mercoledì 4 marzo 2020

Nuove parole alla figlia Fiammetta


Perché, vedi, io non so
aprirti le vie serene
che portano a Dio.
E non potrò sorreggerti
con quelle mani solari
ch'ebbero rudi e persuasi
uomini, come mio padre.
Perché a volte mi prende una pietà
oscura di te che sei la figlia
di un uomo fragile e incerto
che troppo aspetta dalla morte,
e ha paura di spaventarti,
se un poco t'avvicini al suo silenzio.
E un giorno dovrà pure
domandarti perdono del tuo sangue.





Tanti anni fa, sfogliando una vecchia antologia scolastica, mi trovai a leggere una bellissima poesia di Renato Filippelli (Cascano 1936 - Formia 2010). Pur non conoscendolo ancora, rimasi immediatamente impressionato da pochi versi che questo grande poeta scrisse per confessare la propria inadeguatezza di genitore alla figlia da poco nata. L'aggettivo "nuove", che Filippelli fa precedere a "parole", sta ad indicare la presenza di un'altra poesia dedicata alla figlia Fiammetta, che è possibile leggere nel medesimo volume in cui si trovano questi versi, intitolato Ombre dal sud (Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1971); quindi, anche la congiunzione "perché" del primo verso, vuole significare una continuazione, ovvero una ripresa poetica di un discorso già iniziato, in cui un padre, dimostrando una rarissima sincerità, confessa tutte le sue paure ed i suoi tormenti rispetto al compito arduo che si trova a dover affrontare: essere un bravo genitore. Filippelli, inizialmente ammette di non assomigliare al proprio padre, che, pur nella sua rudezza, possedeva delle sicurezze ed una capacità di persuasione assai spiccata. Poi, con estrema umiltà dice di provare un senso di pietà nei confronti della sua bambina, perché conosce bene se stesso, e sa quanto sia debole e incerto, e che troppo spesso questo suo stato esistenziale, fonte di sofferenza morale, lo porta a desiderare la morte. Perfino la sua abitudine a parlare poco, pensa possa nuocere alla figlia, e magari anche spaventarla. Infine, l'uomo arriva a domandarsi se abbia fatto bene a mettere al mondo dei figli, percependo l'enorme responsabilità che comporta essere padre, e, forse, avendo la sensazione di non essere all'altezza del ruolo che si trova ora a dover ricoprire. Ebbene, nella mia vita ho visto troppe volte genitori sciagurati, insensibili ed egoisti, che, pur avendo più volte dato alla luce dei nuovi nati, non si sono mai resi conto di quanto sia importante e nello stesso tempo difficile essere padre o madre di un essere umano che ha il diritto di crescere nel miglior modo possibile; per questo, le parole di Filippelli mi hanno colpito, ma anche per la disarmante schiettezza e per l'originalità (quante poesie ho letto, in cui il genitore usava parole trite e inutili per declamare le virtù dei propri figli). Nuove parole alla figlia Fiammetta, che ho trascritto dal primo volume dell'antologia scolastica Quante strade¹ (Loffredo, Napoli 1976), ora è possibile leggerla nel libro che raccoglie l'intera opera in versi di Renato Filippelli: Tutte le poesie² (Gangemi, Roma 2015).


NOTE
1) Si trova a p. 282, nella sottosezione altri poeti contemporanei.
2) È presente alla p. 155, nella sezione Ombre dal sud, che comprende tutte poesie precedentemente uscite nella raccolta omonima.

domenica 1 marzo 2020

10 poesie di 10 filosofi italiani del XX secolo


Poesia e filosofia possono marciare insieme, soprattutto se la prima dottrina s'indirizza verso gli argomenti che piacciono maggiormente alla seconda, o se, interpretando il significato più generico della parola "filosofia", i versi provano a stabilire e a costruire una particolare concezione della vita. Fatto sta che, durante il XX secolo e non solo, alcuni filosofi si sono dedicati alla scrittura di versi. C'è chi lo ha fatto per tutta la vita, chi soltanto episodicamente; ci sono stati filosofi che non hanno mai pubblicato i versi che scrivevano a mo' di diario, chi, invece, ha ritenuto che la poesia (o la letteratura) fosse la sua attività più importante, e ha trascurato conseguentemente la filosofia. Ecco allora dieci poesie scritte da dieci filosofi italiani del Novecento più o meno famosi. Nel selezionarle ho cercato di privilegiare quelle più specificatamente vicine al pensiero filosofico, per quanto fosse possibile. Spero di esserci riuscito.


