domenica 13 gennaio 2019

Tre poesie di Arnaldo Beccaria


Non sono certe le notizie anagrafiche di Arnaldo Beccaria, poeta e critico d'arte italiano del Novecento; presumibilmente nacque a Milano nel 1904, e ivi morì nel 1972. La sua opera poetica, oggi completamente dimenticata, ma anche in passato generalmente trascurata o ignorata, consta di due volumi: Adamo (1942) e Sull'orlo del cratere (Mondadori, Milano 1966); l'ultimo citato comprende anche le poesie della precedente. Una decina di poesie, che sarebbero entrate a far parte di Adamo, furono pubblicate sulla rivista Maestrale tra il 1940 ed il 1942. Amico di Leonardo Sinisgalli - che gli dedicò il volume antologico L'ellisse. Poesie 1932-1972 - e di Libero De Libero, i suoi versi hanno poco a che vedere con l'ermetismo, come qualcuno ha detto, ma, piuttosto, trovano somiglianze con quelli di altri poeti attivi nella terza e nella quarta decade del XX secolo, come Angelo Barile, Giovanni Titta Rosa, Elpidio Jenco, Adriano Grande, Giovanni Descalzo e Roberto Rebora. Se proviamo a leggere le poesie presenti nella prima raccolta di Beccaria, uscita in un anno in cui l'ermetismo la faceva da padrone, noteremo che i suoi versi risultano chiari, limpidi, facili alla comprensione; tutti quegli elementi che sono peculiari della poesia ermetica, e che la rendono ostica alla lettura, qui non sono presenti. E' pur vero - da come risulta anche dalle note critiche di Reanto Aymone che si possono leggere in una recente ristampa di Vidi le muse, opera poetica fondamentale di Leonardo Sinisgalli - che la poesia di Beccaria fu tenuta fortemente in considerazione da alcuni poeti ermetici come il suoi amici Sinisgalli e De Libero, ma rimangono comunque nette le distanze tra il fare poetico di questi due esponenti dell'ermetismo e quello del poeta milanese. Ciò che più sorprende, è il fatto che i versi di Beccaria non abbiano mai trovato un critico che li apprezzasse e li inserisse tra i migliori del suo tempo. Eppure non è un caso che alcune ottime riviste degli anni '40 del XX secolo, in cui la poesia si trovava in primo piano, scegliessero di pubblicare i suoi versi; e che un editore importante come Mondadori, nel 1966 stampasse l'intera opera poetica del nostro.
A riprova della validità di Beccaria poeta, riporto di seguito tre poesie; la prima fu pubblicata dalla rivista Maestrale nel gennaio del 1942 e, come la seconda fa parte della raccolta Adamo; la terza, invece, uscì nel secondo ed ultimo volume: Sull'orlo del cratere.



ANEDDOTO

Uscimmo a un praticello
tutto fiorito. Ed erano farfalle
ferme nel sonno.
Sulla soglia ci tenne di quel sonno
- laghetto inopinato -
il leggiadro mistero.

E pensavo, tornando, ancor pensavo
alle farfalle e ai loro sogni lievi.




O LUNA

O luna, bianca luna
alta nel cielo
t'affacci sulla terra.

Come di sopra un muro,
sulla terra t'affacci
dall'immenso.




DALLA FINESTRA

Nel giardino delle Suore
è caduta la neve. Le educande
hanno innalzato
fantocci goffi e buffi.
Vi hanno intrecciato intorno girotondi;
hanno riempito l'aria
di gridi come rondini.


