domenica 28 gennaio 2024

"E così mi son fermato"

 

E così mi son fermato

ai piedi del ponte.

E così ti sei fermata anche tu

un gradino più su.

Non sapevo ch'era un addio.

L'ho saputo un attimo dopo

sentendo le tue labbra sfiorare le mie.

Era la prima, era l'ultima volta.

Così.

 


 



COMMENTO

La breve poesia senza titolo che inizia col verso: E così mi son fermato, è di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976), e fa parte della scarna raccolta intitolata Poesie inedite o «come», pubblicata dall’editore San Marco dei Giustiniani di Genova nel 1977, ovvero un anno dopo la scomparsa del poeta veneto. Questa è la quinta poesia delle quattordici che compongono questo volumetto (si trova alla pagina 29), precedute da una presentazione di Domenico Porzio, e da un saggio di un altro poeta: Carlo Betocchi.

I dieci versi di Valeri parlano di un addio; tale evento, avvenuto in un tempo non precisato, ha visto come protagonisti il poeta e, molto probabilmente, una donna con cui era nata una relazione di amicizia, se non d’amore. I due si sono salutati definitivamente ai piedi di un ponte, con un bacio veloce e nulla di più; il poeta si è reso conto che non avrebbe visto mai più la donna, proprio dopo il bacio d’addio. Il loro incontro non è durato molto: forse si sono conosciuti e lasciati nelle ore di una sola giornata, come fa intuire il penultimo verso. Ma questo incontro, per quanto breve, ha lasciato, almeno nel poeta, un ricordo indelebile; perciò egli ha deciso di dedicare a questo personaggio femminile una poesia, per poterla ancora ricordare, e nello stesso tempo rimpiangerla, seppure a distanza di tanto tempo.

domenica 21 gennaio 2024

La musica in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Penso che nella musica, quella migliore, ci sia qualcosa di unico e, direi, di divino. La musica è l'unica forma artistica che coinvolge esclusivamente il senso dell'udito; se si parla di musica strumentale (dove risulti esclusa la voce umana o, nel caso essa compaia, abbia la sola funzione di strumento musicale), essa non ha bisogno di traduzioni, spiegazioni o cose simili: arriva all'ascoltatore da qualunque luogo provenga (forse anche alcuni animali ne possono apprezzare la bellezza). Non ha importanza, infine, il tipo di musica: ciò che solamente conta, è che sia ben fatta, e che quindi possa suscitare, in chi l'ascolta, forti emozioni. Forse, se Dio esiste, è possibile che abbia conferito all'umanità (ma non a tutta, ovviamente) la possibilità di intercettarlo componendo della musica. Chiudo con una piccola nota: il titolo di questo post non è del tutto esatto (e non è neppure il primo), visto che l'ultimo poeta da me selezionato: Giuseppe Zoppi, è nato, vissuto e morto nel Canton Ticino.




LA MUSICA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



MUSICHE DELLA SERA

di Antonio Bruno (1891-1932)


  Le musiche d’altri tempi!

  Tornano i ricordi simili ad asfodeli in un defunto Eliso

  È una marcia funebre

  All’orizzonte s’attarda una nebbia violacea sonnolenta 

  La luna tramonta come una nave stanca che approdi

  Tutti i nostri orizzonti furono ofiuscati

  Le musiche del nostro passato sono funebri

  I nostri giardini defunti Elisi

  Cenere ed ombra le nostre alate speranze - Anima

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

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(da "Fuochi di bengala", Edizioni de L'Italia Futurista, Firenze 1917, p. 19)





MUSICA

di Giovanni Cena (1870-1917)


Nascesti avvolto da le voci erranti

nelle frondi e su l'acque; e tra le gole

canore che opprimean talor gli schianti

del tuono, emerse il tuo cantico al sole;


e quando venner meno le parole,

i metalli squillarono: con quanti

strumenti il mondo giubila o si duole

moltiplicasti l'onda de' tuoi canti,


Uomo! Così ti levi, inno che domini

l'odio; che accordi la gioia e lo strazio

spiranti verso la serenità.


Così ti comporrai, coro degli uomini,

cantico della terra, e nello spazio

coro degli astri per l'eternità.


(da "Homo", Nuova Antologia, Roma 1907, p. 81)





LA MUSICA CHE ASCOLTO IN PRIMA FILA

di Gian Carlo Conti (1928-1983)


La musica che ascolto in prima fila

nel teatro ducale con le donne più belle

che sporgono dai palchi ingioiellate

mi fa dimenticare che ci sei anche tu

nella sala dorata e che ti ho visto

nell'intervallo più alta delle amiche

e ho incontrato per un istante

i tuoi occhi duri mentre sentivo

il cuore contrarsi nello spasimo d'amore.


