mercoledì 10 maggio 2017

Pietà cuori duri

Pietà, pietà cuori duri
Pietà per l'uccello migratore
Che ha perduto un'ala in volo.
Pietà per l'orfano gitano
Che s'è giocato a carte
Sella e cavallo
Suicida in una prigione.
Pietà per il giovane Nessuno
Ucciso in Cina
O un qualsiasi altro luogo
Clima razza condizione.
Pietà per chi muore all'impiedi
Dentro una camera d'affitto.
Pietà per chi cade
Pietà per chi si lascia cadere.
Pietà, pietà cuori duri
Voi che siete sempre seduti
E apprendete dai giornali
La morte degli altri.



 Questa poesia l'ho estratta dal volume Stellacuore di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984) edito da Mondadori nel 1970. In tale libro sono riunite le raccolte più significative del poeta pugliese; Pietà cuori duri fa parte della sezione Il trovatore, che uscì in volume singolo, sempre dalla Mondadori, nel 1953. È stata una delle prime poesie di Carrieri che ho letto ed apprezzato trovandola in un'antologia della poesia novecentesca italiana. Ahimè, questo ottimo poeta viene troppo spesso escluso dalle selezioni antologiche, soprattutto se si parla degli ultimi trent'anni.
Sono versi che parlano della pietà umana negata agli sconfitti, ai poveri e a tutti coloro che, costretti a vivere in luoghi e in situazioni difficili, non riescono ad andare avanti e decidono di togliersi la vita. Il poeta invoca la pietà rivolgendosi polemicamente a coloro che sono sempre seduti (in contrasto con chi muore all'impiedi), ovvero agli intellettuali e ai benestanti in generale, che, soventemente, vengono a conoscenza della morte di questi diseredati della terra leggendo i giornali. L'elenco dei soggetti che, in vari luoghi del mondo e in diversissime situazioni perdono la vita, comprende gli orfani, i giocatori d'azzardo, i ribelli e i disperati (identificati in chi si lascia cadere); molte somiglianze le ritrovo nel testo di una stupenda canzone di Francesco De Gregori: Santa Lucia (si trova nell'album Bufalo Bill del 1976), in cui, come nella poesia di Carrieri, viene invocata una sorta di pietà per l'umanità sofferente.

Una amara riflessione finale: la struttura della società attuale, come quella del passato, in verità non prevede alcun sentimento di pietà, né di solidarietà e tanto meno di misericordia per coloro che restano indietro e poi, di conseguenza, cadono. 

martedì 9 maggio 2017

Da "Controcorrente" di Joris Karl Huysmans

Nel suo letto, al mattino prima di addormentarsi, con la testa sul guanciale, contemplava il suo Theokópulos il cui colore atroce mortificava un po' il sorriso della stoffa gialla e la richiamava a un tono più grave, e allora gli era facile immaginare di vivere a cento leghe da Parigi, lontano dal mondo, nel totale isolamento di un chiostro.
E, tutto sommato, egli favoriva la propria illusione conducendo un'esistenza non molto dissimile da quella di un religioso. Godeva così dei vantaggi della clausura evitandone gli inconvenienti, cioè la disciplina soldatesca, la scarsa cura del corpo, il sudiciume, la promiscuità, la tediosa inoperosità. Come aveva fatto della sua cella una camera confortevole e tiepida, così aveva reso la propria vita normale, dolce, circondata di benessere, occupata e libera.
Come un eremita, era maturo per la solitudine, sfiancato dalla vita da cui non si aspettava più nulla; e come un monaco si sentiva pervaso da un'immensa stanchezza, da un bisogno di raccoglimento, dal desiderio di non avere più nulla in comune con i profani, che per lui erano gli utilitaristi e gli imbecilli.
Insomma, benché non provasse alcuna vocazione per lo stato di grazia, nutriva una sincera simpatia per le persone chiuse nei monasteri, perseguitate da una società malevola che non perdona loro né il giusto disprezzo che hanno per lei, né la risoluta volontà di riscattare, di espiare con un lungo silenzio la spudoratezza sempre crescente delle sue chiacchiere assurde e stupide.




