domenica 18 settembre 2022

Poeti dimenticati: Giuseppe Steiner

 

Nacque ad Urbino nel 1898 e morì a Torino nel 1964. Partecipò, ancora giovanissimo, alla Prima Guerra Mondiale, uscendone mutilato. Laureatosi in Giurisprudenza, divenne avvocato per poi entrare in parlamento come deputato tra il 1929 ed il 1943. Molto presto entrò a far parte del gruppo degli scrittori futuristi; pubblicò opere poetiche in versi liberi e in disegni (stile futurista), che spiccano per la chiarezza concettuale unita ad una non comune ironia.

 

 

 

Opere poetiche

 

"La chitarra del fante", Porta, Piacenza 1920.

"Stati d'animo disegnati", Edizioni Futuriste di Poesia, Milano 1923.

"Nostalgie del profondo", Tipografia del Senato, Roma 1939.

 

 

 

Presenze in antologie

 

"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 165-166).

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 427-437).

 

 

Testi

 

LA CANZONE DEL MORTO DEL CARSO

 

Io sono il morto del Carso.

Ero naturalmente di fanteria.

Ora me ne sto in fondo a questa dolina

sotto un mucchietto di sassi.

 

E tu che passi non torcere il naso

se puzzo!

Anch'io una volta ero come te.

Fumavo la mia pipetta nera,

parlavo male del sergente

e non pensavo che dovesse toccare proprio a me.

 

(da "La chitarra del fante")

 

 

 

 

ALTRUISMO ED EGOISMO



(da “Stati d'animo disegnati”)

 

 

 

 

TENTAZIONE

 

Ho visto una Sirena,

simbolo di beltà

fallace e lusinghiera.

 

Ho pensato, ho sognato:

essere forte o buttarsi

tra le sue bianche braccia?

 

Fui virtuoso anche perché

non avrei potuto nemmeno

baciarle la mano.


(da "Nostalgie del profondo")

 

domenica 11 settembre 2022

Riviste: «La Voce»

 

La Voce è il titolo di una rivista che nacque a Firenze nel 1908, e che fu di fondamentale importanza, non soltanto nell’ambito della letteratura italiana, poiché, nelle sue pagine, si possono leggere articoli firmati da notissimi personaggi del primo Novecento, che vanno dalla politica alla filosofia, dall’economia all’arte. Tra i collaboratori della Voce, infatti, si citano i nomi di Benedetto Croce, Giuseppe Lombardo Radice, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, Ildebrando Pizzetti, Luigi Einaudi, Renato Serra ecc. Tenendo però in considerazione soltanto la letteratura, e in particolare la poesia, si può affermare che questa rivista, per gran parte del secondo decennio del Novecento, fece tendenza, e fu grazie alla Voce che si affermò il cosiddetto “frammentismo poetico”; questo possedeva, quale requisito di spicco, un espressionismo di valore e tutto italiano, ed era rappresentato da scrittori come Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Clemente Rebora, Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Dino Campana, Arturo Onofri, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Aldo Palazzeschi e Corrado Govoni (gli ultimi due già notevoli esponenti di precedenti avanguardie poetiche: crepuscolarismo e futurismo). Il primo numero della Voce, uscì il 20 dicembre del 1908; l’ultimo, fu pubblicato il 31 dicembre del 1916. La rivista fiorentina, durante la sua esistenza, attraversò diverse fasi; la prima, in cui fu diretta da Giuseppe Prezzolini, e che durò dall’anno della nascita all’ottobre del 1914, ebbe un orientamento nettamente politico; una seconda fase, brevissima e assai meno felice, perché vide l’allontanamento di due eminenti personalità come Papini e Soffici, può essere identificata nel periodo che va dal novembre 1914 al dicembre dello stesso anno. La terza ed ultima fase invece, ebbe la durata di due anni (dicembre 1914 – dicembre 1916) e fu caratterizzata dalla direzione di Giuseppe De Robertis, il quale le diede un indirizzo prettamente letterario; durante codesta fase, la rivista venne definita “Voce bianca”, in riferimento al colore della sua copertina. Parlando soltanto di poesia italiana, si può affermare che La Voce rivesta un’importanza particolare, non paragonabile ad altre riviste dell’epoca, poiché, ospitando i versi di giovani poeti dotati di un talento eccezionale, pose le basi per quella che sarebbe stata definita la “poesia pura”, e che, a sua volta, avrebbe ispirato i poeti delle successive generazioni (Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari ecc.) che furono chiamati “ermetici”.  Chiudo riportando tre testi poetici famosi, i cui autori sono rispettivamente: Umberto Saba, Corrado Govoni e Vincenzo Cardarelli; la poesia iniziale appartiene alla prima fase della rivista fiorentina, mentre le altre due fanno parte della terza.

