domenica 14 aprile 2019

Il mare nella poesia italiana decadente e simbolista


Mi sembra opportuno iniziare parlando dell'inquietante e affascinante serie dei mari descritta da Palazzeschi nella sezione Marine della raccolta Poemi; le quattro poesie, dai connotati fortemente simbolici, parlano di acque all'apparenza colorate - e ogni colore ha un significato preciso - quasi tutte popolate da esseri umani o animali (fa eccezione il Mar grigio); anche le forme di questi mari misteriosi, soltanto in due casi ben delineate, hanno uno specifico significato che il lettore può tentar di scoprire, ma che l'autore dei versi non chiarisce. Passando alle altre poesie, non sono pochi i versi che pongono il mare quale emblema di morte o di sciagura; per esempio Oxilia, guardando il mare da una spiaggia durante una giornata ventosa, si lascia andare a una serie di immagini tetre, sinistre e presaghe di morte: Ciuffi di paglia, foglie morte, alighe verdi, / si cullano nel vasto ondeggiamento bieco. / [...] Canta il male il suo carme bianco alle nubi ignave, / sibila, striscia, snodasi l'onda e addita il cammino. / / Canta il male anche in me. Sotto lo squallido cielo / il mio stendardo fluttua nella fatale via. Baccelli, addirittura, immagina la morte del mare: Dal freddo cristallo de l'onde / Nel limpido lume di gelo, / Che sta senza raggi nel cielo, / Il vivido Genio del mare, / Che giovane eterno fu detto, / Spirò come un'anima umana. / Or sola nei liquidi abissi / La Morte è sovrana. Ma anche Giribaldi e Valeri descrivono le acque marine in modo negativo: durante la notte, sentono entrambi scaturire dalle onde un pianto misterioso, e il primo dei due, successivamente si trova davanti una scena terrificante: [...] Ma queste lùgubri fanfare / su ne' boschi di olivi? E un grido ed una / minaccia! E il mar di latte! Non v'è alcuna / pietà. Su l'acque navigano bare. Similmente, il Pascoli, guardando il mare in una serena giornata estiva, dapprima scorge la rasserenante forma di un tempio bianco, poi, quest'ultimo scompare, e al suo posto ecco apparire due barche nere, somiglianti a due bare: Due barche stanno immobilmente nere, / due barche in panna in mezzo all’infinito. / / E le due barche sembrano due bare / smarrite in mezzo all’infinito mare. Anche Gigli, tratteggiando un paesaggio marino immobile e rattratto, osserva un barca nera che si allontana fino a scomparire. Sempre in un ambito negativo, s'inseriscono i versi del Graf, che immagina la propria anima come un mare / Vasto, profondo, senza suon, senz’ira; / Si stende il flutto quanto l’occhio gira, / Né terra alcuna all’orizzonte appare. E l'abisso di questo mare interiore nasconde un "perduto mondo" fatto di Città sommerse, inabissate prore, / Inutili tesor buttati al fondo, / Tutta una infinità di cose morte. Anche Foà parla di un Mare interiore che ogni essere umano possiede: un fremente mare / senza pace, con neri / abissi turbinosi.
Sull'altro versante, poeti come Anile e Varaldo, pongono in risalto la bellezza del mare guardato con estasiati occhi, durante una notte estiva e serena, con le stelle che si riflettono sulla sua superficie, creando un'immagine incantata, fuori del mondo:  Dagli abissi del cielo a quei del mare / un'immensa armonia sale e discende, / un'armonia di note luminose. / / Nell'alta notte appena uno sciamare / dolcissimo di sogni l'aria fende; / ed attonite ascoltano le cose (Anile). Passando al giorno, e prendendo in esame i versi di Giovanni Cena, in un'atmosfera e in un clima ultraterreno, si assiste ad una miracolosa apparizione: Vagano lungo i lucidi lavacri / grandi e misteriosi esseri alati: / vaporan l'acque nebulosi veli. / / Levansi da la terra simulacri / diafani pei cieli immacolati, / feminei visi su viventi steli. Paesaggi marini incantati sono decritti anche dal D'Annunzio e dalla Giaconi. Nel sonetto intitolato Tentazione, di Francesco Cazzamini Mussi, il mare, anche con il determinante contributo di esseri mitologici che lo popolano, diviene una sorta di calamita che attrae il povero poeta e lo trascina nelle profondità più recondite, dove troverà il sonno eterno. Infine, Luigi Gualdo, nella prima delle due poesie che portano il titolo di Marina, inizia parlando di una ingannevole e sinistra calma che regna nelle acque marine da lui osservate con estremo sospetto; infatti, questa piattezza è in realtà presaga di ben altri eventi, visto che in breve tempo sul mare si scatena una tempesta così terribile da sembrare una vera e propria battaglia.