(da "Non si ricordano più. Le poesie", Guanda, Parma 1991, p. 115) 





MUSICA DI MISTERO

di Olinto Dini (1873-1951)


Odo in questo dolce silenzio un suono

che soltanto l'anima avverte e intende:

un velato suono che sembra d'una tenera voce

che soave langua per troppo amore:

mormorii di spiriti ch'escon lievi

lievi dalle selve e per l'aria vanno misteriosi.


(da "Poesie", Ed. d'Arte Rassegna, Bergamo 1971, p. 173)





MUSICHE

di Luigi Fallacara (1890-1963)


Queste musiche udite sono tempo

che ci giunge così senza figura,

sono le qualità della misura

per cui restiamo immersi dentro il sempre.


Una tua nota si configge là

dove il passato è scorso entro se stesso,

oh l'immobilità di questo adesso,

di cui conosco la profondità.


Mi commuovono i canti un tempo uditi

e poi per sempre dentro me fuggiti

come in un luogo dove ancora esistono,


Là sempre io ricomincio, là ti ho visto

Dio della giovinezza e dell'infanzia;

là sempre io t'oda, nostra lontananza.


[da "Poesie (1914-1963)", Longo, Ravenna 1986, p. 217]





LA MUSICA

di Corrado Govoni (1884-1965)


Musica, lievito del pianto, foce

azzurra della gioia, gran girone

delle vertigini, nero tifone

che dell'anima squassa il mare atroce.


Abisso del colore e della voce,

musica, bianco trasognato alone

della malinconia, ippogrifone

che trasporta nell'isola veloce.


Oh le tastiere candide dei piani

come denti che mastican diamanti

e perle sotto il pulsar delle mani!


Oh i contrabassi, atroci suicidi

che si straccian le viscere fumanti

con paurosi, con orribili gridi.


(da "Gli aborti", Taddei-Soati, Ferrara 1907, p. 74)





MUSICA

di Nicola Moscardelli (1894-1943)


Sopra il ritmo d'un violino

balla il mio cuore, balla il tuo cuore,

quello del mio vicino...

Si aprono le finestre:

quanti fiori,

quanti profumi,

danze, carezze, voluttà...

Rapidità

dell'incanto.

Tu scolorisci gli occhi,

pieghi i ginocchi;

ti senti cadere, svanire,

soffri una pena che non hai.

I giardini dell'anima si schiudono:

piangi lagrime di assenzio,

chiami con voce che non è tua,

ami un cuore che non è tuo...


(da "La veglia", Unione Arti Grafiche, L'Aquila 1913, p. 29)





O MUSICA, SOAVE CONOSCENZA

di Clemente Rèbora (Clemente Luigi Antonio Rèbora, 1885-1957)


O musica, soave conoscenza,

Tanto innaturi l'anima fin ch'ella

Delle imagini vere la più bella

In sua voce ritrova e in sua movenza;


E come a noi perman l'intelligenza

Se vada in labil suono di favella,

Armoniosa in te non si cancella

L'eterna verità mentre è parvenza.


Virtù ti crea che non par segreta,

Ma il ritmo snuda l'amor che discende

Dall'universo a rivelar la meta:


Amor che nel cammino nostro accende

L'inconsapevol brama triste o lieta,

E in te, raggiunto il tempo, lo trascende.


(da "Le poesie", Garzanti, Milano 1994, p. 41)





MUSICA

di Carlo Vallini (1885-1920)


Sovra l’argentea cetera scolpita

ella, ricurva, attentamente morde

col mobil plettro le vibranti corde 

in melode dolcissima, infinita.


Poscia, in un'onda pienamente ardita,

ascolta il lungo risonar concorde

delle note trillanti, or alte, or sorde,

ebre d'amore, fulgide di vita.


Grande, intorno, il meriggio. Su l'immenso

conflagrare dei campi sotto al sole,

la messe ondeggia bionda e solitaria;


e pe 'l sole che regna atroce e intenso

nel cielo bianco, va, senza parole,

il canto e quasi sfolgora nell'aria.


(da "Un giorno e altre poesie", Einaudi, Torino 1969, p. 108)





MUSICA

di Giuseppe Zoppi (1896-1952)


Quando l'orchestra impetuosa versa

sulla folla silente un flutto d'oro,

socchiudo gli occhi e m'abbandono al coro

splendido. E la mia vita va dispersa


nel prodigioso fiume che attraversa

le verdi erbe, s'indugia nel ristoro

d'un lago azzurro, spezzasi in canoro

zampillo qual di tinnula acqua tersa.