10 POESIE DI 10 FILOSOFI ITALIANI DEL XX SECOLO 


LA SERRA
di Adelchi Baratono (1875-1947)

Io giunsi. Era ombra. Sedevi
per terra tra i fiori, e premevi
colle dita anellate una mimosa
nella tua serra odorosa.
I vetri specchiavano un pallido sole
che tra violette aiuole
moriva. Nel mare un pescatore piangeva.
E quando protesi la faccia
sbiancata, in lucida traccia
la FELICITÀ passava! e scoteva
tutti i suoi sonagliuzzi festosi,
scoteva scoteva.
Passava e passò. Io doveva
rimanere per sempre proteso..!
E tu mi mordesti le labbra
con l'occhio tremulo acceso...
L'altra lontanava tinnando
quando
tu mi mordesti le labbra.
Non potevi sapere il mio pianto dirotto.

(da "Sparvieri", Stab. Montorfano, Genova 1900, p. 25)




Da "BALLI"
di Massimo Bontempelli (1878-1960)

Avanti i primi - uno - due
  a destra a sinistra per ordine
  voltare girare
  qui.

Otto pensieri di morte
  dieci doveri di vita
  sinistra poi destra per fila
  lì.

Un maschio e una femmina
  un nero e un azzurro
  otto paure
  dieci imposture
  un sussurro.

Avanti dal fondo a catene.
  Sette i giorni dodici i mesi
  a destra a sinistra per bene
  otto cuori dieci cervelli
  su giù non uno di più
  codice articolo regola
  - uno - due - così.

(da "Il Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987, p. 30)




CARO INFIRMA
di Giorgio Del Vecchio (1878-1970)

Nell'atra notte, mentre più dolora
L'infermità dell'esser mio mortale,
Sento come un lieve batter d'ale
E un'eterea carezza che mi sfiora.

Spirto celeste, donde vieni? E quale
Amor ti muove? Deh m'assisti ancora,
Ché tua dolcezza sola mi rincora
Ed è divino balsamo al mio male.

O misera materia, o nostra sorte
Che l'anima con quella ognora affianca,
E la stringe e comprime in ree ritorte!

Ma a tratti un santo anelito l'affranca,
Pregno di vera vita oltre la morte.
Lo spirito è pronto, se la carne è stanca.

(da "Poesie", Mediterranea, Roma 1953, p. 42)




IL DESIDERIO VINTO
di Lorenzo Giusso (1900-1957)

Ingannatrice apparenza, bellezza sublime del mondo
che mi costringi prigione tra labili giochi di forme,
quando ai miei occhi sparita sarai e svanita l'enorme
brama di vita e d'amore che brama il mio cuore profondo?

Melodrammatico cuore, tu sogni ruinose avventure
con principesse d'Oriente dai biondi imperiosi artifizi
dietro viali fragranti di tassi, magnolie e palmizi,
penduli in laghi smaltati d'opache, perenni verdure.

Vorresti giungere, stanco, in rosei tramonti d'anguria
a bianchi alberghi ricolmi di palme e di lucide coppie
fanatizzate ed estatiche. Vorresti veder sulle doppie
cristallerie incendiarsi sorrisi di cupa lussuria.

Tu credi ancora che ignote dolcezze si trovino al fondo
di balaustre appoggiate su gravidi mari turchini.
Veneri ancora, in segreto, la donna dai gesti felini
pallida ed irta Discordia emersa d'abisso profondo.

Tu sogni e vedi slargarsi tra tozze colonne un salone
di gioco. E credi, l'ingenuo, che pile di scudi lucenti
ti renderebber felice. E pensi, in tuoi sogni dementi,
che basti caracollare per essere un Napoleone.

Tu, ignaro, sempre vagheggi l'ebbrezza che fiacca e consuma.
Mediti d'inobliabili viluppi di corpi sovrani
votati a lente morti, a squisiti martirî oltre umani.
Soavi orchestre di baci vorresti su letti di piume.

Tu credi ancor che le alcove di lusso fra i loro tendaggi
chiudan eccelsi segreti. Tutt'ora ti turbi e t'accori
se nei viali dei tigli si stampano baci sonori
due sconosciuti felici. Il sesso i suoi pigri miraggi

proietta immoto su te. Tu tendi al servaggio dei sensi,
al muto abbagliamento dinanzi ad un corpo insaziato.
La Vita dello Spirito ti pare un fantasma malato,
un'insidia alla carne protesa ai suoi gaudi più intensi.

Esci da te! Disingannati! Evaditi dalla prigione
dell'io tiranno! Confondi cogli altri viventi la trama
della tua vita solinga! Deponi l'estuosa tua brama
che ti distrugge e ti perde! Dischiudi alla rassegnazione

l'animo e aspetta calmo la Morte che il tuo desiderio
scioglierà fra i ghiacciai del bianco e silente suo imperio.