Questo frammento è tratto dalla fine del V capitolo del famoso romanzo Controcorrente (À rebours, Charpentier et Cie, Paris 1884) dello scrittore francese Joris Karl Huysmans (1848-1907). Precisamente, è la fine del V capitolo, in cui viene descritto l'interno dell'abitazione del protagonista: Jean Floressas Des Esseintes. Un uomo, come si può leggere anche qui sopra, ormai lontano dal mondo e dall'umanità, che cerca di costruirsi, grazie ad un benessere non indifferente di cui può godere, una vita fuori della vita. Eccolo allora rinchiudersi nella sua cella di lusso, circondato da piante e libri rari, solo con le sue costose passioni (il Theokópulos di cui si parla all'inizio del frammento è un quadro pregiato e semisconosciuto del pittore greco Domenikos Theokópulos, che raffigura il volto di Gesù). Nei capitoli successivi, si capirà che tali artifizi non serviranno a guarire da una nevrosi che esploderà e porterà Des Esseintes a tentare altre strade per uscire da una situazione esistenziale molto precaria.

venerdì 5 maggio 2017

Stella cadente




Alcuni desideri si adempiranno,
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato -
per quel lucente attimo -
il mio esistere.




Questa breve poesia è di Margherita Guidacci (Firenze 1921 - Roma 1992). Fu pubblicata nella raccolta Anelli del tempo (Città di Vita, Firenze 1993), uscita un anno dopo la morte della poetessa fiorentina; ora si trova nel volume Le poesie (Le Lettere, Firenze 1999) che raccoglie l'intera opera poetica della Guidacci.

Sono pochi versi bellissimi in cui una stella cadente (probabilmente durante una notte di agosto) parla di sé, del suo passaggio splendido e fugace. Come è noto a tutti, esiste una leggenda secondo la quale, nella notte di San Lorenzo, chi riesce ad avvistare una stella cadente può esprimere un suo recondito desiderio ed esso, sicuramente si avvererà. L'inizio della poesia parla, appunto, dei desideri espressi guardando in cielo le cosiddette stelle cadenti (che in realtà sono tutt'altra cosa). Ma, dice la poetessa, al di là dei desideri che si realizzeranno o meno, ciò che conta è il passaggio della stella nel cielo; essa, con la sua scia splendente, anche se del tutto inosservata, rimane comunque qualcosa di significativo; ciò che giustifica la sua irrisoria esistenza è quel lucente attimo che, evidentemente, possiede qualcosa di estremamente importante. Sembrerebbe che la Guidacci abbia paragonato il velocissimo passaggio della stella cadente nel cielo notturno a quello della vita umana sulla terra; da qui la dichiarazione finale che va di pari passo ad una fede religiosa ben radicata: anche la vita che all'apparenza sembri completamente inutile, così come la vita di breve durata ha un significato ed un'importanza.  

Il nunzio

Son solo: ho la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta

quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?

che nuove mi porti?

E cadono l’ore
giú giù, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti...

Che brontoli, o bombo?

che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.



Bombo (Bombus terrestris)



Questa è una poesia di Giovanni Pascoli (1855-1912) che si trova nella raccolta più importante del poeta emiliano: Myricae. Nell'edizione definitiva è inserita quale ottava poesia della sezione Dall'alba al tramonto. Comparve già nella quarta edizione della raccolta citata, edita dalla Tipografia Giusti di Livorno nel 1897.
Non è certamente tra le più conosciute liriche del Pascoli, ma è tra le mie predilette.

Il nunzio del titolo è un bombo, ovvero un insetto appartenente all'ordine degli imenotteri coperto da una peluria folta, che è facile individuare nelle stagioni più calde in molti luoghi di campagna. Ebbene, mentre il poeta si trova in casa immerso nei suoi tetri pensieri, avverte, dai vetri di una finestra, un rumore simile ad un fruscio. Accortosi che si tratta del ronzio di un bombo; vedendolo cozzare ripetutamente contro il vetro quasi a voler entrare nella casa per comunicargli qualcosa d'importante, Pascoli fa una domanda all'animale come se potesse rispondergli, come se in esso si sia reincarnata qualche anima defunta che voglia riferire delle novità importanti. Intanto, però, le ore passano tediosamente, e in quel mentre al poeta tornano nella mente parole di persone morte, forse rievocate dal rumore insistente emesso dall'insetto. Ma è inutile domandare, è inutile anche ricordare: non c'è alcuna risposta al mistero che avvolge la vita umana. Intanto il lugubre rombo dell'imenottero che prova insistentemente, ma senza successo, ad entrare in casa, continua a tormentare la mente del poeta... 

martedì 2 maggio 2017

Ormai, se qualcuno invidio...