Ma, oltre il vorticoso rapimento

in cui travolta l'anima veloce

intensamente, acutamente gode;


mi aspetta il gran silenzio, in cui sento,

cessando intorno ogni terrestre voce,

salirmi al cuore, violenta, l'Ode.


(da "La nuvola bianca", L'Eroica, Milano 1923, p. 47)



Poul Friis Nybo, "Woman playing the piano"
(da questa pagina web)


domenica 14 gennaio 2024

Riviste: "La Diana"

 

La Diana è il titolo di una rivista letteraria, nata a Napoli nel gennaio del 1915 grazie all’iniziativa di tre intellettuali italiani: Gherardo Marone (1891-1962), Mario Cestaro (1894-1918) e Fiorina Centi. Fu però il primo di costoro, a dirigere la rivista dalla sua comparsa, fino all’ultimo numero del marzo 1917. La Diana nacque in sordina, ma poi trovò la sua strada ed ebbe il merito di ospitare, tra le sue pagine, poeti di grande valore come Giuseppe Ungaretti, Corrado Govoni ed Arturo Onofri. La svolta decisiva avvenne a partire dal 1916: anno in cui la rivista napoletana prese definitivamente le distanze dal futurismo, schierandosi apertamente a favore della poetica neoliberista e del frammentismo. Chiudo riportando due poesie e una prosa poetica pubblicate per la prima volta sulla Diana.

 

 


 

 

FINESTRE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Case nel sole: una striscia di giallo,

di scialbo giallo, su prati nevati.

(Alberi, dietro: alti pioppi sfumati

dentro un sottile pulviscolo d'oro)

 

Lucide chiazze di cupo viola

sui tetti bianchi: la neve si sfa.

Finestre aperte; bucato a festoni;

donne affacciate... È l'inverno che va...

 

(da «La Diana», 25 maggio 1916)

 

 

 

 

MALINCONIA

di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

 

Calante tristezza per il corpo avvinto al suo destino

 

Calante notturno abbandono

di corpi a pien’anima

presi

nel silenzio vasto

che gli occhi non guardano

ma un’apprensione

di quest'orologio

ch'è il cuore

 

Abbandono dolce

di corpi

pesanti d’amaro

labbra rapprese

in tornitura di baci

lontani

voluttà di corpi

estinti d'insaziabili voglie

 

 

Mondo

giro volubile di razzi

alla spasimante passione

attonimento di mill'occhi

in una gita folle

in una gita

di pupille amorose

 

In una gita evanescente

come la vita cche se ne va

col sonno

e domani riprincipia

e se incontra la morte

dorme soltanto

più a lungo.

 

(da «La Diana», 31 luglio 1916)

 

 

 

 

LAGO DI NEMI

di Arturo Onofri (1885-1928)

 

  Lungo il sentiero che strapiomba a precipizio sul lago, andiamo uno dietro l'altro a ridosso della muraglia ove la rossa vite straniera serpeggia delicatamente i suoi rampicati ricami sanguigni.

  Lontano si vede, a picco sull'acqua di cristallo, il turchino pesto delle forre ove l'ombra come un ingorgo denso è rappresa fra le vegetazioni selvagge.

  Nel polverio delle lontananze di rosa, s'indovina ancora assopito il celeste mattutino del mare.

 

(da «La Diana», novembre-dicembre 1916)

 

domenica 7 gennaio 2024

La primavera nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Quella primaverile, tra tutte le stagioni, è certamente la più decantata e la più esaltata dai poeti di ogni tempo e di ogni luogo. Leggendo i versi dedicati a questo argomento, scritti dai decadenti e dai simbolisti della nostra penisola, si notano delle differenze piuttosto nette. A volte, la primavera viene considerata alla stessa stregua di un miracolo naturale, che comporta, in tutti gli esseri viventi, una vera e propria esplosione di energia, favorita dal clima più mite e dalla incoraggiante visione dei colori fulgenti della vegetazione; ciò fa in modo che i poeti, così come la stragrande maggioranza degli esseri umani, senta dentro di sé una forza vitale nuova, e lasci da parte tutti i sentimenti negativi che, nella stagione precedente, erano preponderanti, affliggendo l’anima e causando una specie di immobilismo. Ci sono, però, anche i poeti che, proprio quando la primavera si mostra in tutta la sua bellezza, si lasciano andare a pensieri malinconici, dovuti ad una felicità perduta e mai più ritrovata; da qui nascono, spesso, dei bei ricordi che li riguardano direttamente, quando le primavere – ormai lontane – rappresentavano qualcosa di esaltante. I mesi più citati dai poeti decadenti e simbolisti sono aprile e maggio.