 

 


 

 

TRE VIE

di Umberto Saba

 

C’è a Trieste una via dove mi specchio

nei lunghi giorni di chiusa tristezza:

si chiama Via del Lazzaretto Vecchio.

Tra case come ospizi antiche uguali,

à una nota, una sola, d’allegrezza:

il mare in fondo alle sue laterali.

Odorata di droghe e di catrame

dai magazzini desolati a fronte,

fa commercio di reti, di cordame

per le navi: un negozio à per insegna

una bandiera; nell’interno, volte

contro il passante, che raro le degna

d’uno sguardo, coi volti esangui e proni

sui colori di tutte le nazioni,

le lavoranti scontano la pena

della vita, innocenti prigioniere,

cuciono tetre le allegre bandiere.

 

A Trieste ove son tristezze molte,

e bellezze di cielo e di contrada,

c’è un’erta che si chiama Via del monte.

Incomincia con una sinagoga,

e termina ad un chiostro; a mezza strada

ha una cappella; indi la nera foga

della vita ammirare puoi da un prato,

e il mare con le navi e il promontorio,

e la folla e le tende del mercato.

Pure a fianco dell’erta è un camposanto

abbandonato, ove nessun mortorio

entra; non si sotterra più, per quanto

io mi ricordi; il vecchio cimitero

degli Ebrei, così caro al mio pensiero,

se vi penso ai miei vecchi, dopo tanto

penare e mercatare, là sepolti;

simili tutti d’animo e di volti.

 

Via del monte è la via dei santi affetti,

ma la via della gioia e dell’amore

è sempre Via Domenico Rossetti.

Questa verde contrada suburbana,

che perde dì per dì del suo colore,

che è sempre più città, meno campagna,

serba il fascino ancora dei suoi belli

anni, delle sue prime ville, sperse,

dei suoi radi filari d’alberelli.

Chi la passeggia in queste ultime sere

d’estate, quando tutte sono aperte

le finestre, e ciascuna è un belvedere,

dove agucchiando o leggendo si aspetta;

pensa che forse qui la sua diletta

rifiorirebbe all’antico piacere

di vivere, di amare lui, lui solo;

e a più rosea salute il suo figliolo.

 

(da «La Voce», 7 novembre 1912)

 

 

 

 

LA PRIMAVERA DEL MARE

di Corrado Govoni

 

Anche il mare ha la sua primavera:

rondini all’alba, lucciole alla sera.

Ha i suoi meravigliosi prati

di rosa e di viola

che qualcuno invisibile là falcia

e ammucchia il fieno

in cumuli di fresche nuvole.

Si perdon le correnti

come le pallide strade

tra le siepi dei venti

da cui sembra venire nella pioggia

come un amaro odore

di biancospino in fiore.

E certo nella valle più lontana

un pastore instancabil tonde

il suo gregge infinito d'onde

tanta è la lana

che viene a spumeggiare sulla riva.

Verdognolo e lillastro come l’arcobaleno

gemmeo elastico refrigerante,

d’accordo con il cielo

profondo arioso concavo specchiante

come il cristallo con il fiore,

tutto abbandoni e improvvise malinconie

come il primo amore.

