domenica 26 maggio 2024

Le case in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Chi non ha mai sognato una casa ideale per i propri gusti, situata in un luogo perfetto: in riva al mare, in montagna oppure in campagna? E chi non ha vissuto un periodo della propria vita - giorni, mesi o anni  - in una casa che gli è rimasta nel cuore, di cui ricorda tanti piccoli particolari, perché quel periodo è rimasto, nella sua memoria, come qualcosa di irripetibile per la felicità vissuta? Le dieci poesie che ho riunito in questo post parlano, appunto, di case - siano esse reali o immaginarie - rimaste nella mente dei poeti. Si comincia con dieci versi di Sibilla Aleramo, che parla di una casa bellissima, in cui ha vissuto poco tempo; la donna, che quando scrisse questa poesia ancora vi risiedeva, si chiede come potrà, di lì a breve, lasciare quella splendida dimora. Sia Corrado Alvaro che Giuseppe Casalinuovo, parlano delle loro nuove case che divideranno con le compagne; entrambi, rivolgendosi alle loro donne, enumerano le stanze in cui vivranno per anni e anni, a volte raccomandandosi per cure da destinarsi ad oggetti particolarmente cari e a volte progettando future nascite e nuove, gradite presenze all’interno dell’abitazione. Alfredo Baccelli, invece, descrive una stupenda casa che si trova in montagna, sulle Alpi; parla prima degli interni assai accoglienti, e poi dei simpatici animali che vivono all’esterno di essa. Carlo Betocchi dedica alcuni versi alla casa che ebbe da ragazzo, mentre Claudio Damiani parla di una casa abbandonata dove, forse in un lontano passato, ha vissuto felicemente insieme ad una donna; la casa, ora, prova delle sensazioni simili a quelle di un essere umano: avverte la solitudine, non parla mai, e attende che almeno uno dei due che la abitarono, voglia ritornarvi, così da poterlo abbracciare e, piena di gioia, poter spalancare tutte le finestre che, da quando è sola, sono rimaste sempre serrate. Ritengo del tutto inutile parlare di una poesia famosissima e bellissima, quale è La casa dei doganieri di Eugenio Montale, poiché moltissimi lettori già la conoscono, e comunque possono trovare migliaia di commenti che la riguardano. Famosa fu, a suo tempo, anche la poesia di Angiolo Silvio Novaro, che è dedicata ad una fantasiosa “Casa delle farfalle”; i coloratissimi insetti, divengono qui simbolo di felicità e, come quest’ultima, sono destinati a scomparire velocemente, lasciando chi l’ha provata - in questo caso la compagna del poeta - costernato ed affranto. Assai fantasiosa è anche la “Casa di Mara” descritta da Aldo Palazzeschi: si tratta di una piccolissima abitazione (soltanto una stanza), situata vicino ad una ferrovia; all’interno ci vive una signora molto anziana che si chiama Mara; la vecchina trascorre tutte le sue giornate filando assiduamente; si distrae appena dal lavoro che svolge in modo maniacale, soltanto quando passa qualche treno sulla ferrovia adiacente: soltanto in quel momento la donna alza la testa un istante e guarda il convoglio che velocemente le passa accanto; poi riprende il suo lavoro infinito. Infine, c’è una poesia di Yosto Randaccio che parla di una tanto desiderata casetta bianca; il poeta chiede ad Anna – la sua compagna – se ricorda quei giorni in cui, tutti e due, agognavano di vivere in tale casetta candida e piccina, situata su una collina o su una spiaggia; quel desiderio ora sembra divenuto realtà, poiché i due hanno trovato, tutta per loro, la casa sognata: bianca, piccola, situata su di una collina con la la spiaggia a pochissima distanza; così, finalmente, i due innamorati possono fantasticare sul loro felicissimo futuro, che li vedrà nella casetta, fino a quando la morte li separerà.

 

 

LE CASE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO 

 

 

O CASA, LA PIÙ BELLA

di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960)

 

O casa, la più bella della terra,

a me concessa per un tempo breve,

troppo bella, come potrò lasciarti?