domenica 6 gennaio 2019

La malattia nella poesia italiana decadente e simbolista


La malattia, nei poeti decadenti e simbolisti, è molto spesso collegata con la morte, in particolare quando al centro del discorso c'è un infermo particolarmente grave; in alcuni casi, come dimostrano le poesie L'incubo dei folletti di Mario Adobati, La febbre di Corrado Govoni e Delirium tremens di Antonio Rubino, il malato rimane vittima di allucinazioni che sfociano in visioni terrificanti. A volte, però, le allucinazioni non hanno nulla di spaventoso, e si dimostrano addirittura piacevoli. In diverse poesie viene messo in risalto il periodo della convalescenza; qui il poeta, ancora debole, esprime le proprie sensazioni e i desideri di guarigione, e chiede conforto ad una presenza femminile non ben delineata (madre, sorella o amante?). Vi sono poesie ironiche, che sbeffeggiano la malattia ed anche i malati, come Il cancro di Corrado Govoni e Il pagliaccio dell'ospedale di Paolo Buzzi. E a proposito di ospedali, non possono mancare i versi in cui si parla delle corsie dei sanatori, spesso ponendo in evidenza l'estrema malinconia che vi si respira, e l'immancabile presenza della morte sempre in agguato. Ma qualche volta non è la morte che si presenta ai piedi del letto del moribondo, bensì la Pietà, che aiuta il povero condannato a far si che la fine della sua esistenza possa essere dolce.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "L'incubo dei folletti" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inferma" in "Leggenda eterna" (1900).
Ettore Botteghi: "La preghiera" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Il pagliaccio dell'Ospedale" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "L'ospedale" e "Lo spavento" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Convalescenza in settembre" in "Fogline d'assenzio" (1913).
Giovanni Cena: "Nell'ospedale" in "In umbra" (1899).
Gabriele D'Annunzio: "L'incurabile" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "Ai convalescenti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Giuliano Donati Pétteni: "Sera nello spedale" in "Intimità" (1926).
Giulio Gianelli: "Il dolce infermo" in «Grande Illustrazione», marzo 1914.
Corrado Govoni: "Quante ore trascorse senza luce" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il lamento del tisico" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni "La febbre" e "Il cancro" in "Gli aborti" (1907).
Federico De Maria: "Dame Vérole" in «Poesia», novembre 1908.
Ugo Ghiron: "La compagna" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Enzo Marcellusi: "Allucinazioni d'una convalescenza" in "I canti violetti" (1912).
Fausto Maria Martini: "Convalescenza" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "Senza ragione" e "A una malattia" in "Poesie provinciali" (1910).
Pietro Mastri: "Nella corsìa la duplice" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "La Pietà" in "Dal profondo" (1910).
Yosto Randaccio: "Ombre di convalescenza" e "Un'ora dolce" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Anemica" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "Peste Regina" e "Delirium tremens" in «Poesia», ottobre 1908.
Giovanni Tecchio: "De profundis" in "Canti" (1931).




Testi

CONVALESCENZA IN SETTEMBRE
di Francesco Cazzamini Mussi

I.
Apri quella finestra: oggi mi sento
più debole: è un languore senza fine
che mi tiene e mi uccide... Oh se mi uccide!
Non dire nulla, no. Viver che importa?
Ho bevuto a una tazza che ora è vuota.
È presto? Tu, lo dici? Che sai tu?

Apri quella finestra. Entra col vento
un'aria molle: ed io rivivo, ancora.
È la vita che torna e che mi spira
sulla bocca riarsa, sulla fronte
aggrottata, sugli occhi dolorosi
le sue promesse tentatrici e calde...

Io non mi muovo: sta quieta. Guarda:
ha il mio corpo, nel letto, una sua strana
fissità di cadavere: s'io chiudo
gli occhi di già mi raffiguro morto.

Morto! È dolce sentire d'esser morto!
Ecco: vengon gli amici indifferenti
e addolorati: alcuni rammentando
l'alte virtù del buon compagno estinto....

Oh, ma non viene chi vorrei, nemmeno
l'ultimo giorno, quando il mondo è un vano
nome ormai privo d'ogni sua lusinga;
ecco, forse per me sorride l'ora
di pace e la mia bocca di già chiusa
per sempre è priva ancor della carezza
desiata e rimpianta e la mia fronte
non percepisce l'alito leggero
d'un bacio — intendi? — l'alito d'un bacio...
Oh lascia che il profumo della sera
venga per le finestre, lo lo respiro
voluttuosamente perché m'entri
nei polmoni, nel sangue e nel cervello,
e fors'anche nel cuor che lo ricorda...

II.
Ah quest'odor voluttuoso e tardo
di rose sensuali e questo acuto
e più snervante di magnolie in fiore
e la modestia raffinata delle
verbene ed il languore doloroso
delle azalee morenti ed il profumo
vivido e fresco della terra rorida
di rugiada e l'azzurro del mio cielo
ed il silenzio triste della villa!...

Io rivivo. Sei tu che ancor mi vuoi,
o vita, col furore della tua
verginità che nasce e che si dona,
per rifiorire e per mutar sua forma?
Io rivivo, e se il capo sui guanciali
abbandoni già stanco, se socchiuda
gli occhi nella vertigine dell'essere
malato, ecco rivedo una fulgente
strada e una vetta e il cuor canta una sua
diana squillante di vittorie, e sogna...

