domenica 2 aprile 2023

Riviste: "Circoli"

 

Circoli è il titolo di una importante rivista letteraria nata a Genova nel 1931. Il fondatore di Circoli fu il poeta genovese Adriano Grande, il quale, oltre a dare preminenza assoluta alla poesia, scelse tra i suoi più stretti collaboratori altri poeti liguri come Guglielmo Bianchi, Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale e Giovanni Descalzo. Non per questo furono trascurati altri poeti - provenienti da quasi tutte le regioni italiane - che, secondo il rigoroso programma della redazione di Circoli, sapevano bene incarnare lo spirito e l’essenza di quella che proprio allora fu definita “Lirica nuova”. Tra di essi spiccano i nomi di Attilio Bertolucci, Alfonso Gatto, Glauco Natoli, Sandro Penna, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Umberto Saba ecc. Meno spazio, nelle pagine della rivista trovarono i prosatori ed i saggisti; mentre al contempo furono ospitati alcuni poeti stranieri, anche molto famosi, come Emily Dickinson, Thomas Stearn Eliot, Edgar Lee Masters, Marianne Moore ed Ezra Pound. Nel 1935 la rivista mutò la sua sede, trasferendosi a Roma. Scomparsa per tutto il 1936, Circoli, a partire dal 1937 riprese le pubblicazioni, avvalendosi di nuovi redattori e collaboratori (tra i quali anche Indro Montanelli). Già in questa nuova fase la poesia comparve più sporadicamente, mentre l’attenzione si spostò maggiormente sulla politica, la narrativa e la storia dell’arte. A partire dal 1940 cambiò nome in Raccolta, e dopo tre anni chiuse definitivamente i battenti. Per chiudere, ecco tre poesie apparse nel periodo d’oro della rivista genovese.

 

 


 

 

 

LA MADRE

di Glauco Natoli

 

Ecco: l'ombra è discesa

e immota sulla soglia

t'offri al buio che tutta in trame d'astri

la tua vita già morta

ricomponga.

 

Di te ti scordi e sorridi

ai bambini perduti:

dolore che dissecca

ed era in te del loro

lontanare dubbiosi

o a prima alba morire.

 

Anch'io sepolto:

m'affonda peso lieve d'amore

e giaccio inerte

né i ginocchi mi scioglie

la stagione che tutta si rinnova.

 

E non mi cerca

che un richiamo scarno di madre

gettato sull'abisso

al mio nuovo salire.

 

(da «Circoli», maggio/giugno 1931)

 

 

 

 

 IN SECCA

di Adriano Grande

 

Di pianto rifiutato

troppo s'imbeve il cuore.

E duole, troppo spesso

duole.

Legno, si gonfia dove fu distratto

il calafato; e marcisce.

Un poco mi guarisce

lo stare in secca al sole.

Uomo, mi sono fatto

coraggio: ed ho imparato,

io che stonato nacqui,

a cantare.

Meglio sarebbe stato

spremere questo male in tante lagrime

dopo ogni viaggio: o affondare,

varato.

 

(da «Circoli», luglio/agosto 1931)

 

 

 

 

IDILLIO ALLE VIGNE

di Leonardo Sinisgalli

 

Al tempo delle vigne

carica di furore ai nostri occhi

si scopriva la terra e nelle mani

ancora al gesto acerbe e serene.

Si torceva alle giunture

sotto il peso del fiore

la pianta del fico dolente.

Alla nuca era giunto il contagio.

Infanzia gridata dagli uccelli

ti cacciava la sete a gola aperta

a piedi nudi sulle crete,

il passo lesto all'insidia delle serpi.

 

(da «Circoli», settembre/ottobre 1934)

 

 

domenica 26 marzo 2023

Il peccato nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Nei versi di questi poeti, il peccato fa quasi sempre riferimento al sesso: un sesso proibito o severamente vietato, o, comunque, scandaloso, sia che vi siano coinvolti personaggi femminili coniugati, sia che i protagonisti siano dei religiosi (molto spesso frati), che cadono nelle tentazioni più svariate. Ma il peccato non sempre si consuma, almeno nella realtà dei fatti: per esempio, nella poesia Chiaro di luna di Giuseppe Lipparini, esso è soltanto frutto del pensiero; quando, invece, avviene realmente, spesso subentra un pentimento sincero del peccatore o della peccatrice, che si rivolge supplicando ad una divinità e, in caso di flagranza, subisce severe punizioni. Passando ai simboli, si può dire che uno di essi - rimanendo in un contesto prettamente maschile - è la donna completamente svestita: sia essa immaginaria, posticcia o reale; per quanto invece concerne le donne, sono le loro mani a divenire simbolo di peccato, che si espia o si dilegua grazie ad esercizi artistici (come, in una delle poesie di Giorgieri Contri, l’assiduo dedicarsi alla musica).  

