domenica 22 maggio 2022

Poeti dimenticati: Renato Mucci

 

Nacque a Roma nel 1893 e morì nel 1976. Dopo la laurea in Giurisprudenza, svolse diverse attività lavorative; ricoprì incarichi prestigiosi nell'ambito dell'amministrazione e fu segretario particolare del ministro Giuseppe Bottai. Si interessò alla letteratura e pubblicò, oltre a due volumi poetici, diverse traduzioni di opere di famosi scrittori francesi; è anche autore di due testi teatrali. Come poeta, esordì nel 1925, con un volume di prose liriche, a cui seguì, ben tredici anni dopo, un esile libro di versi, che di fatto concluse la sua carriera poetica. Inizialmente influenzato dalle tematiche del decadentismo e del frammentismo vociano, Mucci si trasformò in un poeta assai più misurato, che, in parte, mostra una vicinanza alla poetica di Umberto Saba; inoltre i suoi versi si distinguono per una percepibile essenzialità unita ad una limpidezza d'immagini e di pensieri che è raro ritrovare in altri poeti del suo tempo.

 

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Natura morta", Gobetti, Torino 1925.

"Poesie", Edizioni del Cavallino, Venezia 1938.

 

 


 

 

 

Presenze in antologie

 

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. V, pp. 104-106).

 

 

 

 

Testi

 

 

SOGNO DI CASA MIA

 

  Se non proprio a mezzanotte, certo verso quell'ora, i sogni dei miei parenti fuggono a frotte dalle fronti posate sui cuscini e vagano attraverso il ronzante silenzio delle stanze abbandonate.

  Povere stanze buie, che rimanete estatiche, quasi gelate ore ed ore, per mettermi paura con le apparizioni incantate degli armadi, solenni e sacerdotali, dei tavoli, pronti a qualsiasi impossibile giro, delle sedie, sempre comiche e complicate!

  Come se non vi conoscessi, come se potesse intimorirmi la vostra statuaria impassibilità o i vani vostri scricchiolii che nel fondo cupo, sembrano interrompere ed illuminare l'oscurità, rubando il mestiere alle lucciole! Guardate, piuttosto, anche voi i sogni dei miei parenti: da sotto le porte delle camere da letto eccoli infatti sgusciare ad uno ad uno.

 

(da "Natura morta")

 

 

 

 

CANTO SPIRITUALE

 

Il tempo non abitua

A questa dura prigionia del corpo!

 

Solo nel sonno liberat me Dominus.

 

È allora che dal fianco mi spicco

E sul madido sudario

Sorridendo abbandono

La tramortita spoglia.

 

Nei prati d'asfòdelo

Mansueti brucavano liocorni.

 

Ma quando fra le tempie ricongiunte

Folgora crudo il risveglio,

Dentro la cella di calce e di sangue

Torno a ridurmi cattivo.

 

Servo, diffido, osservo.

E guardo al fianco, in attesa

Dell'ultimo volo.

 

(da “Poesie”)

 

 

domenica 15 maggio 2022

"Il passero e il lebbroso" di Leonardo Sinisgalli

 

Il passero e il lebbroso è il titolo di una raccolta poetica di Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908 - Roma 1981), uscita nel 1970 grazie alla Mondadori di Milano. Questo libro rappresenta una definitiva svolta della poetica sinisgalliana; lo scrittore lucano, infatti, iniziò da qui un percorso che non mutò fino all'ultima raccolta, caratterizzato da un'ulteriore scarnificazione del testo poetico, che ha, come naturale conseguenza, la netta prevalenza di epigrammi su ogni altro tipo di componimento in versi. Il passero e il lebbroso, è un libro di 115 pagine, in cui si possono leggere 81 poesie, divise in sei sezioni senza titolo. 