Ma quella bocca, quella bocca muta
e gli occhi ambigui tra le ciglia oscure
ma quella mano...?

III.
Oh passami la mano entro i capelli
tacitamente, e sia la tua carezza
lunga così che non mi faccia male...
Oggi son buono, e languo di dolcezza
e di rimpianto. Forse t'amo. Oh, illudimi,
amami tu, dammi una tua menzogna,
offrimi un desiderio, qualche cosa
che sia per me come il polline all'aria,
come il lento pulviscolo alla luce...

Passami la tua mano entro i capelli...

Non so: mi sento buono oggi, mi sento
timido, e gli occhi che non han più lacrime
vorrebbero trovar l'antica polla.
Vorrei piegare il capo nel tuo grembo
ed aspettar così l'ave e la sera.
Forse materna tu sorrideresti
perdonando al fanciullo che t'offese...

Anche direbbe il labbro tuo: — Vuoi questo?
Ch'io ti perdoni?... È facile... Bambino! —
Ma il perdono che forse mi daresti
chiamandomi bambino è quella gioia
senza sorriso che ricorda agli uomini
ciò che fu loro inutilmente...

                                Pensa
a questo strano avverbio: inutilmente!

(da "Fogline d'assenzio")


Giovanni Segantini, "Petalo di rosa"
(da questa pagina)


domenica 30 dicembre 2018

La fine dell'anno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Nelle ultime ore dell'anno, spesso, è facile fare bilanci e ricapitolazioni; è, insomma, il tempo delle riflessioni ma anche dei preparativi; e alla fine si festeggia, attendendo gli ultimi secondi dell'anno vecchio e i primi di quello nuovo. Ma in queste dieci poesie dedicate alla fine dell'anno, non si respira alcuna aria di festa e di allegria. In alcuni versi, al contrario, si avverte una tangibile tristezza e, più raramente, una evidente disperazione; è il caso, per esempio, della poesia di Margherita Guidacci, che dopo aver descritto i modi con cui gli esseri umani si accingono a festeggiare l'arrivo del nuovo anno, confessa la sua voglia di dormire - sebbene sia difficile in una notte decisamente rumorosa per tradizione e antonomasia - e di nascondersi, di dimenticare e di essere dimenticata, proprio nel momento in cui per molti diviene essenziale esserci e divertirsi. Tito Marrone, parlando del tramonto dell'ultimo giorno dell'anno, mette in risalto l'atmosfera lugubre, quasi funeraria che si avverte, con il rumore sinistro di un vento che sembra annunciare la fine di tutto. Eugenio Montale invece, pur di evitare i festeggiamenti, immagina di trovarsi, nel momento cruciale che determina il passaggio da un anno ad un altro, sulla luna, e di osservare distaccatamente quello strano modo di esultare da parte di una esagitata umanità, giudicata con sarcasmo da un luogo lontanissimo e quieto. E la quiete è protagonista dei versi di Remo Fasani, che nelle ultime ore dell'anno si limita ad osservare il paesaggio montano da cui è circondato, e ad immedesimarsi in quello, assentandosi da tutto il clamore che impera e che dovrebbe invece coinvolgerlo. C'è poi Alessandro Parronchi, che proprio in un momento così importante, avverte maggiormente l'assenza di una persona amata. La sensazione di solitudine, infine, è preponderante nei versi di Sergio Ortolani, sensazione che è acuita dalla visione di famiglie e genti riunite davanti al focolare nel momento della festa.  




MUORE L'ANNO
di Giusto Calvi (1865-1908)

De le scarne nocche batte San Silvestro
sovra i bronzi cristiani l'ultime ore,
            ne la bruma, e par lamento,
            passa il suono e l'anno muore.

Ne la fiamma de' tuoi baci, sperdi, o Lilia,
sperdi questo triste suon di funerale,
            e la morte a noi dell'anno
            rida come uno sponsale.

A la vita ed a la morte! scorran, Lilia,
or degli avi le vendemmie ne' bicchieri:
            lieve a i morti sia la terra
            lievi a i vivi i lor pensieri!

(da "Versi", Streglio, Torino-Genova 1909)




FINE D'ANNO
di Remo Fasani (1922-2011)

La neve spegne il suono d'acque vive
e col gelo è più muto anche il silenzio
del vecchio bosco abbarbicato ai monti.
Se lungo questa valle oggi cammino
è solo quiete, non tristezza o gioia,
che mi chiama all'aperto e in sé m'accoglie.
E mentre vado sono io stesso i pini,
la neve nuova, il monte primitivo.
E non cerco ma scordo le parole.
È questa un'ora ferma, senza tempo,
che vita e morte hanno lo stesso nome.