Poesie sull'argomento

Antonino Anile: "Notte sul mare" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).
Alfredo Baccelli: "La morte del mare" in "Poesie" (1929).
Enrico Cavacchioli: "Sonetti del mare" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Tentazione" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Giovanni Cena: "Paesaggio" in "In umbra" (1899).
Ettore Cozzani: "Congedo" in "Poemetti notturni" (1920).
Girolamo Comi: "Cantico del Mare" in "Cantico dell'Argilla e del Sangue" (1933).
Gabriele D'Annunzio: "Romanza" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Arturo Foa: "Il mare interiore" in "Le vie dell'anima" (1912).
Luisa Giaconi: "Le visioni del mare" in «Il Marzocco», gennaio 1897.
Giulio Gianelli: "Notturno marino" in «Il Momento», dicembre 1910.
Giacomo Gigli: "Calma tragica" in "Maggiolata" (1904).
Cosimo Giorgieri Contri: "Sul mare" in "La donna del velo" (1905).
Alessandro Giribaldi: "Notturno" in "I Canti del Prigioniero" (1940).
Arturo Graf: "Marina" in "Medusa" (1990).
Luigi Gualdo: "Marina" (2 poesie) in "Le Nostalgie" (1883).
Tito Marrone: "Nostalgia del mare" in "Liriche" (1904).
Pietro Mastri: "Vele sospese" in "La Meridiana" (1920).
Nino Oxilia: "S'increspano l'acque del mare..." in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Mar Rosso", "Mar Giallo", "Mar Bianco" e "Mar Grigio" in "Poemi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Mare" e "Dalla spiaggia" in "Myricae" (1900).
Giacinto Ricci Signorini: "Sulla spiaggia di Rimini" in "Poesie e prose" (1903).
Guido Ruberti: "Marina" in "Le fiaccole" (1905).
Fausto Salvatori, "Serenata" in "In ombra d'amore" (1929).
Emanuele Sella: "Discors antiphona" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Alberto Tarchiani: "Alle fonti di un perenne desiderio" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Domenico Tumiati, "Portovenere" in "Liriche" (1937)
Diego Valeri: "Mare notturno" in "Ariele" (1924).
Alessandro Varaldo: "E sempre queto si distende il mare" in "Marine liguri" (1898).
Remigio Zena: "La barca" in "Le Pellegrine" (1894).



Testi

MARE NOTTURNO
di Diego Valeri

Sotto un sinistro albor di luna scema,
flutti senza splendore e senza canto
vengono a soffocar dentro la rena
uno smanioso bisogno di pianto.

Come nel sogno: è un pianto senza posa
che tenta - onda che viene, onda che va -
la riviera d'oblio silenziosa;
e il cuore che lo piange non lo sa.

(da "Ariele")




E SEMPRE QUETO SI DISTENDE IL MARE
di Alessandro Varlado

E sempre queto si distende il mare
ne la serena splendida nottata.
Sembra che il grande amor plenilunare
spieghi gl'incanti d'un'età fatata.

Non una nube minacciosa appare
a l'orizzonte e su la gran spianata
non una vela. Si distende il mare
tranquillo ne la splendida nottata.

E la goletta sta silenziosa
nel supremo silenzio e s'addormenta
sognando forse le marine lotte.

Né pure la canzone misteriosa
del marinaio vola lenta lenta
verso la patria ne la queta notte.

