Chi non ha mai sognato una casa ideale per i propri gusti, situata in un luogo perfetto: in riva al mare, in montagna oppure in campagna? E chi non ha vissuto un periodo della propria vita - giorni, mesi o anni - in una casa che gli è rimasta nel cuore, di cui ricorda tanti piccoli particolari, perché quel periodo è rimasto, nella sua memoria, come qualcosa di irripetibile per la felicità vissuta? Le dieci poesie che ho riunito in questo post parlano, appunto, di case - siano esse reali o immaginarie - rimaste nella mente dei poeti. Si comincia con dieci versi di Sibilla Aleramo, che parla di una casa bellissima, in cui ha vissuto poco tempo; la donna, che quando scrisse questa poesia ancora vi risiedeva, si chiede come potrà, di lì a breve, lasciare quella splendida dimora. Sia Corrado Alvaro che Giuseppe Casalinuovo, parlano delle loro nuove case che divideranno con le compagne; entrambi, rivolgendosi alle loro donne, enumerano le stanze in cui vivranno per anni e anni, a volte raccomandandosi per cure da destinarsi ad oggetti particolarmente cari e a volte progettando future nascite e nuove, gradite presenze all’interno dell’abitazione. Alfredo Baccelli, invece, descrive una stupenda casa che si trova in montagna, sulle Alpi; parla prima degli interni assai accoglienti, e poi dei simpatici animali che vivono all’esterno di essa. Carlo Betocchi dedica alcuni versi alla casa che ebbe da ragazzo, mentre Claudio Damiani parla di una casa abbandonata dove, forse in un lontano passato, ha vissuto felicemente insieme ad una donna; la casa, ora, prova delle sensazioni simili a quelle di un essere umano: avverte la solitudine, non parla mai, e attende che almeno uno dei due che la abitarono, voglia ritornarvi, così da poterlo abbracciare e, piena di gioia, poter spalancare tutte le finestre che, da quando è sola, sono rimaste sempre serrate. Ritengo del tutto inutile parlare di una poesia famosissima e bellissima, quale è La casa dei doganieri di Eugenio Montale, poiché moltissimi lettori già la conoscono, e comunque possono trovare migliaia di commenti che la riguardano. Famosa fu, a suo tempo, anche la poesia di Angiolo Silvio Novaro, che è dedicata ad una fantasiosa “Casa delle farfalle”; i coloratissimi insetti, divengono qui simbolo di felicità e, come quest’ultima, sono destinati a scomparire velocemente, lasciando chi l’ha provata - in questo caso la compagna del poeta - costernato ed affranto. Assai fantasiosa è anche la “Casa di Mara” descritta da Aldo Palazzeschi: si tratta di una piccolissima abitazione (soltanto una stanza), situata vicino ad una ferrovia; all’interno ci vive una signora molto anziana che si chiama Mara; la vecchina trascorre tutte le sue giornate filando assiduamente; si distrae appena dal lavoro che svolge in modo maniacale, soltanto quando passa qualche treno sulla ferrovia adiacente: soltanto in quel momento la donna alza la testa un istante e guarda il convoglio che velocemente le passa accanto; poi riprende il suo lavoro infinito. Infine, c’è una poesia di Yosto Randaccio che parla di una tanto desiderata casetta bianca; il poeta chiede ad Anna – la sua compagna – se ricorda quei giorni in cui, tutti e due, agognavano di vivere in tale casetta candida e piccina, situata su una collina o su una spiaggia; quel desiderio ora sembra divenuto realtà, poiché i due hanno trovato, tutta per loro, la casa sognata: bianca, piccola, situata su di una collina con la la spiaggia a pochissima distanza; così, finalmente, i due innamorati possono fantasticare sul loro felicissimo futuro, che li vedrà nella casetta, fino a quando la morte li separerà.
O CASA, LA PIÙ BELLA
di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960)
O casa, la più
bella della terra,
a me concessa per
un tempo breve,
troppo bella,
come potrò lasciarti?
Ma se dal cielo
un fuoco
Non cadrà sopra
l’isola beata,
m’avanzerà
l’inverno con gli alterni uragani
e le schiarite
provvide di sole,
sovrana
m’avanzerà la primavera
con le gialle
ginestre e le lunghe sere
annunziate dalla
stella chiara di Venere…
(da “Tutte le
poesie”, Mondadori, Milano 2004, p. 109)
LA CASA
di Corrado Alvaro (1895-1956)
Questa è la tua
nuova casa
Che abbiamo tanto
sognata.