Così fresco ed azzurro

come se trasparissero

dalla sua limpidità

le sue tacite foreste

sottomarine

avvinghiate di alghe serpentine

quest’edera senza foglie,

scorse dai freddi scivolii

di pesci di maiolica e d’argento

alati come uccelli muti,

tra i coralli irrigiditi

questi peschi sempre fioriti.

Son le rondini fisse le conchiglie.

E le lucciole enormi son le seppie morte,

lanterne sorde

di palombari annegati

fari di naufraghi pericolati.

Una barca con un’immensa vela

sembra qualche straccione

fermo in un crocevia sotto l’ombrello,

in attesa che passi l’acquazzone.

 

(da «La Voce», 15 marzo 1915)

 

 

 

 

RITRATTO

di Vincenzo Cardarelli

 

Esiste una bocca scolpita,

un volto d’angiolo chiaro e ambiguo,

una opulenta creatura esangue

dai denti di perla,

dal passo spedito,

esiste il suo sorriso,

aereo, dubbio, lampante,

come un indicibile evento di luce.

 

(da «La Voce», 30 giugno 1916)

 

domenica 4 settembre 2022

L'orrido nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Ereditato dai poeti scapigliati - che evidentemente avevano diversi elementi in comune coi decadenti ed i simbolisti - il gusto per l'orrido ed il macabro si manifesta in molti versi di questi poeti; alcuni di essi, come il Cavacchioli ed il Rubino, lo adottano in modo costante, in versi pubblicati nel primo decennio del Novecento. Ma è Arturo Graf il primo a seguire l'esempio di Praga, Tarchetti e sodali; il poeta ateniese lo fa in modo del tutto personale, poiché gli scheletri, i fantasmi e le numerosissime, orrende visioni che descrive nei suoi versi, assurgono a simbolo della vita, visibile nella sua totale assurdità, inutilità e terribilità. Buoni ultimi, i crepuscolari, sebbene in rare occasioni, descrivono personaggi sinistri, libidinosi e violenti, così come visioni inquietanti, con paesaggi tenebrosi o luoghi chiusi in cui domina una misteriosa atmosfera, che vorrebbe trasmettere al lettore una sensazione di angoscia o di ansia estrema.

 


Poesie sull’argomento

 

Vittoria Aganoor: "Visione" in "Nuove liriche" (1908).

Gustavo Botta: "A tregenda" in "Alcuni scritti" (1952).

Enrico Cavacchioli: "La Febbre" e "Io Saturnalia!" in "L'Incubo Velato" (1906).

Enrico Cavacchioli: "La processione grottesca", "Il diavolo" e "Lo sgomento" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Giovanni Cena: "L'edificio" in "In umbra" (1899).

Giovanni Alfredo Cesareo: "L'ultimo convegno" in "Poesie" (1912).

Sergio Corazzini: "Leone XIII" in «Marforio», luglio 1903.

Auro D'Alba: "Il furto" in "Baionette" (1915).

Italo Dalmatico: "Io levo il capo con nova fermezza" e "Il sogno" in "Juvenilia" (1903).

Giuliano Donati Pétteni: "All'orizzonte, là, nella pianura..." in "Intimità" (1926).

Guglielmo Felice Damiani: "Il pastore" in "Lira spezzata" (1912).

Adolfo De Bosis: "Rombano acque correnti entro la tenebra" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).

Riccardo Forster: "Una carogna" in "La Fiorita" (1905).

Corrado Govoni "I veleni" e "La paura" in "Gli aborti" (1907).

Arturo Graf: "Esercito" in "Medusa" (1990).

Gesualdo Manzella Frontini: "Sala anatomica" in "I Poeti Futuristi" (1912).

Enzo Marcellusi: "Crimen" in "Intensità" (1920).

Pietro Mastri: "La carogna" in "Lo specchio e la falce" (1907).

Marino Moretti: "La favola dell'orco" in "La serenata delle zanzare" (1908).