Analizzando questi versi si nota che la prima sezione si differenzia dalle altre per la maggior presenza di poesie brevissime (per lo più di due o tre versi); nelle successive invece, è facile ritrovare il poeta arguto e fantasioso della raccolta immediatamente precedente: L’età della luna. Nei versi di alcune liriche, Sinisgalli cita alcuni personaggi del mondo della cultura, contemporanei e non, tra i quali spicca quello del collega Eugenio Montale, che, in modo sagace e divertente, viene additato da Sinisgalli quale suo imitatore (il riferimento è, ovviamente, alle raccolte che il poeta ligure pubblicò durante gli anni sessanta del XX secolo). Personalmente ritengo Il passero e il lebbroso un bel libro, probabilmente sottostimato, così come lo sono altri dell'ingegnere lucano. Mi meraviglio del fatto che molti critici concentrino la loro attenzione soltanto sulle prime raccolte di Sinisgalli, poiché rilevo un livello alto nell'intera sua opera poetica, che va da 18 poesie (1936) a Dimenticatoio (1978). La recente uscita di un volume che finalmente riunisce tutti i versi di Sinisgalli, dà la possibilità ai lettori di verificare in modo semplice questa costanza di livello, e anche di far percepire sia la capacità di sintesi che la genialità del poeta di Montemurro, il quale va considerato come uno dei migliori in assoluto del Novecento. Chiudo riportando cinque poesie presenti in Il passero e il lebbroso.

 

 

 


 

 

LA DISTANZA

 

Ogni anno muta la distanza

tra le cose che stanno d’intorno

anche se io resto inchiodato,

anche se le cose sono inanimate.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 23)

 

 

 

 

AURORA

 

Mi sveglio in un bagno di sudore,

mi chiama da lontano

una vocina trafelata

proprio in cima all'aurora.

Che speri, che aspetti,

chi ti tiene legato?

Vieni a stenderti al mio lato,

è fresco buio ventilato.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 37)

 

 

 

 

CERCHI CONCENTRICI

 

I vicini hanno messo a guardia

cani furenti.

Non vado oltre i mucchi di pietre.

Ripiego nei miei confini.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 39)

 

 

 

 

UNO SPICCHIO DI PERA

 

Raramente mia madre

buttava via una pera fradicia.

Riusciva sempre col suo coltelluccio

che aveva la punta ricurva

e serviva a scappucciare le orecchiette

a salvarne almeno uno spicchio.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 49)

 

 

 

 

TRIANGOLAZIONI

 

Va in cerca di poesia come di funghi.

Ama i luoghi più delle persone,

ma fa lunghi

sproloqui con gli straccivendoli.

 

(da "Il passero e il lebbroso", Mondadori, Milano 1970, p. 85)

 

domenica 8 maggio 2022

Le opere pittoriche nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Non è difficile rintracciare, in alcune poesie dei decadenti e dei simbolisti, le ispirazioni procurate dall'osservazione di quadri famosi o meno, i cui autori sono in genere pittori molto vicini alla corrente simbolista; così nascono ad esempio alcuni sonetti del Camerana riferiti all'inquietante tela di Arnold Böcklin: L'isola dei morti, un capolavoro del simbolismo pittorico; la stessa cosa può dirsi a riguardo della tela di Segantini: L'Amore alla fonte della vita, da cui scaturisce una lirica di Angiolo Orvieto che porta il medesimo titolo. A seconda del tema o del protagonista della tela, si sviluppa la simbologia dei versi che la descrivono: una donna particolarmente affascinante, un paesaggio di rara bellezza, una abitazione misteriosa ecc. Da ricordare che il simbolismo (più che il decadentismo) trovò la sua migliore espressività proprio nella pittura, grazie ad artisti geniali come Böcklin, Moreau, Gaugin, Segantini, Munch e tanti altri.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Vittoria Aganoor: "Vecchio organista" in "Nuove liriche" (1908).

Vittoria Aganoor: "Prima luce" in "Poesie complete" (1912).

