domenica 31 gennaio 2021

Il cielo in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Com'è bello quel colore azzurro che si vede alzando gli occhi in certe giornate serene, limpide, poco prima dell'estate! E ancor più bello appare se popolato da rondini e se qua e là si nota una piccola nuvola bianca; in realtà quel bel colore che noi tutti possiamo ammirare, è soltanto un'illusione ottica, dovuta all'interazione dei raggi del sole con l'atmosfera terrestre. Pur sapendo questa inoppugnabile verità, guardare il cielo ci fa comunque piacere, e non ci stancheremmo mai di farlo; e ancor più piacevole è sognare che, superata la volta celeste, esista un paradiso dove poter ritrovare, terminata l'esistenza, tutte le anime dei nostri cari che non sono già più. Queste dieci poesie sono dedicate al cielo o all'azzurro, come viene definito da qualche poeta qui presente. Tra di esse, ritorna maggiormente il tema della fanciullezza; e, a tal proposito, anch'io ricordo che quand'ero bambino spesso guardavo il cielo, e il vederlo sereno già mi era sufficiente per provare un senso di felicità inspiegabile, che mai più negli anni è ricomparso. Per il resto, ci sono versi che si limitano a ringraziare Dio per aver creato il cielo ed altri meravigliosi spettacoli; chi vede nel cielo qualcosa che somiglia ad esseri umani vissuti nel passato; chi cerca il suo personale e inarrivabile cielo; chi si limita a godersi la visone dell'azzurro e di tutto il resto che lo circonda; chi è affascinato e incantato dal cielo notturno; chi preferisce sottrarsi alla vista di uno spazio talmente vasto da incutere timore e chi, infine, si lamenta per il fatto incontestabile che gli uomini, nelle città, hanno costruito una serie di edifici talmente alti da impedire la visione del cielo.

 

 

 

 

IL CIELO UMANAMENTE SI COLORA

di Giulio Arcangioli (Firenze 1881 - Viareggio 1943)

 

Il cielo umanamente si colora.

I monti hanno, come le viole,

la forma mortuaria del viso.

 

(da "I semidei", Giardini Editori e Stampatori, Pisa 1974, p. 106)

 

 

 


L'AZZURRO

di Carlo Betocchi (Torino 1899 - Bordighera 1986)

 

Noi non abbiamo che mura,

per ascendere, e gronde di tetti

per limitare, dalla oscura

linea fitta di bocche d'embrici:

 

perciò requie chiediamo all'azzurro

che ci infesta con messi di rondini;

perciò ci ascoltiamo nell'urlo

opaco delle ciminiere... Son giorni,

 

son anni, secoli di negrore

per l'uomo che ha eretto lentamente

il tugurio, impastato il sudore

con la polvere, finché la mente

 

splendesse più alta. Sola

una mètope bruna, lassù, un architrave

si fende: ma viene in una gola

tesa la linea di un canto soave.

 

Pur non abbiamo pace: l'azzurro

è più forte, e profonde l'anima

in un'inesauribile energia

di tristezza. Una madre, al sussurro

 

che ne deriva per l'etere

ha steso le sue bianche bende,

alta, sospesa nell'essere

che si ignora, e non chiede più nulla.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 146-147)

 

 

 

 

NON C'È SOLE NÉ PIOGGIA...

di Vittorio Bodini (Bari 1914 - Roma 1970)

 

Non c'è sole né pioggia: il cielo è bianco

ed una strada volta chissà dove.

 

Neri sotto gli ombrelli neri stanno

due contadini seduti in fondo a un campo

per sottrarsi alla vista di tanto cielo.

 

(da "Tutte le poesie", Besa, Lecce 1997, p. 193)

 

 

 

 

CIELO DI SERA

di Idilio Dell'Era (Chiusi 1904 - Manziana 1988)

 

Cielo di sera illuminato,

io più di ogni altro ti amo,

incendio d'oro sul prato

e s'indeserta l'albero

e l'uccellin sul ramo.

