") insistente, che di notte fa sbattere le porte; e i giorni che, assai più corti e nuvolosi, sembrano dei lunghissimi tramonti a causa della scarsa luminosità che li caratterizza. Infine il poeta mette a confronto i tanti e colorati fiori della bella stagione ormai sfioriti e del tutto scomparsi, col crisantemo: tipico fiore autunnale che è facile trovare sopra le tombe dei cimiteri, soprattutto nel mese di novembre.

 

NOTE

1) La poesia ritratta dalla foto si trova alla pagina 132 del volume: Giovanni Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 1992 (XII edizione).