(da "Marine liguri")



Georges Lacombe, "La mer jaune"
(da questa pagina web)

domenica 7 aprile 2019

Nell'orto


Sotto la torre cadente, nitido
splendeva l'orto al sole;
tra l'erbe e l'umili piante domestiche
olezzavano all'ombra le viole,

nell'aria mite fresche olezzavano
dentro ai cespugli ascose;
rovi e stellate pervinche cerule
faceano siepe alle crescenti rose.

E la mia giovine madre, nel vespero
versava su gli steli
l'acqua, e benigni su lei versavano
la bionda luce del tramonto i cieli.

Acri del tenue fior di basilico
si diffondean gli aromi,
con lieve crepito qua e là sbocciavano
i bottoncini dei non nati pomi;

pendean le ciocche delle robinie
gravi di miele, e scosse
dal vespertino soffio di zeffiro
lucean precoci le ciliege rosse;

ad ora ad ora gli ultimi petali
sul capo dell'amata
innaffiatrice lenti cadevano
come fiocchi di neve immacolata.

Mia madre è morta... da un pezzo. Crebbero
gli arbusti in tronchi enormi.
Madre, da tanto tempo si chiusero
gli occhi tuoi buoni e nella tomba dormi.

Ed io ti vedo sempre, nel vespero,
chinata su gli steli
Versar nell'orto l'acqua, e a te versano,
madre, la luce del tramonto i cieli.



Questa poesia di Costantino Nigra (Villa Castelnuovo 1928 - Rapallo 1907) mi sta particolarmente a cuore, perché, in alcuni tratti, mi ricorda la mia mamma scomparsa da quasi tre anni. L'autore, è superfluo che io lo descriva, poiché è un celebre personaggio della nostra storia, in particolare di quella dell'Ottocento. Certamente Nigra è meno conosciuto come poeta; non scrisse molte poesie, e tutti i suoi versi sono stati raccolti in un libriccino pubblicato da Zanichelli nel 1961 (da questo ho estratto la poesia qui presente). Le cose migliori del diplomatico piemontese si possono rintracciare negli Idilli, usciti per la prima volta in un volumetto, nel 1893; anche Nell'orto fa parte di quest'ultimi. Le otto quartine parlano, con evidente nostalgia e con tangibile malinconia, del periodo in cui il poeta viveva insieme alla giovane madre, la quale amava dedicare un po' del suo tempo alle piante ed ai fiori, coltivando un orto situato al di sotto di una torre cadente, nei pressi della casa di residenza. Nigra descrive alcune delle piante presenti nell'orto: viole, pervinche, rovi, rose, fiori di basilico, robinie ecc. Quando, diversi anni or sono, anche mia madre si dedicava alla cura del nostro giardino, tutte queste piante, a parte le rose, non c'erano; ma ricordo le bellissime ortensie, i tagete, i ciclamini, le pansé, i gerani... Lei, come la madre di Nigra, le curava con amore, non facendogli mai mancare l'acqua e, se necessario, intervenendo con maestria per non farle soffrire. Ora, come il poeta, io me la immagino viva e ancor giovane, annaffiare le sue piante ed i suoi fiori in un tramonto estivo, mentre l'estrema luce del sole la illumina e la rende meravigliosa. 