  Ormai, se qualcuno invidio, è l'albero.
  Freschezza e innocenza dell'albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l'acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.
  Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!
  Più che d'uomini ho in mente fisionomie d'alberi.
  Ci sono alberi scapigliati e alberi raccolti come mani che pregano.
  Alberi che sono delicate trine sciorinate; altri come ceri pasquali. Alberi patriarcali vasti come case, rotti dalla fatica di spremer fuori la dolcezza dei frutti.
  C'è l'albero della città, grido del verde, unica cosa ingenua nel deserto atroce.
  Ma più di tutti due alberi ricordo, che crescevano da un letto di torrente, allato, come svelti fratelli.

  Essere un albero, un comune albero...



Questa prosa poetica è tratta dal volume Trucioli, di Camillo Sbarbaro (1888-1967), edito nel 1920 presso l'editore Vallecchi in Firenze e riproposto più volte negli anni, fino all'ultima edizione critica a cura di Giampiero Costa uscita nel 1990 grazie all'editore Scheiwiller di Milano (da cui ho selezionato il testo).

È, a mio parere, tra i migliori frammenti in prosa del poeta ligure che qui, inizialmente dichiara la sua sconfinata ammirazione nei confronti degli alberi; quindi, nelle parole finali, esprime un suo recondito desiderio: trasformarsi in uno di essi, diventare un vegetale. Quell'ormai che apre la prosa, sta ad indicare un percorso mentale dello scrittore che è giunto ad un punto d'arrivo sicuro: gli unici esseri viventi che meritano l'invidia umana sono gli alberi; i motivi sono quindi spiegati nelle successive affermazioni, alcune delle quali terminano con un punto esclamativo, quasi a voler manifestare la propria meraviglia di fronte alle specifiche caratteristiche ed ai privilegi posseduti da tutti gli alberi. Siano essi scapigliati, ovvero con rami e foglie sparsi in modo disordinato, o raccolti come i cipressi; siano situati in città, in campagna o sui monti, gli alberi, secondo Sbarbaro, mantengono sempre delle peculiarità che li rendono migliori rispetto a tutti gli altri esseri viventi, forse, anche grazie a quell'ingenuità citata a proposito di quelli cittadini (e qui, ancora una volta, torna la parola deserto a rimarcare l'estrema aridità della vita all'interno degli agglomerati urbani). Ritornando infine all'ultimo desiderio espresso in modo così intenso, mi vengono in mente alcuni versi bellissimi che fanno parte di un'alta opera di Sbarbaro: Pianissimo, in cui il poeta, consapevole della propria precarietà esistenziale, esprime nel finale un'altra aspirazione: tramutarsi in un rùdere, ovvero qualcosa di inanimato, ma che sia però in grado di resistere al tempo e sopravvivere per secoli e secoli: [...] Inerte vorrei esser fatto, / come qualche antichissima rovina, / e guardare succedersi le ore, / e gli uomini mutare i passi, i cieli / all'alba colorirsi, scolorirsi  / a sera...  

lunedì 1 maggio 2017

Clausura

Io son giunto a limitarmi un regno
tutto per me, mirabile e severo.
Simile a un frate austero
sto in una cella bianca
che ha l'uscio al monte, la finestra al mare.
Trascorrere quivi la mia vita eguale,
lenta ed assorta come una preghiera.
Ma qualche sera che il tramonto incendia
l'ultime nubi e incenerisce il cielo
l'anima sbatte come una bandiera.



Questa poesia di Adriano Grande (1897-1972) appartiene alla sezione Pause del volume La tomba verde. La raccolta uscì per la prima volta nel 1929 (edita da Buratti in Torino) ed è stata recentemente riproposta al pubblico della poesia grazie all'editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Sono pochi versi che raccontano di una scelta di vita solitaria e isolata: una sorta di clausura. Un uomo (forse il poeta stesso) ha deciso di porre dei limiti al suo mondo (qui definito regno); ha fatto in modo che la sua casa divenisse una cella di colore bianco, simile a quella dei frati, situata sui monti. Questa piccola stanza ha soltanto una finestra, dalla quale, è possibile osservare il lontano mare. L'uomo ha deciso di trascorrere il resto della propria vita fra queste quattro mura anguste, limitando al massimo i suoi spostamenti; in tal modo il tempo trascorre più lento e ne rimane molto per meditare. Sembrerebbe quasi un letargo, un allontanamento da qualsiasi slancio vitale; se non fosse per quella finestra che dà sul mare e che offre all'uomo ormai completamente estraneo a tutto, l'unico, intenso contatto col mondo esterno. Ed è nelle sere in cui, al tramonto, il sole fa splendere (incendia) le ultime nuvole del giorno e, nello stesso tempo, colora il cielo di un grigio simile a quello della cenere, che l'uomo affacciato alla finestra si emoziona e si esalta davanti al solo spettacolo della natura che il luogo può offrirgli. In quel momento la sua anima assopita si risveglia e si esalta proprio come fa una bandiera esposta ad un forte vento.