A me bastava
poterti avere
Col tuo cassone
pieno di ricami:
a te, un lume
presso la poltrona
per aspettare
quando è sera.
Abbiamo portati
gli oggetti
Di quando eravamo
figlioli:
una scatola di
bottoni
che, quando eri
bambina,
quelli neri erano
i popolani,
quelli di
madreperla i signori.
Eri esatta come
la vita.
Ora che servono,
si pensa
a qualcosa di
risparmiato.
La casa è
piccola. Piano piano
diventa la casa
nostra.
S’impara il
segreto della porta.
Hanno gli oggetti
un loro posto eterno,
modeste come
imperiture
che ci legano il
cuore
quasi per un
segreto comune.
Nella stanza del
nostro lavoro
Sono troppo alti
gli specchi
E si mandano una
luce d’oro.
S’entra
improvvisamente
Come per
sorprendere un segreto.
S’accende la
luce: le ombre
Fuggono intorno e
si stanno in silenzio.
Questa è la
tavola. Vi mangeremo
il piatto
domenicale
tra il vin che
sprizza come un compagno.
Questa sarà l’ora
per dirci
quel che ci siamo
serbato.
Ma tuo figlio
t’ha chiamato,
m’ha chiamato il
mio lavoro
e resteremo uno
di fronte all’altro
come quei due
specchi d’oro.
Questo è il
nostro letto grande
Per chi nasce e
per chi muore
ché stretto è il
letto del piacere.
T’abbraccerai
all’origliere
dopo la giornata
lavorata,
e sentirai il tuo
sangue nelle vene
che quasi vuole
radicarsi in terra
tanto la
stanchezza è cosa terrena.
Quando tuo figlio
vorrà camminare
svolazzando con
le braccine,
sgombereremo la
casa, ci faremo
ansiosamente
lungo il muro.
Quello che
abbiamo raccolto ed amato
sarà una
difficoltà per lui,
a questo
forestiero scivolato
tra noi mentre
stavamo sicuri.
Un dì
improvvisamente negli specchi
ci vedremo per
casa in faccende.
Ci accorgeremo
d’esser vecchi.
L’amore, che
tradimento!
(da “Il viaggio”,
Felzea Editore, Reggio Calabria 1999, pp. 131-132)
LA CASA ALPINA
di Alfredo
Baccelli (1863-1955)
Bruna casetta di
contesto abete,
Sepolta, di Natal,
sotto le nevi,
Come lucida e
gaia ti sollevi
Ora nell'ombra
delle tue pinete!
Per voi, fiamme,
che fulgide arderete
Odoran già,
stipati, i ceppi grevi:
Gerani sul
balcone e su le brevi
Soglie il pajolo.
Intorno una quiete!
Razzola
gracilando la gallina
Per lo stazzo, e
sul tetto un micio nero
Si crogiola del
sole alto nel caldo.
Ai primi passi
incerta una bambina
Sui nudi piè
traballa pel sentiero:
È tutta l'aria
liquido smeraldo.
(da "Alle
porte del cielo", Zanichelli, Bologna 1921, p. 4)
LA MIA CASA DA RAGAZZO
di Carlo Betocchi
(1899-1986)
La mia casa,
ebbi, ragazzo,
Porta al Prato,
vicino all'angolo;
là, sul letto, mi
morì il babbo
là rimasi con
mamma e l'Angelo.
Con le sue
facciate oblique
stranamente
piantate in terra,
la mia casa,
persiane grigie,
con il mondo
partiva in guerra.
L'ombra interna
sputava lingue
di dolcezza
nell'intensità
dell'azzurro, che
non distingue
case da alberi,
giorni da età.
Brancolava per
l'aria il tetto
popolato di
tegole rosse,
i colombi ed un
sogno perfetto
di campane
sapevan chi fosse.
E nei fondi,
nelle cantine,
cucinavano per
trattoria,
la domenica era
sublime
di tovaglie,
bicchieri, allegria.
E con quest'occhi
allineavo
la mia gronda con
la mia anima,
come Ulisse
dormiva in Itaca
quando il suo
cane abbaiava.