 

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Ugo Betti: "Canzonetta del peccatore senza conforto" in "Canzonette - La morte" (1932).

Giovanni Camerana: "Vox magna" in "Poesie" (1968).

Edmondo Corradi: "Il peccato" in "Ritmi" (1900).

Luigi Fallacara: "Il minimo peccato" in "Illuminazioni" (1925).

Cosimo Giorgieri Contri: "Primo peccato" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Cosimo Giorgieri Contri: "La peccatrice" in «Nuova Antologia», aprile 1907.

Giuseppe Lipparini: "La tentazione" e "Chiaro di luna" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).

Gian Pietro Lucini: "Sade" in «Poesia», giugno/luglio/agosto/settembre 1907.

Enzo Marcellusi: "Quei che sanno, bambina, van ripetendo alla gente" in "Il giardino dei supplizi" (1909).

Fausto Maria Martini: "Dopo..." in "Poesie provinciali" (1910).

Ettore Moschino: "La peccatrice" in "I Lauri" (1908).

Nino Oxilia: "O vizio, ecco t'invoco..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "La storia di Frate Puccio" in "Lanterna" (1907).

Domenico Tumiati: "Inganno" in "Musica antica per chitarra" (1897).

 

 

 

 Testi



LA PECCATRICE

di Cosimo Giorgieri Contri

 

Per la via dove non suono di rote

s'ode, e i fanali allungano lor bisce

gialle sovra l'asfalto, il suon fluisce

com'acqua lenta da fonti remote.

 

Chi sei che suoni? Indugiano le note

or come un'acqua che s'inaridisce:

e allor, chiuse le stuoie, io tra le strisce

verdi vi penso, o sonatrici ignote.

 

Mani di donna gravi di un desìo

insaziato che mieteste rose,

fuggitive com'una onda di suoni:

 

mani già piene di tentazioni,

ed or tentanti su le dolorose

note alla giovinezza un vostro addio.

 

(da «Nuova Antologia», 16 aprile 1907)

 

 

 

 

LA STORIA DI FRATE PUCCIO

di Aldo Palazzeschi

 

FRATE PUCCIO.

 

Col viso fiorito d'un gaio sorriso,

con occhi ridenti,

il vecchio s'andava e veniva leggero

pel grande convento dei Bianchi.

Il piccolo frate con braccio robusto

portava le brocche.

S'andava e veniva ridente, giulivo,

talvolta sostava un istante a la cella,

posando le brocche a la soglia,

sostava un istante ed usciva col gaio sorriso,

più lesto s'andava, più snelle

le braccia reggevan le brocche.

 

 

 

LA STORIA.

 

Compunti i fratelli incontrandolo,

guardavan con occhio di dubbio

spiccare in quel luogo un sì fresco sorriso,

qual fiore scarlatto nel mazzo bianchissimo;

guardavan da tempo la sosta a la cella.

Là dentro era il pozzo del dolce sorriso,

non quello nel mezzo al cortile del chiostro.

Da tanto fiorito sul labro del frate,

s'andava ogni giorno

facendo più fresco e più vivo:

soverchio sorriso.

Le brocche posavano un giorno a la soglia,

la porta lasciava uno spiro di luce:

fu visto, con occhio d'orrore,

che il frate vi aveva nascosto un peccato!

Quel fresco sorriso girava impudente

per gli anditi sacri

vestendo un peccato!

La cella fu aperta, frugata, vuotata.

Nascosto fra i libri, fra i libri dei Salmi,

fu visto un fantoccio coperto di logori stracci,

di stracci dai vivi colori,

figura profana di femmina!

Soltanto una bocca che aveva baciato il peccato

poteva sorrider là dentro!

Coperte le immagini sacre di tele violette,

l'oggetto profano fu tolto e portato al giudizio

dal frate Maggiore, dal Padre.