domenica 31 marzo 2019

Antologie: Cento anni di poesia nella Svizzera italiana


È, questa antologia pubblicata dalla casa editrice Dadò a Locarno nel 1997, decisamente originale, occupandosi dei poeti svizzeri di lingua italiana. Di opere simili se ne trovano ben poche e, per quel che ne so, questa mi sembra la più riuscita; determinante per l'ottimo esito dell'antologia, sono i nomi dei curatori: Giovanni Bonalumi, Renato Martinoni e Pier Vincenzo Mengaldo (quest'ultimo lo si ricorda anche per aver curato l'ottima antologia Poeti italiani del Novecento): tre saggisti di ottimo livello, autori di altre opere di vario genere. L'arco temporale di cui si occupa l'opera antologica coincide, press'a poco, col ventesimo secolo. I poeti qui selezionati sono in tutto trenta, compresi i dialettali. C'è, ovviamente, Francesco Chiesa: il primo, grande autore di versi in lingua italiana che sia nato in Svizzera; presente in moltissime selezioni antologiche dei primi anni del Novecento e considerato alla stessa stregua dei poeti italiani, Chiesa risulta oggi pressoché negletto. Stesso discorso, con la differenza che il suo nome è tutt'altro che dimenticato, vale per Giorgio Orelli, che fu inserito da un altro celebre saggista: Luciano Anceschi, all'interno della storica Linea lombarda insieme ad altri ottimi poeti come Luciano Erba e Nelo Risi, tutti appartenenti alla cosiddetta Quarta generazione della citata Linea. Buon ultimo, vi figura un altro poeta di prim'ordine: Fabio Pusterla, anche lui spesso segnalato e selezionato nei saggi e nelle antologie che riguardano la migliore poesia italiana dell'ultimo Novecento. Insieme a questi tre pezzi da novanta compaiono altri poeti di buon livello che, purtroppo, sono stati un po' trascurati, se non dimenticati, dalla critica odierna. Mi riferisco, in particolare, a Giuseppe Zoppi, Adolfo Jenni, Remo Fasani e Grytzko Mascioni. Non dico nulla che concerna i poeti dialettali qui presenti, perché non mi ritengo in grado di formulare qualsiasi giudizio, vista la mia incompetenza sull'argomento. Un'ultima curiosità: tutti i testi poetici riportati all'interno di questo volume hanno come carattere di stampa principale il corsivo. Ecco, infine, i nomi dei poeti che compongono questa sorprendente antologia.




CENTO ANNI DI POESIA NELLA SVIZZERA ITALIANA

Emilio Zanini, Francesco Chiesa, Alina Borioli, Giulietta Martelli Tamoni, Valerio Abbondio, Giovanni Bianconi, Giuseppe Zoppi, Pino Bernasconi, Felice Menghini, Adolfo Jenni, Felice Patocchi, Ugo Canonica, Sergio Maspoli, Giorgio Orelli, Remo Fasani, Amleto Pedroli, Giovanni Orelli, Elio Scamara, Fernando Grignola, Fabio Muggiasca, Grytzko Mascioni, Angelo Casè, Alberto Nessi, Gilberto Isella, Aurelio Buletti, Vince Fasciani, Gabriele Alberto Quadri, Antonio Rossi, Dubravko Pušek, Fabio Pusterla.

sabato 23 marzo 2019

La poesia di Claudio Damiani


Claudio Damiani è un poeta italiano che, volendolo inserire in un secolo, può benissimo rientrare fra le ultime generazioni del Novecento. Io lo conobbi grazie ad una ottima e preziosa antologia di cui ho già parlato in un altro post: Nuovi poeti italiani contemporanei (a cura di Roberto Galaverni, Guaraldi, Rimini 1996). Le poche poesie selezionate dal curatore, mi colpirono per l'estrema semplicità e la disarmante bellezza che sapevano trasmettere al lettore; tanto più a me che, parlando di poesia, ho sempre preferito i versi in cui non comparissero troppi artifici e inutili sperimentazioni. Ciò che eccelle, nella poesia di Damiani, come spiega magistralmente Roberto Galaverni nella sua presentazione nella detta antologia, è l'assenza totale di componenti intellettuali, a favore di una spontaneità palpabile e di una semplicità estrema. Damiani ama descrivere la bellezza della natura che lo circonda, l'amore, gli affetti familiari, gli animali e i migliori ricordi di un passato personale più o meno recente; nel contempo, sebbene in modo saltuario, non esita a confessare i suoi timori, le sue sensazioni negative, che, però, risultano attenuate, quasi addolcite da parole e pensieri privi di qualsivoglia crudezza. Ho notato che più di qualcuno ha provato ad avvicinare la poesia di Damiani a quella dei grandi del passato, paragonandolo, seppure parzialmente, a Petrarca, ai poeti dell'Arcadia, a Pascoli ed a Saba; in verità, a me sembra che il poeta pugliese non debba niente a nessuno di costoro, e che i suoi versi posseggano un'originalità indiscutibile e quindi siano imparagonabili. Devo infine precisare che io conosco bene soltanto una parte dell'opera poetica di Damiani: quella che va dalla prima raccolta: Fraturno (1987) a Eroi (2000). Per quanto riguarda Il resto, mi è successo di leggere qualcosa che comunque conferma in pieno l'ottima impressione avuta fin da quando lessi le prime poesie. Chiudo riportando una splendida lirica tratta dalla raccolta La miniera, del 1997, che è anche il primo libro di Damiani che acquistai.




Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
- ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno -
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.

(da "La miniera", Fazi, Roma 1997, p. 73)

domenica 17 marzo 2019

Poeti dimenticati: Francesco Chiesa


Nacque a Sagno, in Svizzera, nel 1871 e morì a Lugano nel 1973. Per tutta la vita si dedicò all'insegnamento, prima come docente e poi come rettore in un liceo di Lugano. Pubblicò svariati libri di versi e alcuni romanzi; la sua ultima raccolta poetica uscì quando aveva già compiuto cento anni. Inizialmente carducciano e dannunziano, seppe evolvere la sua poesia dimostrandosi, nella maturità, un seguace di Giovanni Pascoli; ciò emerge in modo netto nella ricapitolativa raccolta L'artefice malcontento, dove Chiesa radunò il meglio della sua produzione in versi, e dove si possono apprezzare maggiormente le sue poesie della fase più avanzata, pregne d'intimismo e attente alle mutazioni stagionali. Particolarmente notevoli sono alcuni sonetti del poeta svizzero, che in questa forma metrica si distinse e diede il meglio di sé.


 Opere poetiche

"Preludio", Fontana e Mondaini, Milano 1897.
"La Cattedrale", Baldini, Castoldi e C., Milano 1903.
"La Reggia", Baldini, Castoldi e C., Milano 1904.
"Calliope", E. Cagnoni, Lugano 1907.
"I viali d'oro", Formiggini, Modena 1911.
"Fuochi di primavera", Formiggini, Roma 1919.
"Consolazioni", Zanichelli, Bologna 1921.
"La stellata sera", Mondadori, Milano 1933.
"L'artefice malcontento", Mondadori, Milano 1950.
"Alla gioia fuggitiva e altre poesie", Scheiwiller, Milano 1953.
"Sonetti di San Silvestro", Scheiwiller, Milano 1971.
"Tre noci in un cestello", G. Topi, Lugano 1972.



Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 339-340).
"Poeti d'oggi: 1900-1925", a cura di Giovanni Papini e Pietro Pancrazi, Vallecchi, Firenze 1925 (pp. 146-150).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 98-113).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 101-105).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 176-180).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 229-230).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 205-208).
"Cento anni di poesia nella Svizzera italiana", a cura di Giovanni Bonalumi, Renato Martinoni e Pier Vincenzo Mengaldo, Dadò, Locarno 1997 (pp. 41-66).



Testi

DOCILE, AGILE AL SUO FINE OGGI CORRE

Docile, agile al suo fine oggi corre,
vincitrice d'ostacoli e d'inciampi
la via; né chiostro o casa è che scampi
alla sua furia, o campanile o torre.

Le sfatte pietre respinge a comporre
nuovi edifizi su più vasti campi;
pronta alla vita, come dietro lampi
voce di tuoni, ella sonora accorre.

Qui verdeggiava un cimitero, ed ogni
rumor finiva. Qui parean le foci
della vita nel pelago dei sogni.

E la via nuova, stridula di voci,
folle d'oblio, rabida di bisogni,
tonando irruppe fra le bianche croci.

(da "Calliope")




SOLE DI PRIMAVERA, IO NON SAPEVO

Sole di primavera, io non sapevo
che sì bello tu fossi e grande e nuovo,
né tal dolcezza se le mani muovo
nel tuo lume dorato e di te bevo.

Veder cose, udir voci è tal sollievo
che di chiudere ancor gli occhi mi provo
per il piacer di riaprirli; e trovo
la perduta mia voce e un grido levo.

E anche gli alberi, i monti, l'erbe... Un volto
di meraviglia oggi la terra, fisso
nella celeste fiamma onde si pasce.

E anch'io... Guardo il sol giovane che nasce;
guardo fin alla cecità l'abisso
donde egli sorge, il rombo d'oro ascolto.


(da "L'artefice malcontento")

domenica 10 marzo 2019

Riva di pena, canale d'oblio...