(da "Le poesie 1941-2011", Marsilio, Venezia 2013)




NELLA NOTTE DELL'ANNO
di Ugo Fasolo (1905-1980)

Avanza silenziosa, ampia nel giro
notturno, la stellare Cassiopea:
riluce nello spazio delle orbite
prossime al segno; è la notte dell'anno.

Buon anno sia. Cassiopea varca il limite
prefissato per la ripresa del giro:
oscuramente la notte propone
nuovo cinto di giorni, ansie e amore.

Alto lo spazio divolge immutabile
il suo silenzio. Un augurio di bene
nasce rivolto a un volto in ombra: è ignota
l'offerta nella notte silenziosa.

(da "Le varianti e l'invariante", Rusconi, Milano 1976)




FINE D'ANNO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Quelli che danzano, quelli che brindano,
quelli che sparano mortaretti,
quelli che cantano, quelli che si drogano,
quelli che si azzuffano, quelli che si amano,
quelli che ridono, quelli che piangono,
quelli che tacciono, quelli che pregano,
quelli che cercano di nascondersi
come me, gettandosi
nel pozzo profondo del sonno -
tutti abbiamo sentito ugualmente
e nello stesso istante
il vento d'un rapido passo
e il guizzo della falce.

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999)




SAN SILVESTRO
di Tito Marrone (1882-1967)

Ancora i pallidi raggi del sole
ai monti roseo riflesso danno.
Vecchio che un ultimo sorriso vuole,
tramonta l'anno.

Urla la raffica, lunge: la sento
gelida insistere dietro le porte.
In questo lugubre vespero, il vento
pare la morte.

(da "Liriche", Artero, Roma 1904)




FINE DEL '68
di Eugenio Montale (1896-1981)

Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c'è anche l'uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.

Tra poche ore sarà notte e l'anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o pegggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1996)




FIN D'ANNO
di Sergio Ortolani (1896-1949)

La pendola scandì l'ultimo tocco:
io m'affacciai su la campagna scura.
Dentro, la famigliola intorno al ciocco;
fuori, nuvole e foglie alla ventura.

In quella un lampo: e venir monti e piani
e strade e borghi incontro a questa siepe:
tutta la bella casa degli umani
che si raccoglie al placido presepe.

Allor della mia vita aspra errabonda
mi punge un pianto, e vedo il buon cammino.
E mia sorella sposa ho per madonna,
che al cor si culla il suo Gesù bambino.

(da "Poesie", Mondadori, Milano 1957)




ORA UN ANNO TRAMONTA...
di Alessandro Parronchi (1914-2007)

Ora un anno tramonta, sorge un anno
e della stessa luce ove tra i colli
fosti viva non più che un fiotto d'ombra
viene a me che ti vidi. Ah mi sorgeva
una speranza! Mandano le siepi
profumi intorno, volge un'ora mille
sogni, ma come povera la pietra
riflette ora il giardino ebbro di rose!

(da "Le poesie", Polistampa, Firenze 2000)




NOTTE DI S. SILVESTRO
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Un tempo — oh povertà
Che ti pasci di grami desideri! —
Quando tu, Madre, ci crescevi sola
E triste, come l’aquila selvaggia
Che nutre i figli sulla rupe, ed eri
E grande e veneranda a tutti i cuori;

Poiché era scarso il fuoco
Del focolare, e poco,
O nulla, il vino della cena — in nero
Cerchio sedendo, sempre nel silenzio
Noi volgevamo un unico pensiero
Di affanno —, io che nel core
Già mi sentivo ad ogni
Palpito un vol di sogni,
Qual d’api sovra un fiore;

Io già sognavo, o Madre, questa casa
Che a noi sola commise
L’invitta tua virtù,
La casa che tu regni, o Madre buona;
E noi già grandi, e tu
Serena, e noi tuo scudo e tua corona
Di vittoria. Ah non rise
L’antico sogno invano!

Vedi: nel focolare
Arde l’elce ed il selvaggio
Olivo; il vino brilla
Nei nitidi bicchieri; l’alta loggia
S’apre ai miei sogni su l’azzurro incanto
Delle vette e dei piani.
E anch’essa, odi? la pioggia
Non ci piange più il pianto
Di quegli anni lontani.