Diego Angeli: "Donna Lucrezia" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Giovanni Camerana: "Corot" e "Ad Arnoldo Böcklin" in "Poesie" (1968).

Gabriele D'Annunzio: "Psiche giacente" e "La donna del sarcofago" in "Poema paradisiaco" (1893).

Cosimo Giorgieri Contri: "Confidenze" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Corrado Govoni: "Prerafaelitica" in "Le Fiale" (1903).

Guido Gozzano: "Im Spiele der Wellen" in "Poesie e prose" (1961).

Gian Pietro Lucini: "Sopra di un «Disegno macabro e bacchico»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).

Arturo Onofri: "Gioconda" in «Lirica», giugno 1912.

Angiolo Orvieto: "L'Amore alla fonte della vita" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "Il dittico a mezze scale" in "Poemi" (1909).

Emanuele Sella: "Primavera" in "Monteluce" (1909).

Domenico Tumiati: "Il paese delle tre capanne", "Mura deserte" e "Aratura" in "Musica antica per chitarra" (1897).

 

 

 

 

Testi

 

IM SPIELE DER WELLEN

di Guido Gozzano

 

Tra le sirene che Boecklin gittava

nel fremito dell'onde verdazzurre

una ne manca, appena adolescente,

agile più di tutte e la più bella.

 

Poiché non quella che supina ascolta

il Tritone soffiare nella conca,

non quella che si gode la bonaccia

con tre scherzosi albàtri affaticati,

 

e non quelle che fuggono al Centauro,

l'una presa alle chiome, l'altra emersa

con volto sorridente, l'altra immersa

col busto, eretta con le gambe snelle:

 

non tutte quelle vincono la grazia

appena adolescente che abbandona

il mare caro al grande basilese,

il mare Azzurro per il mare Grigio!

 

E al mare nostro più non resta viva

che l'immagine fatta di memoria,

svelta nel solco dove più ribolle

la spuma e dove l'onda è tutta gemme!

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993)

 

 

 

 

L'AMORE ALLA FONTE DELLA VITA

(QUADRO DI G. SEGANTINI)

di Angiolo Orvieto

 

Non ti compiaci, o giovinetto Aprile,

dell'opera leggiadra? Assai gentile

coppia è questa che vien fra l'erbe e i fiori

teneri, tra gli odori

leggeri, fra i colori

indefinitamente delicati.

 

Procedon essi uniti ed irrorati

di giovinezza, spirano, beati,

l'aure vitali del mattin fragrante

fra le gemmate piante;

ed ogni nuovo istante

concede una letizia a lor novella.

 

Ella è pudica come una sorella,

ma il cuore, il cuore dentro le martella;

ei ferve come il mare, ma non osa

ancor di desiosa

stretta avvincer la sposa,

che lo segue alla fonte della vita.

 

La fonte è presso ed è tutta fiorita;

immerge in essa un Angelo le dita.

Quell'acqua fresca, dolce e cristallina,

nell'aria mattutina

per il mondo declina

a irrorarlo di sua grazia infinita.

 

(da "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya", Treves, Milano 1898)



Giovanni Segantini, "L'Amore alla Fonte della Vita"
(da questa pagina web)


domenica 1 maggio 2022

La poesia di Giuseppe Ungaretti

 