(da "Tutte
le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 415-416)
LA CASA
di Giuseppe
Casalinuovo (1885-1942)
Le tue piccole
mani
ordineranno
tutto, poi, domani.
Mancano molte
cose,
sì, lo so: le
rose
sul camino,
e qua vicino
ci vuole un
ninnolo, ci vuole
qua dentro un po’
di viole...
Sì, domani,
ordineranno tutto
le tue mani.
Io non ho fatto
nulla,
proprio nulla;
tutto è
arruffato, sì,
tutto è così.
Ma non è mia la
casa, come sai:
la casa è
dell’amore.
Domani,
con le tue
piccole mani,
farai ciò che
vorrai,
perché, come tu
sai,
tu sei l’amore!
Io voglio solo,
senti:
voglio che ti
rammenti,
(quando sarai di
là nel mio studiolo,
dove per te
lavoro solo solo)
d’essere un poco
accorta;
voglio che tu mi
lasci, come ho fatto,
tra le carte ed i
libri, il tuo ritratto
vicino a quello
di mia Madre morta.
(da
"Dall'ombra", Società Trpografico-Editrice Nazionale, Torino 1907)
E LA CASA STA
ZITTA CHIUSA
di Claudio
Damiani (1957)
E la casa sta
zitta chiusa
perché nessuno è
più entrato.
Se ti vedesse,
aprirebbe le finestre
e correrebbe
sulla via per abbracciarti.
La via, è sempre
così erta,
e crescono sul
margine i ciclamini.
La casa, ora, è
sola nel giardino
tra le punte dei
due cipressi che frusciano.
Il cipresso che
era malato, e era piegato
adesso è tornato
dritto,
tutti e due sono
così grandi, e belli,
e difendono la
casa.
(da "La
miniera", Fazi Editore, Roma 1997, p. 114)
LA CASA DEI
DOGANIERI
di Eugenio
Montale (1896-1981)
Tu non ricordi la
casa dei doganieri
sul rialzo a
strapiombo sulla scogliera:
desolata
t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo
sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò
irrequieto.
Libeccio sferza
da anni le vecchie mura
e il suono del
tuo riso non è più lieto:
la bussola va
impazzita all’avventura
e il calcolo dei
dadi più non torna.
Tu non ricordi;
altro tempo frastorna
la tua memoria;
un filo s’addipana.
Ne tengo ancora
un capo; ma s’allontana
la casa e in cima
al tetto la banderuola
affumicata gira
senza pietà.
Ne tengo un capo;
ma tu resti sola
né qui respiri
nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in
fuga, dove s’accende
rara la luce
della petroliera!
Il varco è qui?
(Ripullula il frangente
ancora sulla
balza che scoscende...)
Tu non ricordi la
casa di questa
mia sera. Ed io
non so chi va e chi resta.
(da "Tutte
le poesie", Mondadori, Milano 1996, p. 167)
LA CASA DELLE
FARFALLE
di Angiolo Silvio
Novaro (1866-1938)
Settembre andava per la valle
Tirandosi dietro
gli ori suoi
Lento come al
giogo i buoi,
E noi abitavamo
felici
La casa che tu
dici
Delle farfalle.
Le farfalle erano senza fine
Leggiadre:
candide cenerine
Gialle cernie
verdine:
Vestite di sete e
mussoline,
Così fragili,
così fine!
Trepidavano in folla
ai vetri,
Sfioravano tende
e pareti:
Di semplici e
cheti
Giri di danza
Empievano
l'estatica stanza:
Finché sazie del
moto perenne
Si posavano: ed
erano gemme.
Erano la più vaga cosa
Del mondo: la
gioia che non osa
Traboccare nel
canto,
La poesia che
ricusa
L'aiuto del
verso,
L'imagine della
mia musa,
La freschezza del
nostro cuore,
L'elogio del
nostro amore
Sempre uguale e
diverso, —
E ti piacevano
tanto!
Ma un giorno io ti dissi, Dama,
Il mio mare mi
richiama:
Mi segua chi
m'ama!
Tu non scotesti
le spalle
Ma rispondesti,
Addio. — Le farfalle
Ti piacevano
tanto!
Lasciarle, ne
avresti pianto.
E rimanesti,
ribelle.
Erano tue sorelle
O tue cugine?
Così fragili,
così fine
Vestite di sete e
mussoline!