Nicola Moscardelli: "In nero" e "Naufragio" in "Abbeveratoio" (1915).

Ettore Moschino: "Il delitto" in "I Lauri" (1908).

Domenico Oliva: "Nella densa tenebra" in "Poesie" (1889).

Angiolo Orvieto: "L'ascaro mutilato" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Strani disegni sono dipinti..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Il campo dell'odio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Antonio Rubino: "Il viandante magro" in «Poesia», ottobre 1908.

Antonio Rubino: "Peste regina" in "Versi e disegni" (1911).

Domenico Tumiati: "L'invisibile" in "Liriche" (1937).

Mario Zarlatti: "Tor sanguigna" in «Gran Mondo», giugno 1908.

Giuseppe Zucca: "Brividi" in "Io" (1921).

 

 

 

Testi

 

 

ESERCITO

di Arturo Graf

 

Contro all’obliquo sol, nell’aer crasso,

Nere dall’aste pendon le bandiere;

Sottesso il ciel, silenzïose e nere,

Le falangi s’incalzano al trapasso.

 

— Compagni, avanti; accelerate il passo!

Compagni avanti; serrate le schiere!

Per monti e valli, per lande e riviere,

Procedete ordinati, a capo basso.

 

Un infinito popolo s’accalca

A noi da tergo, e migra ai regni bui,

Dove tutto sarà sconfitto e rotto.

 

A noi davanti il Capitan cavalca,

Il negro Capitan che accenna altrui

Con la scarnata man senza far motto.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 157)

 

 

 

 

IL VIANDANTE MAGRO

di Antonio Rubino

 

Grigie nel violaceo mattino

traggon le nubi ad una ridda folle:

per l'erta solitaria del colle

s'affretta un singolare pellegrino.

 

Porta una cappa di candido lino

e intorno a lui su rei càlami estolle

tasso barbasso le fetenti ampolle:

funghi immondi gl'infiorano il cammino.

 

Or sì or no l'accidia d'un vento

con un trito gridìo di spiriti egri

garrisce tra gli stecchi un suo lamento;

 

e il peplo balla tentenna e svolazza,

scoprendo l'ossa degli stinchi allegri

e l'atroce mascella, che sghignazza.

 

(da «Poesia», ottobre 1908, p. 6)



Illustrazione di Antonio Rubino, dalla pagina 80 della sua raccolta poetica: Versi e disegni, Selga, Milano MCMXI


domenica 28 agosto 2022

La poesia di Olindo Guerrini

 

Circa trent’anni fa, quando per la prima volta consultai un’antologia dedicata ai poeti italiani del XIX secolo, la mia attenzione si concentrò, tra l’altro, su alcuni versi di Olindo Guerrini (Forlì 1845 – Bologna 1916). Ciò che mi piacque di più, nelle poesie di Guerrini che tale antologia riportava, erano determinate atmosfere, assai vicine a quelle che, alcuni decenni dopo, avrebbero caratterizzato la poesia dei crepuscolari. Ma Guerrini non fu soltanto un precursore del crepuscolarismo: la sua poesia – e in particolare la sua prima raccolta – rappresentò qualcosa di inaspettato e di scandaloso nel panorama della letteratura italiana del secondo Ottocento. Postuma (questo il titolo della raccolta d'esordio) infatti, fu attribuita ad un amico del poeta: Lorenzo Stecchetti, morto di tisi a soli trent’anni; soltanto in seguito si seppe che il vero autore di tali versi era il poeta emiliano, che per questo fu accusato ferocemente da alcuni critici di amoralità e blasfemia. In verità, a leggerlo oggi, tale volumetto (così come l’intera opera in versi di Guerrini) non suscita alcuna reazione scandalistica o cose del genere. Sono versi che in Italia, evidentemente, non erano mai comparsi fino ad allora, e che in parte si rifacevano a quelli dei poeti maledetti francesi (in particolare a Baudelaire). Guerrini, che visse sempre un’esistenza assai tranquilla, svolgendo l’attività d’impiegato e di bibliotecario nel capoluogo emiliano, non può essere paragonato ai migliori poeti stranieri che vissero ed operarono in quel preciso periodo storico; la sua poesia possiede ben diverse caratteristiche, vicine alla satira e, magari, in certi casi anche all’erotismo; ma il “maledettismo” è qualcosa che non gli appartiene assolutamente. Il poeta forlivese fu inserito, dai critici del suo tempo, tra i cosiddetti realisti (gruppo che comprende anche altri discreti poeti italiani come Mario Rapisardi e Felice Cavallotti). Nel cospicuo volume intitolato Le Rime di Lorenzo Stecchetti, pubblicato nel 1903, il Guerrini chiude definitivamente la sua carriera poetica, tornando ad usare il suo primo pseudonimo (ne usò anche degli altri), e riunendo tutta la sua migliore produzione in versi che, ripeto, ha quale migliore qualità, la presenza di atmosfere malinconiche anticipatrici della poesia crepuscolare. Chiudo riportando un elenco delle opere poetiche di Olindo Guerrini, seguito da tre poesie tratte da una ristampa delle Rime.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