 

Cielo di sera, segnami

il tuo morire in fronte,

di un'altra età son io

il figlio trascurato

né più il domani è mio.

 

(da "Cielo di sera", IPL, Milano 1983, p. 11)

 

 

 

 

AZZURRA

di Oreste Ferrari (Bezzecca 1890 - Bellinzona 1962)

 

Gli alti pini salgono in rade schiere

fino in cima al monte, nel cielo; al vento

palpitano con luccichìi d'argento

e ombre leggere.

 

Mastico una foglia di menta acerba,

steso nel tepore biondo del sole,

steso in una verde frescura di erba

e di parole:

 

parole di grilli, di api e di uccelli,

che fioriscono lievi nelle illese

trasparenze e cullano i pini snelli

in lente ascese.

 

Godo il sole caldo; bevo la luce,

l'aria e il canto di questa ora presente

ch'è sempre stata, che si riproduce

perennemente.

 

E tutto aderisce a me, come il dono

trepido dell'aria: umano e terrestre,

m'immergo nel verde: m'incielo, e sono

tutto cilestre.

 

I morti si avvolgono nelle loro

fantasmagorie colore di cielo;

sole emergon dal favoloso velo

le cime d'oro.

 

Canto, e mi dileguo in questo stupore

eterno, in questa pienezza terrestre:

e tutta arde con me, nel mio splendore,

l'anima alpestre.

 

(da "Poesie", Tallone, Parigi 1956, pp. 17-18)

 

 

 

 

SCALATA AL CIELO

di Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo 1913 - Trieste 1981)

 

Alta, lassù, è la celeste volta

dove brillano fiori (e sono mondi!),

vagano ombre in affannosi tempi.

 

Misteriosa la voce che mi chiama

a salire. Scalata senza fine.

Aspra ed ansiosa. Invano cerco il mio

cielo (come lontano!) ed ho perduto

la terra. Invano chiamo tra quei mondi

spersi. Sola, senz'eco, la mia voce

nei profondi silenzi della notte.

 

(da "Scalata al cielo", Ausonia, Siena 1948, p. 27)

 

 

 

 

 

CIELO

di Giulio Gianelli (Torino 1879 - Roma 1914)

 

                                                                  Ad Angelo S. Novaro

 

Nel floreale cielo del vespero

v'ha un'esistenza d'aeree cose:

                         tra lini e rose

vestizioni di bimbe e spose

che mentre io guardo sfumano già.

 

Non v'è più terra non v'è più uomini,

per me: soltanto quella fiorita...

                         Ah la mia vita,

Così sognata, così vanita

ne l'infantile serenità!

 

(da "Intimi vangeli", Streglio, Torino-Genova 1908, p. 20)

 

 

 

 

IL CIELO

di Oreste Marchesi (Copparo 1894 - ivi 1949)

 

quello sì è un re!

ci condanna - ci esalta

           - ci premia

e ci fa vedere leoni

pesci-uccelli-monti

mari e cannoni

luminosi gingilli-frittate

           e meloni

c'è di tutto su quel palcoscenico

uomini - donne ignude

... e senza tremito

 

c'è luce anche di notte

 

orchestra a forti timpani

e grandi fuochi d'artificio

che ti portano in casa

senza sacrificio l'umanità.

 

(da "I poeti del Futurismo 1909-1944", Longanesi, Milano 1978, p. 549)

 

 

 

 

CIELO RIAPERTO

di Agostino Richelmy (Torino 1900 - Collegno 1991)

 

E mai saprò quei tramiti del bosco

inventati da lepri fuggitive,

né i ruscelli che maggio riavvia...

ché ancora il paradiso non conosco;

ma il ridisceso dalla croce Iddio

accolto sui ginocchi dalla Madre,

e il Cielo riaperto eran le immagini

che irraggiavano infanzia e fanciullezza.