(da "Canti", Ilisso, Nuoro 1996)




SAN SILVESTRO
di Giuseppe Zoppi (1896-1952)

Come quest'ora,
estrema, declinante
al termine prefisso,
così la vita: un attimo,
estinto già.

Non attendere ad altro, sciogli il canto
che da mille anni a padri
ed avi gonfia il cuore.

(da "Le Alpi", Vallecchi, Firenze 1958)


James Abbot McNeill Whistler, "Night in Black and Gold, The falling Rocket"
(da questa pagina)

domenica 23 dicembre 2018

Il Natale nei versi di tre poetesse italiane del XX secolo


Ecco tre poesie natalizie scritte da tre ottime poetesse italiane del Novecento. Come è facile notare, questi versi non celebrano la più importante festa cristiana dell'anno, ma mostrano segni di sconcerto, di sofferenza e di tristezza. Il Natale è presente, ma è vissuto in situazioni particolari o con sentimenti contrastanti.
Donata Doni scrisse la sua poesia in un ospedale (come si evince dal luogo riportato in calce alla sua composizione), a soli tre giorni dal 25 dicembre. Nei suoi versi si respira il clima di palpabile tribolazione fisica e mentale, dovuto alla malattia e all'umanità sofferente da cui era circondata la poetessa in quel difficilissimo momento. La Doni elenca una serie di azioni che non può fare, che sono quelle della tradizione natalizia, e che la stragrande maggioranza dell'umanità fa nei giorni che precedono la festa. Malgrado ciò, essa si rende conto che può fare qualcosa d'altro, di ben più profondo e di estremamente importante: stare vicino a chi, come lei, sta vivendo un periodo di forte sofferenza. Il verso finale indica più che mai l'aspetto religioso della poesia: la nascita di Gesù, rappresenta soprattutto qualcosa di fondamentale proprio per la parte dell'umanità più sofferente, poiché grazie alla sua vita e al suo messaggio, questo enorme popolo fino ad allora ignorato, diverrà importante e troverà una speranza e un conforto nelle parole del Cristo.
La poesia di Luciana Frezza è di tutt'altro tono, e descrive l'insignificanza dei natali moderni. La mancanza dell'anno preciso nel titolo in cui compaiono soltanto i primi due numeri, sembra voler accomunare tutti i natali del XX secolo, che si susseguono, fastosi e ripetitivi, causando in chi li vive anno dopo anno, una sorta di impalpabile indifferenza, che si va accentuando e che comporta una assoluta perdita di significato della festa.
Infine, la lirica di Daria Menicanti, in cui il Natale passa decisamente in secondo piano, poiché ciò che risalta è il breve messaggio indirizzato ad un uomo che non risponde alle lettere di una donna evidentemente innamorata; questi versi esprimono un'amarezza ed una rassegnazione che, comunque, non impediscono alla poetessa di scrivere a quest'uomo parole di comprensione, inserendo anche gli auguri di Natale, che però sono definiti del caso e, quindi, quasi obbligati, o comunque poco sentiti.




UN NATALE
di Donata Doni (1912-1972)

Non puoi confonderti
nel dedalo delle strade illuminate
nell'attesa del Natale.
Non puoi sentirti sospingere dalla folla,
fra le vetrine dei negozi,
il frastuono, l'aria di festa.
Non puoi cogliere in Piazza Navona
il sorriso estatico dei bambini,
né attendere la mezzanotte
fra un lieto scambio di doni.
Puoi solo stare accanto
a chi soffre, a chi geme, a chi piange.
Anche questa è una nascita.

             Roma, Policlinico Gemelli, 22 dicembre 1971

(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973)




NATALE 19...
di Luciana Frezza (1926-1992)

Le sere vicine al Natale
nella città che si chiude
i bimbi vestiti di rosso
le donne nelle sciarpe
percorrono vie di presepe,
tra selve di abeti inchiodati
tra file di fanali
- è come se anche questo Natale
fosse passato - saliamo
gli anni e non resta
a poco a poco
che questa mano che sfiori.

(da "Comunione col fuoco. Opera poetica", Editori Riuniti 2013)




BIGLIETTO NATALIZIO A GIULIO
di Daria Menicanti (1914-1995)

Non ti scrivo per quello. Capisco
bene come succede. Anch'io ti scrivo
solo oggi gli auguri del caso.
Non ti chiedo perché non hai risposto
ancora alle mie lettere: si rimanda,
si rimanda indefinitamente
e, prima ancora che per sé, si muore
negli altri

(da "Il concerto del grillo", Mimesis, Milano-Udine 2013)