Ma il crudo ottobre tenne dietro al mite
Settembre, e
arrugginì la vite,
E coperse di
nebbie la valle,
E tu sentivi
freddo alle spalle
E rabbrividivi
sotto il tuo scialle:
Quando un mattino
ecco le tue farfalle
Stese a terra,
irrigidite!
Allora tu forse piangesti
Scrivendomi, Che
giorni, questi!
Che dolorosa
sorte!
Le farfalle sono
morte!
Questo funebre
soggiorno
Mi pesa: ritorno.
E venisti, o amica moglie
All'abbagliata
riva
Ove il lussuoso
oriente
Con palme e
datteri arriva,
E pini e cipressi
dondolano illesi
Al sole tutti i
dodici mesi,
E la Musa ingenua
e schiva
Torna a sera da
reami
Sconosciuti che
tu ami,
Con bracciate di
rosette scempie,
E te n'empie
Le soglie.
(da "Il
cuore nascosto", Treves, Milano 1920, pp. 89-93)
LA CASA DI MARA
di Aldo
Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)
La casa di Mara
è una piccola
stanza di legno.
A lato un
cipresso l'adombra nel giorno.
Davanti vi
corrono i treni.
Seduta nell'ombra
dell'alto cipresso
sta Mara filando.
La vecchia ha
cent'anni,
e vive filando in
quell'ombra.
I treni le corron
veloci davanti
portando la gente
lontano.
Ell'alza la testa
un istante
e presto il
lavoro riprende.
I treni
mugghiando
s'incrocian
dinanzi alla casa di Mara volando.
Ell'alza la testa
un istante
e presto il
lavoro riprende.
(da
"Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 71-72)
CASETTA BIANCA
di Yosto
Randaccio (1880-1965)
Non è la suggestione
d'un'ala di
gabbiano,
d'un picco di
neve lontano,
ma il sogno de
l'anima stanca,
il desiderio
d'una casa bianca
in seno a una
collina,
o in faccia a la
marina
armoniosa.
Rammenti tu pure? Che cosa
rammenti? Era un
mattino
turchino, sì
turchino
che pareva
innaturale
ineffabile,
ideale.
E dicemmo... Che
cosa, rammenti,
dicemmo? Parole
languenti
profondamente.
Ma di che cosa si faceva ardente
l'anima, quella
che trassi a la vetta
radiosa,
benedetta?
Rammenti?
Vibravano i sogni.
Era un palpito
per ogni
attimo: una
fiamma vermiglia,
ne l'ombra de le
ciglia.
La voluttà
languiva.
E l'anima nostra sentiva
cupidamente il
peccato.
Che cosa cercavi con
l'occhio velato
di sogno?
Guardavi lontano
oltre il
desiderio umano?
A quale orizzonte
anelava
s'appassionava
l'anima nostra
selvaggia?
Lontano! Una spiaggia
sonora, una
collina
smeraldina, una
casa piccina
così, tutta sole
e susurro.
E sopra l'azzurro
del cielo, e
vicino la voce del mare
solenne per
abbandonare
l'anima stanca
d'amore.
Questo era il sogno del cuore.
Una casetta
bianca, ma chi allora
nel languore
profano de l'ora
disse tutte
queste cose
deliziose?
Tu? Ah come
sentivo tremare
tremare tremare
la carne stanca!
Ed ora, Anna, ecco la casa bianca
creata dal nostro
desìo
d'amore. È al
solatìo
la casa bianca,
in vetta a una collina
e in faccia a la
marina
armoniosa.
Guarda: non pare
una vela dal mare
quando il mare è
tutto verde?
Sentiremo il profumo de l'erbe
montanine e
coralline,
e un profumo più
dolce e più fine
sentiremo,
quando passeremo
su gli invisibili
fiori
de i nostri
simbolici amori,
per languire,
per soffrire, per
morire!
Sogni? Ma dimmi
che cosa
faremo ne la casa
silenziosa
quando saremo
insieme
soli ne le
estreme
suggestioni
de l'amore, ne le
tentazioni
del piacere?
Oggi mi pare di vedere
il sorriso
assenziente
su la tua bocca
selvaggiamente
ardente. E
aspetto una parola
una parola sola
d'ebrezza
di dolcezza
di passione.
(da «Rivista di
Roma», 13 novembre 1904)