(da "Elegie del torso della saggezza mutilata", Corbaccio, Milano 1941, pp. 149-152)




L'ALBERO LUMINOSO
di Gino Gori (1876-1952)

Cresce come l'alba
quest'albero di madreperla,
e porta impigliati fra i rami
figure d'uomini e colori.
Stormisce che non si sente
coi nostri orecchi mortali,
ma già nell'anima passa
una musica che pare
come un silenzio di amore.
Cresce la pianta mattutina
con una fretta dorata,
empie gli spazi della terra
e l'infinito del cielo.
Tutti la chiamano luce,
ch'è il vero nome di Dio,
ma ella non è che la favola della luce,
e dura un giorno soltanto,
come la fanciullezza,
come l'amore,
come la vita dell'uomo,
ch'è una piccola lacrima
caduta
dagli occhi invisibili dell'eternità.

(da "Il mulino della Luna", Alpes, Milano 1924, pp. 30-31)




CAMMINO NOTTURNO
di Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981)

Vado. L'ombra errante degli alberi mi serra
con grinze lunghe di lascivia, e reti torte
e viscide, e nodi vivi e corde troppo corte
che stiracchio e dirompo e lascio in terra
fra le pozze lunari come serpi morte.

Vado. Vedo la luna nella notte spoglia
cader di ramo in ramo come una magnolia
malata e la rivedo ancora in fondo al viale
cantare in un trionfo triste di fontana,
e un cedro tendere alte le spennacchiate ale.

Vado. Io amo solo le stelle e te lontana.

(da «L'Eroica», novembre-dicembre 1932)




CENERI
di Marco Lessona (1859-1921)

Sapete, o uomini, voi
Che cosa restò della pira,
Che delle più preziose
Spoglie dei boschi d'oriente
Sardanapalo nel giorno
Ultimo compose,
Perch'egli e le sue donne ed i suoi
Tesori v'ardessero
Sopra? Forse ciò che rimase
Di quella pira fu cosa
Diversa dall'esiguo
Mucchio di cenere,
Che lascia il focherello di sterpi
Acceso sull'alpe dai pastori
Nell'ora, che dalla valle
Sale l'ombra fredda della sera?

Uomini, quanto rimane
Della più nobil passione
È pari a quanto lascia
Dietro di sé
Il desiderio più insano.
Lascia ogni fuoco
Un poco
Di cenere: d'ogni sforzo umano
Non resta nel nostro cuore
Altro che un po' di dolore.

(da "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930, p. 184-185)




RISVEGLIO
di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

Giaccio fra l'erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti. -
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch'io chiamo «io», ma ch'io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d'incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole! 

Ma pel cielo
montan le nubi su dall'orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi levo, che ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la mia vita,
che la stessa ignoranza m'è sapere -
la natura inimica ora m'è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl'insetti. -

(da "Dialogo della salute. Poesie", Formiggini, Genova 1912, pp. 76-77)




QUANTA LUCE
di Mario Novaro (1868-1944)

Quanta luce!
ma l'occhio è opaco;
esili emergono le terre
dall'immenso
seno dei mari:
oh quale cieco
liquido abisso
sotto il turchino velo,
quanta compatta tenebra
sotto l'incanto
de la spirabile aria
e il verde manto!
E fra gli innumeri
astri del cielo
(vana mira vana inquietudine?)
quante terre
vedono sentono
o l'uomo è solo?
e l'anima
da quali luci
da quali tenebre
s'accende o spegne?
o questa incerta vita è tutto
l'essere
altro senso non ha?

(da "Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, pp. 27-28)




OMNIA VANITAS
di Giuseppe Rensi (1871-1941)

Quando il pensier, che a ogni alto Vero intende,
L'evolversi fatal cieco e possente
Della materia, onde le forme, lente,
Uscir de' mondi, investigando ascende,

Per quest'anima picciola e dolente
Che nelle lotte e ne' desir s'accende,
Ed ama e piange ed opra e si ripente,
Un grave riso di pietà mi prende.

Come sarà mio dì breve compito
E la coscienza mia franta e sperduta,
Niuna traccia di me per questo immenso

Spazio starà, dov'or palpito e penso:
E la mia vita, inutil cifra muta,
Scomparirà nel mar dell'infinito.

(da "Sic et non. Metafisica e poesia", Libreria Editrice Romana, Roma 1910, p. 253)



 
Anonimo, "Il filosofo"
(da questa pagina Web)


mercoledì 26 febbraio 2020

La vita mi demolisce

La vita mi demolisce pezzo a pezzo,
a colpi di piccone mi sgretola.
Intacca un blocco della facciata,
un muro maestro va giù nella polvere;
si spalancano cantine
piene di ragnatele.
Sento la mia decadenza,
vedo la prossima fine.