Si parla, in breve, delle sensazioni che prova chi vive, per scelta o costrizione, in un luogo chiuso e angusto per un lungo periodo di tempo; può essere il frate o il prigioniero, entrambi per diversi motivi, spesso rintanati in una cella; può essere il malato in quarantena o chiunque abbia deciso di estraniarsi dal resto dell'umanità passando numerosi giorni fra quattro mura. Allora, può essere sufficiente un odore, una piccola visione o perfino un rumore a risvegliare l'anima addormentata, così da far rinascere antichi ricordi e impensate emozioni, oppure a creare, grazie alla fantasia, una serie di immagini e di eventi irreali (a questo proposito, molto bello è il testo della canzone La casa in riva al mare). Mi viene anche in mente, per la sintetica ma quanto mai efficace sensazione che l'anima umana prova di fronte a certe situazioni, la brevissima e celebre poesia di Giuseppe Ungaretti intitolata Mattina.    

domenica 30 aprile 2017

Poeti dimenticati: Eugenio Gara

Nacque a Genova nel 1888 e morì a Milano nel 1985. Debuttò nel mondo della letteratura con un libro di poesie, per poi intraprendere una lunga e prestigiosa carriera di critico musicale (specializzato in operistica); negli anni, collaborò con numerosi giornali pubblicando saggi memorabili. Scrisse anche molti libri, tra i quali vanno ricordati quelli concernenti le biografie del tenore Enrico Caruso e della soprano Maria Callas. Giovanissimo, si dedicò alla poesia pubblicando un volume ed altri versi sparsi in riviste d'inizio Novecento; le sue liriche prediligono i temi cari al decadentismo e al crepuscolarismo, ma a volte compaiono anche alcuni accenti romantici.




Opere poetiche

"La canzone del salice", Stab. Tipografico S. Morano, Napoli 1910.




Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 96-99).




Testi

SPLEEN

Come diventa triste la vita, triste e vana,
quando non si ha più fede, o sorella lontana:
quando le foglie secche de le nostre illusioni
si staccan da la rama di nostra gioventù,
e fugan senza luci, senza direzioni,
fugano solamente per non tornar mai più:
quando l'anima nostra con lo sguardo angosciato
affissa stranamente lo specchio del passato,
e non si riconosce, l'anima appesantita:
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una voce,
una piccola voce, che c'insegni a sperare;
che ci guidi e ci dica: - È questa la tua croce,
è questo il tuo cammino: lo devi camminare.
Una piccola voce che ne i giorni piovosi
ci sollevi lo spirito con i canti armoniosi:
una vocina dolce che ne le notti oscure
ci riconforti l'anima, ingombra di paure:
quando non si ha una voce, che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una mano,
una manina piccola, che ci guidi lontano:
che ci aiuti a salire il periglioso colle:
che ci aiuti a discendere su le invocate zolle:
una manina piccola, che ci prenda pel viso
e c'imprima sul labbro un allegro sorriso:
una piccola mano che ci apra le pupille,
e ci additi i fantasmi vaganti a mille a mille...
Quando non si ha una mano che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Adesso, sorellina, io non so che viare,
viare lentamente, senza giammai sostare:
io non so che viare lungo i fondi sentieri
con il triste fardello de' miei tristi pensieri:
viare senza mèta - sia lontana o vicina -,
viare trascinando l'anima pellegrina:
viare etrnamente senza luce d'amore,
senza gloria di cielo, col mio pesante cuore...
O sorella lontana, mi vorresti aiutare?
Io non so che morire, e viare, viare...
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .


(Da "La canzone del salice")