«Sia aperto il convento,

«si lasci passare ogni gente,

«si chiamin lontani fratelli!

«Nel mezzo al cortile del chiostro

«sia fatto un gran fuoco,

«il frate peccante

«vi posi l'oggetto del grande peccato,

«rimanga tre giorni

«nel mezzo al cortile prostrato!»

A l'alba del giorno fissato,

in file infinite lasciarono i propri conventi

fratelli e sorelle lontani:

saliron silenti quel colle le file.

Nazarene bianche, Nazarene nere,

i Valpassiti, le Rocchettine, i Nazareni,

i Domiziani, le Valeriane, le Suore Vesse.

Lontani romiti salirono,

e gente di popolo anche:

infine beghine.

Schierati d' intorno al cortile del chiostro,

attesero in basso pregare i fratelli,

pregare sommesso,

spirare leggero d'un soffio di pace.

All'ora fissata,

in fila, per coppie,

entraron con testa chinata

i Bianchi del grande convento

diretti a la grande fascina

nel mezzo al cortile ammassata.

Con testa reclina a la terra,

con occhi socchiusi e languenti,

in ultimo Puccio indietro di un passo.

Il vecchio avanzava con muovere affranto;

le braccia incrociate sul petto

stringevan l'oggetto del grande peccato,

gli stracci scarlatti

spiccavan nel manto bianchissimo

siccome una macchia di sangue,

siccome una grande ferita

dischiusa nel petto del frate.

Le file dei Bianchi s'aprirono,

ognuno nel grande cortile d'intorno

prostrato, in ginocchio, pregando sommesso.

Il fuoco fu acceso.

Chinaronsi i Bianchi in due file

formando un viale di marmi.

Sol l'ultimo, Puccio, in piedi rimase.

Cricchiaron le grosse fascine

nel fondo del bianco viale,

le fiamme s'alzarono presto.

Cadente, tremante, ricurvo,

il piccolo frate si mosse.

Fra i Bianchi prostrati a la terra,

giungendo sfinito a la fiamma,

con mano stecchita,

la bambola pose nel mezzo a l'ardente fascina;

un ultimo sguardo le diede con occhio sbarrato,

e cadde, siccome fardello di cenci,

nel mezzo al cortile, vicino a la fiamma prostrato.

S'alzarono in piedi i fratelli,

rimasero infine che il fuoco fu spento.

In file infinite silènti,

con testa reclina a la terra

tornarono ai propri conventi.

 

 

 

FRATE PUCCIO.

 

Con viso emaciato, la bocca serrata,

con occhio languente,

pel grande convento dei Bianchi

il vecchio si mena stentando.

Il piccolo frate ricurvo

con braccio stecchito trascina le brocche.

Nemmeno un istante si sosta,

con muovere stanco, sfinito,

trascina le brocche pesanti.

 

(da "Lanterna", Stab. Tip. Aldino, Firenze 1907)

 


John Collier, "The Sinner"
(da questa pagina web)


 

domenica 19 marzo 2023

La poesia di Alfonso Gatto


 