“Postuma” (di Lorenzo Stecchetti), Zanichelli, Bologna 1877.

“Polemica” (di Lorenzo Stecchetti), Zanichelli, Bologna 1878.

“Nova polemica”, Zanichelli, Bologna 1879.

“Giobbe” (con Corrado Ricci), Treves, Milano 1882.

“Rime” (di Argia Sbolenfi), Monti, Bologna 1897.

“Le Rime” (di Lorenzo Stecchetti), Zanichelli, Bologna 1903.

 

 

Piatto anteriore di una ristampa de "Le Rime di Lorenzo Stecchetti"

 

 

Testi

 

 

 

QUANDO CADRAN LE FOGLIE E TU VERRAI

 

Quando cadran le foglie e tu verrai

A cercar la mia croce in camposanto,

In un cantuccio la ritroverai

E molti fior le saran nati accanto.

 

Cògli allora pe' tuoi biondi capelli

I fiori nati dal mio cor. Son quelli

 

I canti che pensai ma che non scrissi,

Le parole d'amor che non ti dissi.

 

(da “Le Rime di Lorenzo Stecchetti”, Zanichelli, Bologna, p. 32)

 

 

 

 

QUANDO SCROSCIA LA PIOVA E FISCHIA IL VENTO

 

Quando scroscia la piova e fischia il vento

E nella notte latra la tempesta,

Se dal freddo origlier levo la testa

Chiamarmi da lontano un urlo sento;

 

E sui cubiti allor pien di spavento

Mi levo, ascolto e il respirar s'arresta...

Ahi, la conosco, la conosco questa

Implacabile voce di lamento!

 

Eppur nella città dorme ogni cosa,

Eppur l'eterno oblio l'ossa conforta

Sotto le pietre bianche alla Certosa.

 

Sola tu, sola tu, dietro la porta

Del monumento tuo vegli gelosa

E mi chiami e mi vuoi, povera morta.

 

(da “Le Rime di Lorenzo Stecchetti”, Zanichelli, Bologna, p. 114)

 

 

 

 

PREGHIERA DELLA SERA

 

De' miei semplici padri antico Iddio,

      Se vana ombra non sei,

Dio di mia madre in cui fanciullo, anch'io

      Innocente credei;

 

Se pur tu scruti col pensiero augusto

      De' nostri cori il fondo,

Se menzogna non è che tu sia giusto

      Con chi fu giusto al mondo,

 

Guarda: dell'agonia patir gli orrori

      Ogni giorno mi tocca:

Guarda l'anima mia di che dolori

      E di che fiel trabocca!

 

Abbrevia tu, se puoi, le maledette

      Ore del mio soffrire,

Avventami, mio Dio, le tue saette:

      Mio Dio, fammi morire!

 

(da “Le Rime di Lorenzo Stecchetti”, Zanichelli, Bologna, p. 137)