Se non ricordo male, anche Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto 1888 - Milano 1970) è uno di quei grandissimi poeti che non conobbi sui banchi scolastici, ma a seguito di un mio interessamento personale; la sua presenza, nei libri di testo delle scuole di allora (circa quarant'anni fa), era costante; sfogliarne uno, e trovarvi quelle sue brevissime poesie come Mattina - due versi che si compongono di sole due parole - m'incuriosiva, come penso avrà incuriosito chissà quanti studenti. Fu proprio leggendo le poesie di Ungaretti trovate nelle pagine dei libri di scuola, che il mio interesse verso la sua tormentata vita e verso la sua opera letteraria crebbe. Ricordo bene che, uno dei primissimi libri di versi da me comperati (ad un prezzo particolarmente basso) circa trenta anni or sono, conteneva una scelta delle poesie ungarettiane. Quanto all'autore, per i pochissimi che non lo conoscessero o non sapessero molto di lui, dico che è stato uno dei migliori poeti italiani ed europei del XX secolo. Le brevissime poesie - e in particolare i versi ridotti all'osso della sua fase poetica iniziale (che può essere circoscritta, all'incirca negli anni compresi tra il 1914 ed il 1919) - rappresentano qualcosa di unico nel panorama letterario mondiale; parlo, ovviamente, delle liriche scritte durante la Grande Guerra - evento bellico al quale il poeta partecipò -, che raccontano in modo sintetico ma ineccepibile, le sensazioni tremende di un soldato di trincea, costretto a vivere delle situazioni di estrema violenza; Ungaretti, in queste poesie parla della sua precarietà, del suo dolore nel veder morire i compagni di sventura e non poter fare nulla per impedirlo, della sua ricerca disperata di un'altra vita: lontana anni luce dall'inferno in cui si trova; insomma racconta come hanno saputo fare pochissimi, cosa significhi partecipare direttamente ad una guerra. Successiva a questa fase - che, ripeto, è la più interessante della produzione in versi di Ungaretti - ve n'è un'altra in cui il poeta torna sui propri passi, abbandonando, anche se solo in parte, quello sperimentalismo iniziale così sconvolgente; le ulteriori fasi della poesia ungarettiana non si discostano da quest'ultima, e vedono il poeta, sempre più anziano, esternare la propria sofferenza nata a seguito dei gravi lutti familiari che lo colpirono; inoltre Ungaretti, più distaccato e meditativo rispetto agli anni addietro, riflette sul senso della vita e della morte, includendo considerazioni e pensieri riguardanti l'umanità, la violenza, il tempo, lo spazio ecc. Ma, come ho già detto, per me il migliore Ungaretti è quello dei celebri "versicoli"; per tale motivo, ho deciso di chiudere questo mio post con tre pietre miliari della poesia di tutti i tempi, che Ungaretti scrisse durante la Prima Guerra Mondiale, e che certamente i lettori di poesia già conoscono; le trascrivo da quel vecchio libro di cui ho parlato all'inizio.

 

 


 

 

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

 

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

 

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

 

La morte

si sconta

vivendo

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 58)

 

 

 

 

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916

 

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca

 

È il mio cuore

il paese più straziato

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 65)

 

 

 

 

NATALE

Napoli il 26 dicembre 1916

 

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

 

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

 

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

 

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

 

Sto

con le quattro

capriole

di fumo

del focolare

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 74)

 

lunedì 25 aprile 2022

Due poesie sugli orrori della guerra

 

Nell’occasione del 25 aprile di questo tragico anno, offro, a chi voglia leggerle, due brevi poesie che parlano della 2° Guerra Mondiale. La prima, di Giacomo Prampolini (Milano 1898 – Pisa 1975), mette in evidenza un paesaggio desolato e devastato dalla guerra, in cui si respira un’atmosfera di morte e distruzione, tipica dei luoghi in cui si è verificato un conflitto bellico. La seconda, di Elena Bono (Sonnino 1921 – Lavagna 2014), si sofferma brevemente sulle peggiori atrocità che possono facilmente accadere durante una guerra, che si concretizzano in esecuzioni sommarie, spietate, motivate soltanto da un odio estremo, e incomprensibile per chi è fuori da quel maledetto contesto, dove la ragionevolezza non trova spazio alcuno. Sperando in un futuro migliore di questo presente sempre più preoccupante, auguro a tutti un buon 25 aprile.