Questa breve poesia è di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983), e fa parte della raccolta Linea della vita (Mondadori, Milano 1949); la si può leggere alla pagina 124, all'interno della sezione intitolata Amico di Caronte. Sono otto versi in cui il poeta romano confessa la sua sofferenza causata da un'esistenza più che mai difficile, paragonata - con grande maestria e originalità - alle mura di un vecchio edificio che subiscono continuamente dei colpi da un piccone, e che quindi si sgretolano un po' alla volta. Proprio come i muri ormai logori di una casa antica, l'uomo si sente, col passare degli anni, intaccato e corroso; le difficoltà che si accumulano lungo il percorso dell'esistenza, non fanno altro che abbattere a poco a poco le fondamenta di quella casa che in realtà è il poeta stesso, invecchiato, disilluso e indebolito; esso si accorge della propria decadenza e intravede la prossima fine, ovvero la morte, con un realismo scabro, senza margini di speranza o d'illusione.

mercoledì 19 febbraio 2020

Festa grigia


a Marino Moretti

Iersera la festa dei vivi colori,
la danza di risa e di lazzi iersera!...
La festa del grigio è stamane,
del grigio di piombo.
S'è fatta la luce assai tardi;
la strada è ravvolta nel grigio silenzio,
non s'ode che l'eco di sonno,
di sonno di piombo.
La nebbia leggera purifica l'aria
siccome i vapori d'incenso,
ricuopre di grigio lo specchio macchiato
che ancora ne l'ombra riflette
gli sprazzi scarlatti di risa,
di risa e di lazzi.
Riposano ai piedi dei letti di sonno profondo
gualciti gli stracci dai vivi colori.
La festa del grigio è stamane!
Rasentan le mura
coperte di brune mantiglie,
beghine ricurve,
rasentan le mura silenti.
Insiste argentino l'invito a la Messa:
la Prima.
Leggere vi corron le piccole figlie.
La strada è ravvolta nel grigio silenzio.
L'invito argentino si tace.
Più nulla. La Messa incomincia.
Più ratte rasentan le mura
le brune mantiglie,
più rade si fanno ed il passo ne cessa.
Soltanto la nebbia leggera
tranquilla rimane al suo giorno di festa:
la festa del grigio è stamane!





Festa grigia è una poesia di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974). Comparve per la prima volta come settima lirica (pp. 33-34), all'interno del volumetto Lanterna, che lo scrittore toscano pubblicò a sue spese in Firenze nel 1907. La si ritrova poi costantemente, sebbene in parte modificata, nelle successive raccolte che riuniscono le poesie di Palazzeschi, a partire da Poesie (1904-1909), Vallecchi, Firenze 1925, fino alla complessiva Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002, dove viene riproposta anche la prima versione di questa lirica. Io l'ho riportata da un altro volume, intitolato I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi, pubblicato dalle Edizioni Empirìa di Roma nel 1996 (da cui la foto sopra); qui si possono rileggere nelle versioni originali, tutte e tre le prime raccolte poetiche di Palazzeschi, che grosso modo, rappresentano la fase più "crepuscolare" di questo poeta così sui generis nel panorama italiano del primo Novecento. Ma soltanto in Lanterna, Festa grigia porta la dedica al poeta ed amico Marino Moretti, probabilmente per quel colore grigio così amato dallo scrittore romagnolo, come si può evincere dai tanti suoi versi in cui viene evocato. Ma non è da dimenticare che il grigio è uno dei colori preferiti un po' da tutti i poeti crepuscolari, a cominciare da Corrado Govoni, che intitolò la sua seconda raccolta di poesie Armonia in grigio et in silenzio. Quanto all'argomento trattato da questi versi, si tratta di un mattino nebbioso che segue una notte di festa grande (forse carnevalesca). Come in molte altre poesie di Palazzeschi - e si fa riferimento soprattutto alle sue prime raccolte - il tutto è avvolto da un'atmosfera altamente misteriosa e da un'immobilità spaventosa, che fa apparire quel paesaggio, quasi ultraterreno: sia per la sola presenza vitale rappresentata dalle beghine che si recano quasi furtivamente alla prima messa; sia per l'unico rumore presente, che è quello delle campane che annunciano l'inizio del rito religioso. Inutile aggiungere che in questa poesia, il poeta toscano riesce, una volta di più, ad affascinare il lettore come pochissimi altri poeti hanno saputo fare.