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Brividi" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Nova primavera" in "Leggenda eterna" (1900).

Vittoria Aganoor: "La primavera dei dolorosi" in "Nuove liriche" (1908).

Enrico Cavacchioli: "Insonnia primaverile", "La Gioia" e "Elogio della primavera" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Carlo Chiaves: "Passa la primavera" in «La Donna», aprile 1914.

Guelfo Civinini: "Primavera di monache" in «Fantasio», 1902.

Sergio Corazzini: "Ballata della Primavera" in "Dolcezze" (1904).

Gabriele D'Annunzio: "Sogno d'una notte di primavera" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).

Luigi Donati. "La fiorita" in "Poesia di passione" (1928).

Giuliano Donati Pétteni: "Invito" in "Intimità" (1926).

Arturo Foa: "Rapimento" in "Le vie dell'anima" (1912).

Alfredo Galletti: "Voci primaverili" in "Odi ed elegie" (1903).

Diego Garoglio: "Primavera del poeta" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Luisa Giaconi: "Primavere" in "Tebaide" (1909).

Giulio Gianelli: "Convalescenza" in "Tutte le poesie" (1973).

Cosimo Giorgieri Contri: "Primavera dell'oblio" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Arturo Graf: "Sonetto di primavera" in "Le Danaidi" (1905).

Gian Pietro Lucini: "Canta la brezza vocale tra li alberi..." in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Gian Pietro Lucini: "La Primavera" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Enzo Marcellusi: "Primavere" in "Il giardino dei supplizi" (1909).

Tito Marrone: "Primavera romana" in "Liriche" (1904).

Pietro Mastri: "Presagi primaverili" in "La fronda oscillante" (1923).

Antonio Rubino: "Primavera sul mare" in «Poesia», ottobre 1908.

Emanuele Sella: "La primavera celeste" in "Il giardino delle stelle" (1907).

Domenico Tumiati: "L'aprile fuggitivo" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Primavera" in "Umana" (1916).

Giuseppe Villaroel: "Poliritmo" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 

 

Testi

 

VOCI PRIMAVERILI

di Alfredo Galletti (1872-1962)

 

Maggio, allor che pe i campi rinnovelli

di primavera il fremito sopito:

s'aprono i fior ne l'alba tua più belli,

sorride il ciel d'un suo riso infinito;

 

nel bosco, ove più densi i rami snelli

velano d'ombre il viottolo romito,

e le liquide voci de i ruscelli

a lo stanco pensier fan lieto invito,

 

dolce cosa è smarrirsi! a tratti il vento

passa tra 'l verde e su le limpid'acque

metton le fronde un palpito leggiero;

 

e a me favella ne 'l silenzio intento,

tra i fior selvaggi ove il mio canto nacque,

la tua voce, o foresta, e il tuo mistero.

 

(da "Odi ed elegie", Zanichelli, Bologna 1903, p. 76)

 

 

 

 

PRIMAVERE

di Enzo Marcellusi (1886-1962)

 

I.

Una mano poggiò candida e lieve

sul mio capo dolente: un tocco, ed una

sùbita selva ignara de la neve.

 

L'ambrosia eterna de la primavera

spirò i virgulti e imperlò la luna:

la vergine sorella della sera.

 

Ma l'agile cipresso, che al mio sguardo

esclude il mare, oblìa il buon becchino;

folgora e canta, se lo colga un dardo

di sole, come un efebo divino.

 

II.

Batte a la mia finestra il dubitante

cipresso con l'usata melodia

d'un volubile cielo asceso, Dante.

 

Signore è del giardino ed io la buona

mia volontà gli elevo, onde il cuor sia

lassù, quando di fuochi si corona.

 

Cuore, piccolo cuore, immenso cuore!

è d'uopo che tu sia pari a lo stelo

del cipresso, che suggeil buon sapore

di breve piota - il vertice nel cielo.

 

(da "Il giardino de' supplizi", Tip. di D. De Arcangelis, Atri 1909, pp. 84-85)

 

 

Arnold Böcklin, "Frühlingstag"
(da questa pagina web)

domenica 31 dicembre 2023

Elegia di fine d'anno

 

I.