 

 

 

DUE POESIE SUGLI ORRORI DELLA GUERRA

 

 

I PONTI…

di Giacomo Prampolini

 

I ponti

distrutti…

rotte le braccia

da riva a riva,

oppressi i greti.

I ponti

colmati -

là sono morte

le onde

che il mare mandava.

Pesanti

passarono

i barbari -

ora sappiamo

che erano ciechi

più della morte.

 

(da "Molte stagioni", Mondadori, Milano 1962, p. 109)

 

 

 

 

RAPPRESAGLIA

di Elena Bono

 

Ci sono dieci morti sulla strada.

Il prete non li può benedire,

le loro madri non li possono lavare.

Stasera in ogni casa si prega per loro,

ogni madre li piange come figli.

 

(da "Poesie. Opera omnia", Le Mani, Recco-Genova 2007, p. 272)

 


Paul Nash, "We are Making a New World"
(da questa pagina web)


sabato 23 aprile 2022

Un solo profumo di rosa

 

Un solo profumo di rosa

in calda atmosfera veloce,

beato di sé, si riposa,

nell’ombra che ha forma di croce.

 

È solo un profumo: è sospiro

di farsi bontà volontaria,

che induce a color di zaffiro

il nimbo di sole dell’aria.

 

La terra solleva dall’ombra,

con braccia d’eterno avvenire,

il duro dolor che la ingombra,

sognando altri cieli fiorire.

 

E ignara ogni vita si sposa,

dall’ombra che ha forma di croce,

a un cielo che odora di rosa,

in calda atmosfera veloce.

 

 


 

COMMENTO

 

La poesia senza titolo che ho trascritto qui sopra, è la numero 82 della raccolta di Arturo Onofri (Roma 1885 – ivi 1928) intitolata Terrestrità del sole; pubblicata nel 1927 presso l’editore Vallecchi di Firenze, rappresenta una definitiva svolta nel percorso poetico dello scrittore romano. Ad essa seguiranno altre, assai simili raccolte – alcune delle quali uscite quando Onofri era già scomparso – che presentano, come particolarità principale, la scelta esclusiva di una poesia filosofica, molto legata alle teorie di Rudolf Steiner (1861-1925), il quale sosteneva che nel continuo trasformarsi dell’universo e della natura terrestre, si manifesta la presenza di Dio. La poesia riportata, si trova alla pagina 137 del suddetto libro, che ora è possibile leggere, insieme alla successiva raccolta Vincere il drago! (1928), in una edizione anastatica, pubblicata nel 1998 da La Finestra Editrice di Trento. Il contenuto mostra diverse simbologie; in primo piano ci sono la rosa (ovvero l’amore), che qui non si percepisce visivamente, ma in modo olfattivo, e la croce (ossia il dolore e, nello stesso tempo, la cristianità); anche quest’ultima non è direttamente visibile, ma la sua presenza è evidenziata dall’ombra che copre la rosa (o meglio, il suo profumo). Amore e dolore cristiano, divengono pura energia, spinta a fare del bene; grazie alla potenza di questa unione, anche il disco luminoso del sole si trasforma, divenendo simile ad un zaffiro (minerale di colore azzurro), e, quindi, confondendosi col cielo. Nella terza quartina della poesia, la terra prende vita, e solleva dall’ombra (della croce) il dolore duro e pesante che la occupa, rendendolo quindi più sopportabile; infine, la terra stessa, divenuta anche essere pensante, s'immagina (sogna) l’esistenza di altri cieli, fioriti in un non ben identificato luogo, in cui, proprio grazie alla forza dell’amore cristiano, non esiste alcun genere di dolore. Non facile risulta l’interpretazione dell’ultima quartina, in cui il poeta sembra vedere una unione inconsapevole ma sicura, tra gli esseri viventi della terra ed il cielo (ovvero l’ultraterreno) che ha assorbito e fatto suo il profumo della rosa (ossia l’amore e la bontà), e che si sostanzia in uno slancio verso il bene universale.