 

(da "Poesie", Garzanti, Milano, 1992, p. 194)

 

 

 

 

PER IL CIELO

di David Maria Turoldo (Coderno 1916 - Milano 1992)

 

Per il cielo e per il mare

per la rena tutta di oro

nel barbaglio della luce:

un tappeto tutto oro

ai piedi della Vergine:

 

per queste onde e questa luce

ti rendo grazie, Signore.

 

(da "Il grande male", Mondadori, Milano 1987, p. 71)

 

 

 

 

"Journey to the sky", The Kosova National Art Gallery
(da questa pagina web)

 

domenica 24 gennaio 2021

Le ninfe nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Le ninfe sono, nella mitologia classica, delle divinità in forma di giovani donne, che amano sostare o abitare presso fonti, corsi d'acqua o laghi. Collegate alle ninfe sono le piante acquatiche dette ninfee; secondo una leggenda - anch'essa riconducibile alla mitologia - una ninfa fu tramutata in questo fiore a causa della eccessiva gelosia che provava nei confronti di Ercole (da qui il nome). I poeti italiani decadenti e simbolisti furono attirati da queste figure mitologiche senza dubbio affascinanti e misteriose, e le inserirono nei loro versi, sia da protagoniste, sia accomunate ad altre divinità. Per quel che concerne la simbologia, le ninfe molto spesso hanno a che vedere con la bellezza irraggiungibile e con l'amore non corrisposto. Andando ad analizzare brevemente alcune poesie che le pongono in risalto, e partendo dalla seconda metà dell'Ottocento, nei versi di Arturo Graf la ninfea diviene quasi una chimera, trovandosi nelle prossimità della cima di un monte, all'interno di una foresta e nei pressi di una sorgente; totalmente svestita e bellissima, essa rappresenta per il poeta "un sogno d'amor vivo e fiorente, / che al radiar d'una suprema idea / nel sen di virginale alma si chiuda". Gabriele D'Annunzio nel Poema paradisiaco inserisce due sonetti dedicati alle ninfe: La Napea e La Naiade; la prima è una ninfa dei boschi, e il poeta abruzzese la pone all'interno di un ambiente collinare, a pochi passi dal mare, avvolto in un fitto mistero; la seconda, che è una ninfa delle acque, vive invece in una sorta di limbo, all'interno di un luogo in cui, tanti e tanti anni prima, si svolsero riti erotici di cui ancora rimangono alcuni indizi; qui, la evanescente presenza della ninfa, si manifesta tramite rumori insoliti, che riconducono il pensiero ai tempi memorabili in cui quel luogo ora desolato era al centro di convegni amorosi. Passando al Novecento, il discorso cambia poco; ci sono poeti come Vincenzo Fago che mettono in risalto il lato erotico delle dee, osservandole mentre, completamente nude, s'immergono nelle acque di un lago, scatenando nel poeta un immenso desiderio; ci sono invece poeti come Diego Garoglio che le descrivono in tutt'altro modo: marmoree e sognanti, praticamente imprigionate nel luogo dove sono state poste, esse sono simili all'anima triste del poeta, che è impossibilitato, come loro, a realizzare i suoi celestiali sogni.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "Le ninfe, il satiro e il poeta" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Edoardo Giacomo Boner: "Sogno" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Enrico Annibale Butti: "Amor novo" in «Cronaca d'Arte», 26 luglio 1891.

Gabriele D'Annunzio: "La Napea" e "La Naiade" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuseppe De Paoli: "L'attesa" in "Il sistro d'oro" (1909).

G. A. Fabris: "Apollo" in «Hermes», 1905-1906.

Vincenzo Fago: "Il bagno d'Egle" in "Discordanze" (1905).

Diego Garoglio: "La ninfa" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Arturo Graf: "Ninfea" in "Medusa" (1890).

Arturo Graf: "Le ninfe di marmo" in "Le Danaidi" (1905).

Ettore Magni: "Fasi lunari" in "Canti nomadi" (1908).

Enrico Panzacchi: "Mitologia" in "Poesie" (1908).

Fausto Salvatori: "La Ninfa" in "La Terra promessa" (1907).