Ora è la grande ombra d'autunno:
la fredda sera improvvisa calata
da tutto il cielo fumido oscuro
su l'acqua spenta, la pietra malata.

Ora è l'angoscia dei lumi radi,
gialli, sperduti per il nebbione,
l'un dall'altro staccati, lontani,
chiuso ciascuno nel proprio alone.

Riva di pena, canale d'oblio...
Non una voce dentro il cuor morto.
Solo quegli urli straziati d'addio
dei bastimenti che lasciano il porto.




Questi versi indimenticabili sono di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976), e si trovano nel volume Poesie (Mondadori, Milano 1962) che raccoglie tutta l'opera poetica dello scrittore veneto, uscita entro quel preciso anno di pubblicazione. Ma le tre quartine di Riva di pena, canale d'oblio... uscirono per la prima volta sulla rivista Nuova Antologia del 1° maggio 1930, per poi entrare a far parte di Poesie vecchie e nuove, volume pubblicato dalla Mondadori nel medesimo anno, che è, in sostanza, la prima antologia dell'opera poetica di Valeri.
Riva di pena, canale d'oblio... è senza dubbio una delle migliori liriche - e, non a caso, fra le più antologizzate - di un poeta che ancora attende di essere valutato per l'enorme valore che ebbe (non esiste ancora un volume che raccolga tutti i suoi versi).
La poesia sopra riportata parla di particolari situazioni e atmosfere, da cui scaturiscono sensazioni di tristezza e di malinconia, vissute dal poeta nella sua città del cuore: Venezia. È una sera autunnale, nebbiosa, fredda, tetra e desolata; l'uomo guarda intorno a sé e non riconosce più quel luogo meraviglioso e allegro che ben ricorda; intravede soltanto un cielo buio, dei lumi sparsi la cui luce è attenuata dalla nebbia intensa, e poco altro. Non si vede l'acqua dei canali, né tutto ciò che rende Venezia una città unica e bellissima; non c'è neppure alcuna presenza umana... In questa desolazione, il poeta s'inventa il verso che dà il titolo alla poesia: Riva di pena, canale d'oblio, che chiaramente esprime la sensazione triste e dolorosa da lui provata in quel momento, simboleggiata dal margine del canale, ma anche dallo stesso canale, quasi invisibile, scomparso come qualunque voce umana, sostituita dalle sirene dei bastimenti (anch'essi invisibili) che hanno un suono straziante e che abbandonano quel porto, quasi fossero esseri viventi presi da disperazione per l'atmosfera plumbea che vi si respira.

domenica 3 marzo 2019

"Il libro dei frammenti" di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi


La prima opera poetica di Roccatagliata Ceccardi (Genova 1871 - ivi 1919) uscì nel 1895, presso l'editore Aliprandi di Milano; il volumetto di 83 pagine, contiene 38 poesie dello scrittore ligure, divise in tre sezioni contrassegnate da numeri romani. Quindici anni fa, per fortuna, l'editore San Marco dei Giustiniani ha ripubblicato questo libro, inserendolo nella interessantissima collana La biblioteca ritrovata. Quasi tutte le poesie presenti ne Il libro dei frammenti, erano già state pubblicate in riviste locali l'anno precedente o lo stesso in cui il volumetto vide la luce. Come si evince dagli annunci del Roccatagliata Ceccardi presenti nelle riviste dove comparvero per la prima volta questi versi, il libro si sarebbe dovuto intitolare Gattici, forse in onore ad una poesia di Giovanni Pascoli che si legge nelle prime edizioni delle Myricae. Prima ancora, il poeta genovese avrebbe voluto pubblicare un altro volume di versi, intitolato Petali, che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto raccogliere le sue primissime poesie apparse in varie riviste ormai introvabili; qualcuna di quest'ultime è possibile leggerla nel libro che raccoglie l'intero corpus poetico di Roccatagliata Ceccardi: Colloqui d'ombre (De Ferrari, Genova 2005).
L'importanza de Il libro dei frammenti, risiede soprattutto nel fatto che in queste pagine, il Roccatagliata Ceccardi si dimostrò uno dei primi poeti del nostro paese che abbia chiaramente preso come riferimento principale la poesia dei maledetti e dei simbolisti francesi, e lo abbia fatto in modo egregio; in ognuna delle sezioni qui presenti, si nota almeno una bellissima poesia che imita o traduce alcuni versi di Paul Verlaine, Leconte de Lisle, André Lemoyne e Arthur Rimbaud. Ma anche in altri versi non tradotti o imitati, si può notare l'influenza esercitata dai grandi poeti francesi nei confronti del Roccatagliata Ceccardi. Però, all'interno del libro, ci sono anche poesie nate da tutt'altre ispirazioni ed atmosfere; sono quelli che descrivono magistralmente alcuni paesaggi liguri, o che riflettono il dolore del poeta per la perdita recente della mamma e della donna amata. Indubbiamente, nei versi di Ceccardi, ci sono anche suggestioni pascoliane e carducciane (facilmente riscontrabili, per esempio, in una poesia come La Santa). Quando, nel 1910, ovvero ben quindici anni dopo Il libro dei frammenti, Roccatagliata Ceccardi pubblicò Sonetti e poemi, il suo secondo e ben più consistente volume di versi, ripropose soltanto una poesia del suo primo libriccino, commentandola in una nota con queste parole:

[...] Povero e caro volumetto! Poca cosa erano, è vero, quei canti; ma, sebben nati tra la rovina di mia casa, e la battaglia aspra di quei miei giovanissimi anni, s'avean pur un vanto: ché non eran litanie di querimonie o di bestemmie alla vita, od al caso; tutt'altro! Si pompeggiavan, come meglio sapean, ad un'eco di Pan, l'Eterno, cui, null'altro badando, allor tendevo l'orecchio, come tra un sogno. E s'ebbe il libretto qualche lode, tra cui quella ancor oggi carissima di Giovanni Marradi, e l'onor di un saggio critico sul Marzocco, allor al suo primo anno di vita, per la penna acuta ed onesta di Pietro Mastri, il quale, poi, lo volle raccolto in un suo volume di critiche: Su per l'erta, edito nel 1903 dallo Zanichelli. Ma per un fiore che ronzio di saette, assiduo, dall'ombra alle spalle! Per uno sprazzo di sole quanto intrigo di insidie ai piè del povero viandante!
Pur mi commuovo al ricordo di un cenacoletto, che in quel tempo si raccogliea a Sturla...

Ecco, per concludere, due splendide poesie estratte da Il libro dei frammenti.



NEL VIALE

Ella è muta e quieta: un poco snella;
si raccoglie in un sogno d'ombra il volto
timidamente: eppur essa è ancor molto
cara e, in quel velo di tramonto è bella.

Passando pel viale essa ha raccolto
in una falda de la sua gonnella,
qualche foglia di ciano e di rosella
che il vento in un frullar d'ali ha travolto.

Or contempla col mite occhio la mesta
sfioritura: e così di ogni dischiusa
bocca - pensa. - Così? Ed in cuor trema.

E in quel pensier di gioventù delusa
la fronte inchina come se la testa
una mano invisibile le prema.




SOGNO D'OTTOBRE

Quelle giornate pallide e soavi
come infiniti e placidi tramonti,
dai grandi righi d'oro agli orizzonti,
             come architravi;

e quell'incenso di languenti rose
che ristagnava per le strade a valle,
e più ne' vespri, tra un fumar di gialle
             brume pensose;

e quel villaggio che stillava brine
a l'albe, mentre discendevan lenti
gli uomini ad impinguar d'alme sementi
             piani, colline;

e quella porta - quel piazzolo muto
donde fra reti di rossastri pampi,
un bel volto dagli occhi senza lampi
             fece il saluto:

il lento cenno del supremo addio
solito, sempre, quando si son tocche
troppo le mani e su le mute bocche
             languì il desìo:

sempre ricorderò, dolce e malato
Ottobre, e il sogno che a quei dì mi vissi:
sogno di baci e pallidi narcissi
             incoronato.

Eran quei baci come il miel che porti
a le labbra una man diaccia di brina;
quei narcissi, fior d'alba sementina
             che nascon morti.

E il sogno una vision d'Eros che fosco
cenna tra mucchi pallidi di rose,
a fantasmi di brume dolorose
             penduli al bosco.