Ma se dal cielo un fuoco

Non cadrà sopra l’isola beata,

m’avanzerà l’inverno con gli alterni uragani

e le schiarite provvide di sole,

sovrana m’avanzerà la primavera

con le gialle ginestre e le lunghe sere

annunziate dalla stella chiara di Venere…

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2004, p. 109)

 

 

 

 

LA CASA

di Corrado Alvaro (1895-1956)

 

Questa è la tua nuova casa

Che abbiamo tanto sognata.

A me bastava poterti avere

Col tuo cassone pieno di ricami:

a te, un lume presso la poltrona

per aspettare quando è sera.

 

Abbiamo portati gli oggetti

Di quando eravamo figlioli:

una scatola di bottoni

che, quando eri bambina,

quelli neri erano i popolani,

quelli di madreperla i signori.

Eri esatta come la vita.

Ora che servono, si pensa

a qualcosa di risparmiato.

 

La casa è piccola. Piano piano

diventa la casa nostra.

S’impara il segreto della porta.

Hanno gli oggetti un loro posto eterno,

modeste come imperiture

che ci legano il cuore

quasi per un segreto comune.

 

Nella stanza del nostro lavoro

Sono troppo alti gli specchi

E si mandano una luce d’oro.

S’entra improvvisamente

Come per sorprendere un segreto.

S’accende la luce: le ombre

Fuggono intorno e si stanno in silenzio.

 

Questa è la tavola. Vi mangeremo

il piatto domenicale

tra il vin che sprizza come un compagno.

Questa sarà l’ora per dirci

quel che ci siamo serbato.

Ma tuo figlio t’ha chiamato,

m’ha chiamato il mio lavoro

e resteremo uno di fronte all’altro

come quei due specchi d’oro.

 

Questo è il nostro letto grande

Per chi nasce e per chi muore

ché stretto è il letto del piacere.

T’abbraccerai all’origliere

dopo la giornata lavorata,

e sentirai il tuo sangue nelle vene

che quasi vuole radicarsi in terra

tanto la stanchezza è cosa terrena.

 

Quando tuo figlio vorrà camminare

svolazzando con le braccine,

sgombereremo la casa, ci faremo

ansiosamente lungo il muro.

Quello che abbiamo raccolto ed amato

sarà una difficoltà per lui,

a questo forestiero scivolato

tra noi mentre stavamo sicuri.

 

Un dì improvvisamente negli specchi

ci vedremo per casa in faccende.

Ci accorgeremo d’esser vecchi.

L’amore, che tradimento!

 

(da “Il viaggio”, Felzea Editore, Reggio Calabria 1999, pp. 131-132)   

 

 

 

 

LA CASA ALPINA

di Alfredo Baccelli (1863-1955)

 

Bruna casetta di contesto abete,

Sepolta, di Natal, sotto le nevi,

Come lucida e gaia ti sollevi

Ora nell'ombra delle tue pinete!

 

Per voi, fiamme, che fulgide arderete

Odoran già, stipati, i ceppi grevi:

Gerani sul balcone e su le brevi

Soglie il pajolo. Intorno una quiete!

 

Razzola gracilando la gallina

Per lo stazzo, e sul tetto un micio nero

Si crogiola del sole alto nel caldo.

 

Ai primi passi incerta una bambina

Sui nudi piè traballa pel sentiero:

È tutta l'aria liquido smeraldo.

 

(da "Alle porte del cielo", Zanichelli, Bologna 1921, p. 4)

 

 

 

 

LA MIA CASA DA RAGAZZO

di Carlo Betocchi (1899-1986)

 

La mia casa, ebbi, ragazzo,

Porta al Prato, vicino all'angolo;

là, sul letto, mi morì il babbo

là rimasi con mamma e l'Angelo.

 

Con le sue facciate oblique

stranamente piantate in terra,

la mia casa, persiane grigie,

con il mondo partiva in guerra.

 

L'ombra interna sputava lingue

di dolcezza nell'intensità

dell'azzurro, che non distingue

case da alberi, giorni da età.

Brancolava per l'aria il tetto

popolato di tegole rosse,

i colombi ed un sogno perfetto

di campane sapevan chi fosse.

 

E nei fondi, nelle cantine,

cucinavano per trattoria,

la domenica era sublime

di tovaglie, bicchieri, allegria.