Luigi Siciliani: "Eco" in "Sogni pagani" (1906).

Cesare Giulio Viola: "Lo statere" in «La Democrazia», 20 ottobre 1905.

 

 

 

Testi

 

LA NAPEA

di Gabriele D'Annunzio

 

Lentamente dai cieli il Giorno inclina

come stanco dei troppo lungo ardore,

acceso avendo l'intimo sapore

in quei frutti che sola una divina

mano dai rami penduli ne l'ore

notturne coglierà, su la collina

irrigata, di quasi feminina

forma, ove dura un qualche antico amore.

 

Lentamente la curva ombra si stende

giù pe 'l declivo; e giunge, d'orto in orto,

insino a un golfo che de' raggi estremi

ampio e falcato in lontananza splende:

ove già fu, nel tempo antico, un porto

che forse contenea mille triremi.

 

(da "Poema paradisiaco")

 

 

 

 

ECO

di Luigi Siciliani

 

Fui bella. Per i boschi esercitati

dal mio piede veloce e per i campi

udivo il mormorio de' freschi fonti,

il più leggero scorrere dell'acque;

ogni canto d'alati, ogni susurro

di venti leni o grido di tempesta

coglievo; mi era noto ogni recesso,

ogni grotta, ove giungono ansimanti

l'agili cerve rapide, seguite

dall'ululato cupido dei cani.

A me tesero acquati indarno i fauni

d'orecchio aguzzo e piede bipartito:

fui ebbra della dolce libertà.

 

Un giorno io mossi verso la pianura

coperta dalla lunga ombra dei colli;

mi tremava sul capo una ghirlanda

d'edera sempre verde e di ciclami

tolti dal bosco, fiori dell'autunno.

Arsa di sete ero discesa al murmure

d'un fonte cristallino a dissetarmi,

e negli orecchi m'era ancora un suono

soave ed uno strepere di voli,

tal che sui labbri mi saliva il canto.

A un tratto scorsi sull'opposta riva

un uomo, fermo, immobile. Ristetti,

poi, cauta, — non so chi mi sospinse —

trassi verso colui che par non curi

di cosa alcuna e solo intenda a quella

fluidità perenne del ruscello.

 

E mirai con questi occhi un tale aspetto

che nulla più mi cancellò dal cuore;

e per le membra mie stupite corse

un tremore un pallor sùbito. Quegli

me già non vide, intento e reclinato

alla perenne correntia dell'onda.

A lungo tacqui; poi la miseranda

anima ritornò, si fece ardita

e suscitò le deboli parole:

«Odimi! sono Eco, una ninfa...» Quegli

si levò disdegnando e con pié ratto

mosse, sparì nel bosco frondeggiante.

 

Sempre fuggi, sempre da me lontano,

schivando i piedi miei veloci al corso.

Ma non la voce delle mie compagne

e non lo scherno e il riso altosonante

entro il denso fogliame me rattenne

dei fauni pié partito orecchio aguzzo.

Avida ovunque il folle desiderio

mi indicasse la traccia de' suoi piedi

io sempre corsi dietro l'implacato;

e sempre lo trovai fiso nei fiumi,

fiso nelle perenni correntie,

dove il suo folle affanno lo spingeva

a ricercare a rimirar sé stesso.

 

Riarsa dalla mia cocente febbre,

dall'implacato assillo dell'amore,

lo cercai per le valli i monti i piani,

e mi si inaridiva nelle fauci

la voce per il diuturno grido:

«O Narciso, o Narciso, odimi! sono

una vergine indomita e mi piego

liberamente a questa tua bellezza;

bianca son io più che la neve e il latte,

ma tu sei come il grappolo maturo.

O Narciso, o Narciso, odi la ninfa

molto desiderata Eco montana!»

Ma quegli, intento nella sua bellezza,

non amò che sé solo che sé solo,

non seppe egli né volle che sé stesso.

E sulla folle brama sua tornò

immobile la fonte cristallina.

 

Ebbra ne fui; fui pazza di dolore.