Da quanto ricordo, le prime poesie che lessi di Alfonso Gatto (Salerno 1909 – Orbetello 1976), le rintracciai consultando alcuni vecchi libri scolastici; pur trovando, alcune volte, delle difficoltà nel capirne il senso, queste poesie mi piacquero, e così cominciai a cercare i suoi libri di versi negli scaffali delle librerie che più frequentavo allora. Il primo volume che comperai, s’intitola Poesie d’amore (Mondadori, Milano 1973), ed è, secondo me, anche uno dei suoi migliori. Gatto, praticamente da tutti i più illustri critici italiani, è stato definito poeta ermetico; certamente non si discute su questo, anche se, allo stesso modo in cui è stato catalogato in questa precisa tendenza o scuola poetica, coralmente si sono riscontrate delle differenze ben visibili rispetto al classico poetare, caratteristico dell’ermetismo. Per cercare di descrivere e meglio definire i versi del poeta campano, si è parlato di “surrealismo d’idillio” (Giansiro Ferrata), “esasperazione intellettuale della sensualità” (Eugenio Montale), “analogismo più dissoluto e alogico” (Pier Vincenzo Mengaldo) e altro ancora; ma, senza insistere su tali giudizi che, tra l’altro, possono appassionare soltanto gli addetti ai lavori, vorrei sottolineare un fare poetico estremamente coerente, che contraddistingue l’intera opera poetica di Gatto; infatti, dalla prima raccolta di prose e poesie intitolata Isola (1932), all’ultima, Desinenze (1977), che fu pubblicata dopo la prematura scomparsa dello scrittore salernitano, io ho notato che non esistono delle differenze particolarmente evidenti, come, per esempio, si possono facilmente identificare nelle opere di coetanei come Quasimodo, Sinisgalli, Luzi e Parronchi (altri poeti che attraversarono l’ermetismo in gioventù). Se è indiscutibile il fatto che molti versi di Gatto, spesso, risultino ostici alla lettura (specialmente se si voglia a tutti i costi trovare un significato all’interno di essi), è altrettanto indiscutibile che posseggano dei requisiti – simili a quelli della cosiddetta poesia pura – tali da renderli decisamente affascinanti; d’altra parte, come disse, tra gli altri, Giuseppe Ungaretti, una delle caratteristiche che rendono la poesia un’arte meravigliosa, è il mistero che a volte la circonda, e fa sì che il lettore s’innamori delle parole senza afferrarne completamente il significato. Chiudo questa breve disquisizione riportando i titoli di tutte le opere in versi pubblicate da Gatto (comprese alcune postume), e, dulcis in fundo, quattro tra quelle che considero le sue migliori poesie.  

 

 

Opere poetiche

 

“Isola”, Edizioni Libreria del 900, Napoli 1932.

“Morto ai paesi”, Guanda, Modena 1937.

“Poesie”, Edizioni di «Panorama», Milano 1939.

“Poesie”, Vallecchi, Firenze 1941 (2° ed. accresciuta, 1943)

“L’allodola”, Scheiwiller, Milano 1943.

“Amore della vita”, Rosa e Ballo, Milano 1944.

“La spiaggia dei poveri”, Rosa e Ballo, Milano 1944.

“Il capo sulla neve”, Milano-sera editrice, Milano 1949.

“Nuove poesie”, Mondadori, Milano 1950.

“Il sigaro di fuoco”, Bompiani, Milano 1945 (poesie per bambini).

“La forza degli occhi”, Mondadori, Milano 1954.

“La madre e la morte, Quaderni del Critone, Lecce 1960.

“Osteria flegrea”,  Mondadori, Milano 1962.

“Il vaporetto”, Nuova Accademia, Milano 1963 (poesie per bambini).

“La storia delle vittime” Mondadori, Milano 1966.

“Rime di viaggio per la terra dipinta”, Mondadori, Milano 1969.

“Poesie d’amore”, Mondadori, Milano 1973.

“Lapide 1975”, San Marco dei Giustiniani, Genova 1976.

“Desinenze”, Mondadori, Milano 1977.

“Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2005.

 

 

 

Testi

 

 

LUNA A SAN PIETRO

 

Passò sulle terrazze d'aria il bianco

silenzio della notte, estese l'ombra.

Così la luna da lontano udivo

posare appena la sua piazza e i Santi

trarre al fulgore rapido del cielo.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2005, p. 95)

 

 

 

 

ERA BEATO IL TEMPO CHE RICORDO

 

Portavi odore di campagna, il lume

sotto la casa bianca già di notte

e d'un carro lontano. Il vecchio sogno

di cui resto bambino è la tua voce

che spiega il fresco nel mio letto e il mare

mi rincalza alle spalle, contro il mento,

come una grande coperta di luna.

Sotto la loggia passavano gli anni,

da voce a voce la candida vela.

Era beato il tempo che ricordo.

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2005, p. 135)

 

 

 

 

A G.

 

La prima notte bella, tu dici.

La stagione sciolta dai freddi è già tra noi,

parole calme e passo a passo amore.

 

L'ultima luce nasce ove si spegne,

l'ultima voce col silenzio parla.

Innamorati ci dirà la tomba

solo la tomba giovane degli anni.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2005, p. 386)

 

 

 

 

PASSA NELLA GIOVENTÙ

 

Il mare affonda i suoi ricordi

passa passa nella gioventù.

 

Passa l'azzurro del mare,

stacca la ciminiera

a fondo il mare che va.

 

La morte è grande e serena.

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2005, p. 670)