Il bimbo guarda alla finestra fiocchi

taciti ch'empion turbinando l'aria,

guarda la strada bianca e solitaria

che non ha che un ombrello e due marmocchi,

 

e guarda la casina dirimpetto

ch'è agghiacciata dal vento e dalla bruma,

ma che pur nel silenzio algido fuma

con la pipa del suo comignoletto.

 

Sorride il bimbo nel suo caldo covo

ed è stupito perché i fiocchi a un tratto

d'un paesello nero e vecchio han fatto

un paesello tutto bianco e nuovo.

 

II.

Son io quel bimbo forse. Io le mie calde

guance schiaccio sul vetro intirizzito

e non rispondo al monellesco invito

della neve che cade a larghe falde.

 

Son io che guardo e penso, io che li scruto,

bella neve scolastica irreale

che vesti le vacanze di natale

col tuo candido sogno di velluto!

 

Son io che attendo sul poggiuolo antico,

quasi imitando inconscia una figura

del retorico libro di lettura,

il retorico passero mendico!

 

III.

Palle di neve turbinano fuori.

Palle di neve! In un più dolce mese

chi le chiamò col bel nome francese:

boules-de-neige? Fu in giardino: erano fiori.

 

Erano fiori; era una bella amica.

Ora sono i monelli, ora, i marmocchi.

Cade al neve a lunghe falde, a fiocchi,

a farfalline, bianca, azzurra, antica.

 

Oscilla, s'alza, s'abbatte, s'abbassa.

I vetri col mio fiato umido appanno:

scrivo col dito il giorno, il mese, l'anno

in cui son nato... Il tempo, come passa!

 

IV.

E l'anno muore, e in me qualcosa muore,

qualche piccola cosa intirizzita.

Ah, ch'io non veda più nella mia vita,

ch'io non mi svegli più dal mio stupore!

 

Ch'io veda solo nel mio sogno breve,

nel mio bel sogno immobile infecondo,

ch'io guardi appena da un pertugio il mondo

fatto più buono e nuovo nella neve!

 

E l'anno muore, soffice; e laggiù,

nel mio laggiù più fondo entro il mio cuore,

qualche altra cosa. Tutto ciò che muore

- è vecchia fola - non torna mai più.

 

    Dicembre, 1912.

 

(da «Aprutium», dicembre 1913)

 

 


 

Elegia di fine d’anno è il titolo di una poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 – ivi 1979) che fu pubblicata nella rivista Aprutium del dicembre 1913. Secondo me è una poesia molto bella; eppure, dopo questa occasione, lo scrittore romagnolo non la ripropose più nei volumi di versi che successivamente fece uscire, a partire dal 1916 (anno della raccolta Il giardino dei frutti). Nelle dodici quartine - divise in quattro capitoli - di cui si compone la poesia che ho qui sopra trascritto, riemergono diversi temi cari al poeta cesenaticense: il ricordo e il rimpianto per l’infanzia perduta; la ritrosia che sempre lo caratterizzò, qui espressa nella non partecipazione al clima di festa che domina la scena; il sentirsi morire un poco ogni giorno (sensazione accentuata dal contesto di fine anno), e infine l’immancabile malinconia che si mimetizza solo in parte, grazie ad una intelligente ironia.

domenica 24 dicembre 2023

Natale al Caffè Florian

 

Natale al caffè Florian è il titolo di una poesia di Alfonso Gatto (Salerno 1909 - Orbetello 1976). L’ho trascritta dal volume Poesie, pubblicato da Editoriale Jaca Book, a Milano nel 1997. La si può leggere anche in un altro libro che raccoglie l’ intera opera poetica di Gatto: Tutte le poesie (Mondadori, Milano 2005). Inoltre è presente nella celebre antologia Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo (Mondadori, Milano 1978); fu proprio in quest’ultimo volume che la lessi per la prima volta. Da ricordare che lo storico Caffè Florian citato nella poesia, si trova a Venezia, ed è il caffè più antico d’Italia e del mondo (fu inaugurato alla fine del 1720); il nome del locale deriva dalla dicitura dialettale del nome del primo proprietario: Floriano Francesconi. Tra i personaggi famosi che frequentarono il Caffè Florian, si ricordano Giacomo Casanova, Carlo Goldoni, Antonio Vivaldi, Giuseppe Parini, Ugo Foscolo e Gabriele D’Annunzio.

 

 

 


 

 

La nebbia rosa

e l'aria dei freddi vapori

arrugginiti con la sera,

il fischio del battello che sparve

nel largo delle campane.

Un triste davanzale,

Venezia che abbruna le rose

sul grande canale.

 

Cadute le stelle, cadute le rose

nel vento che porta il Natale.