Quando il mio corpo cadde al suolo, l'anima

fuggì via, fuggì via gridando sempre,

chiamando lui dovunque il mio perduto,

cercando per la terra il mio perduto,

che amò sé stesso e disdegnò la ninfa

molto desiderata Eco montana.

 

Or vanno i gridi miei da monte a monte,

da valle a valle. Ad ogni voce che

risuoni forte e forte si lamenti,

risponde la mia voce eternamente.

Non rimane di me che un vano suono,

che tu cerchi onde muova, e trovi solo

quel pianto eterno che riecheggia a te,

scorrendo per la terra ampia ogni luogo,

ripercotendo sempre la tua voce,

che mia s'è fatta, e docile si leva

sempre che voglia sempre che l'invochi,

e da secoli e secoli il perenne

lamento grida nello spazio vano.

 

(da "Sogni pagani")

 

John William Waterhouse, "Nymphs finding the Head of Orpheus"
(da questa pagina web)


domenica 17 gennaio 2021

"Myricae" di Giovanni Pascoli

 

Ricordo ancora perfettamente quando, in un soleggiato pomeriggio autunnale dell'anno 1992, mi recai in una libreria di Ostia Lido e comperai due libri di versi; uno di essi era Myricae di Giovanni Pascoli, e fu anche il primo libro del poeta romagnolo che entrò a far parte della mia biblioteca. Fino a quel momento, la mia conoscenza della poesia pascoliana si era limitata ai versi presenti nei vecchi libri di scuola o in qualche antologia; quasi nulla, quindi, sapevo della raccolta, che, oltre ad essere la prima pubblicata dal Pascoli, è considerata tra le migliori del secolo XIX (e non solo in ambito nazionale). Volendo ora parlare un po' della storia di questo capolavoro della poesia italiana e internazionale, comincio dicendo che la prima edizione di Myricae uscì nel luglio del 1891; le 22 poesie presenti in questo libriccino, erano già apparse qualche anno prima nella rivista Vita nuova; 10 di esse, rintracciabili nell'edizione del 10 agosto 1890, ovvero nell'anniversario della morte del papà di Pascoli, portavano già il titolo della futura raccolta. Ben più consistente fu la seconda edizione di Myricae, pubblicata nel gennaio del 1892, poiché in essa comparvero 50 componimenti poetici in più, che contribuirono decisamente a dare un aspetto nuovo all'opera. Fu però la terza edizione: uscita nel marzo del 1894, a fornire la struttura portante della raccolta, mantenuta definitivamente. Qui, le liriche divengono 116, venendo a formare un gruppo ben corposo. Anche nella quarta edizione, comparsa nel febbraio del 1897, il Pascoli aggiunse nuove poesie, portando il numero totale a 152. Infine, la quinta e definitiva edizione del 1900, vide l'aggiunta di sole 4 liriche. Uguale alla precedente - eccetto alcuni particolari non molto rilevanti - è la sesta ed ultima edizione del 1903. Di Myricae, nei decenni che seguirono, uscirono tante nuove edizioni; quella che io posseggo, è la quinta della Rizzoli (collana BUR Poesia); qui è possibile leggere anche l'ottima prefazione del critico letterario Vincenzo Mengaldo, nonché le importantissime note di Franco Melotti; in verità non conosco altre edizioni di quest'opera, ma è certo che considero questa una delle migliori in assoluto. È grazie a questo libro che ho potuto approfondire la conoscenza dell'opera poetica pascoliana, e finalmente leggere le tante belle poesie trascurate dai libri di scuola. Per quel che concerne la sostanza di questa raccolta, ed anche il motivo della sua importanza, è opportuno dire che i versi di Myricae soltanto apparentemente sembrano proseguire la strada del verismo, già tracciata qualche decennio addietro, sia in prosa che in poesia, da altri ottimi scrittori italiani; in realtà, dietro alle immagini di vita campestre, di fanciulle e ragazze, di lavoratori e di semplici animali, si cela un sentimento di sconcerto, un malessere e un pessimismo che sfocia in malinconia. Inoltre, dall'insieme delle rappresentazioni e delle descrizioni della natura che lo circonda, il poeta fa scaturire un senso del mistero che ricopre ogni oggetto e ogni forma vivente; tutto ciò diviene percepibile solo e soltanto agli occhi del cosiddetto fanciullino: una presenza nascosta, che pure possiede qualsiasi essere umano (ma i più ne sono inconsapevoli), e che gli permette di scoprire, con occhi nuovi, tutti i segreti del mondo che lo circonda; questi occhi non sono altro che quelli del bambino: libero da qualsiasi struttura culturale o pregiudizio morale e nello stesso tempo dotato di quella freschezza, quella voglia di scoperta e quell'intuito che l'adulto non possiede. Soltanto il fanciullino può, in tal modo, far emergere tutto ciò che esiste di autentico e di spontaneo nelle piccole e pur grandi manifestazioni della natura; nel contempo è in grado di capire i significati arcani, riesce a decifrare dei rapporti invisibili tra le cose e tra gli esseri viventi. Da qui nasce anche il simbolismo pascoliano: facile da individuare in molti suoi componimenti poetici, e nello stesso tempo assai profondo. Nelle raccolte poetiche successive a Myricae, raramente il Pascoli raggiunse questi livelli di semplicità e di profondità; soltanto nei Canti di Castelvecchio è possibile rintracciare più di qualcosa che assomigli alla prima opera poetica dello scrittore romagnolo. In conclusione, ecco cinque indimenticabili poesie tratte da Myricae.

 

 


 

ALLORA

 

Allora... in un tempo assai lunge...

felice fui molto; non ora;

ma quanta dolcezza mi giunge

da tanta dolcezza d'allora!

 

Quell'anno!... per anni che poi

fuggirono, che fuggiranno,

non puoi, mio pensiero, non puoi

portare con te, che quell'anno!

 

Un giorno fu quello, ch'è senza

compagno, ch'è senza ritorno:

la vita fu vana parvenza

sì prima sì dopo quel giorno!

 

Un punto!... così passeggero,

che in vero passò non raggiunto;

ma bello così, che molto ero

felice felice, quel punto!

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 129)

 

 

 

 

ORFANO

 

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.

Senti: una zana dondola pian piano.

Un bimbo piange, il picciol dito in bocca;

canta una vecchia, il mento sulla mano.

 

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino

c'è rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo s'addormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 175)

 

 

 

 

L’ASSIUOLO

 

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù...

 

Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chiù...

 

Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?...);

e c’era quel pianto di morte...

chiù...

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 264-265)

 

 

 

 

IL NIDO

 

Dal selvaggio rosaio scheletrito

penzola un nido. Come, a primavera,

ne prorompeva empiendo la riviera

il cinguettio del garrulo convito!

 

Or v’è sola una piuma, che all’invito

del vento esita, palpita leggiera;

qual sogno antico in anima severa,

fuggente sempre e non ancor fuggito:

 

e già l’occhio dal cielo ora si toglie;

dal cielo dove un ultimo concento

salì raggiando e dileguò nell’aria;

 

e si figge alla terra, in cui le foglie

putride stanno, mentre a onde il vento

piange nella campagna solitaria.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 299-300)

 

 

 

 

 

ULTIMO SOGNO

 

Da un immoto fragor di carrïaggi

ferrei, moventi verso l'infinito

tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...

un silenzio improvviso. Ero guarito.

 

Era spirato il nembo del mio male

in un alito. Un muovere di ciglia;

e vidi la mia madre al capezzale:

io la guardava senza meraviglia.

 

Libero!... inerte sì, forse, quand'io

le mani al petto sciogliere volessi:

ma non volevo. Udivasi un fruscio

sottile, assiduo, quasi di cipressi;

 

quasi d'un fiume che cercasse il mare

inesistente, in un immenso piano:

io ne seguiva il vano sussurrare,

sempre lo stesso, sempre più lontano.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 364-365)