 

E con quest'occhi allineavo

la mia gronda con la mia anima,

come Ulisse dormiva in Itaca

quando il suo cane abbaiava.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 415-416)

 

 

 

 

LA CASA

di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)

 

Le tue piccole mani

ordineranno tutto, poi, domani.

Mancano molte cose,

sì, lo so: le rose

sul camino,

e qua vicino

ci vuole un ninnolo, ci vuole

qua dentro un po’ di viole...

Sì, domani,

ordineranno tutto le tue mani.

 

Io non ho fatto nulla,

proprio nulla;

tutto è arruffato, sì,

tutto è così.

Ma non è mia la casa, come sai:

la casa è dell’amore.

Domani,

con le tue piccole mani,

farai ciò che vorrai,

perché, come tu sai,

tu sei l’amore!

 

Io voglio solo, senti:

voglio che ti rammenti,

(quando sarai di là nel mio studiolo,

dove per te lavoro solo solo)

d’essere un poco accorta;

voglio che tu mi lasci, come ho fatto,

tra le carte ed i libri, il tuo ritratto

vicino a quello di mia Madre morta.

 

(da "Dall'ombra", Società Trpografico-Editrice Nazionale, Torino 1907)

 

 

 

 

E LA CASA STA ZITTA CHIUSA

di Claudio Damiani (1957)

 

E la casa sta zitta chiusa

perché nessuno è più entrato.

Se ti vedesse, aprirebbe le finestre

e correrebbe sulla via per abbracciarti.

La via, è sempre così erta,

e crescono sul margine i ciclamini.

La casa, ora, è sola nel giardino

tra le punte dei due cipressi che frusciano.

Il cipresso che era malato, e era piegato

adesso è tornato dritto,

tutti e due sono così grandi, e belli,

e difendono la casa.

 

(da "La miniera", Fazi Editore, Roma 1997, p. 114)

 

 

 

 

LA CASA DEI DOGANIERI

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.

 

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

 

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.

 

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende...)

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1996, p. 167)

 

 

 

 

LA CASA DELLE FARFALLE

di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

 

  Settembre andava per la valle

Tirandosi dietro gli ori suoi

Lento come al giogo i buoi,

E noi abitavamo felici

La casa che tu dici

Delle farfalle.

 

  Le farfalle erano senza fine

Leggiadre: candide cenerine

Gialle cernie verdine:

Vestite di sete e mussoline,

Così fragili, così fine!

Trepidavano in folla ai vetri,

Sfioravano tende e pareti:

Di semplici e cheti

Giri di danza

Empievano l'estatica stanza:

Finché sazie del moto perenne

Si posavano: ed erano gemme.

 

  Erano la più vaga cosa

Del mondo: la gioia che non osa

Traboccare nel canto,

La poesia che ricusa

L'aiuto del verso,

L'imagine della mia musa,

La freschezza del nostro cuore,

L'elogio del nostro amore

Sempre uguale e diverso, —

E ti piacevano tanto!

 

  Ma un giorno io ti dissi, Dama,

Il mio mare mi richiama:

Mi segua chi m'ama!

Tu non scotesti le spalle

Ma rispondesti, Addio. — Le farfalle

Ti piacevano tanto!

Lasciarle, ne avresti pianto.

E rimanesti, ribelle.

Erano tue sorelle

O tue cugine?

Così fragili, così fine

Vestite di sete e mussoline!

 

  Ma il crudo ottobre tenne dietro al mite

Settembre, e arrugginì la vite,

E coperse di nebbie la valle,

E tu sentivi freddo alle spalle

E rabbrividivi sotto il tuo scialle:

Quando un mattino ecco le tue farfalle

Stese a terra, irrigidite!

 

  Allora tu forse piangesti

Scrivendomi, Che giorni, questi!

Che dolorosa sorte!

Le farfalle sono morte!

Questo funebre soggiorno

Mi pesa: ritorno.

 

  E venisti, o amica moglie

All'abbagliata riva

Ove il lussuoso oriente

Con palme e datteri arriva,

E pini e cipressi dondolano illesi

Al sole tutti i dodici mesi,

E la Musa ingenua e schiva

Torna a sera da reami

Sconosciuti che tu ami,

Con bracciate di rosette scempie,

E te n'empie

Le soglie.

 

(da "Il cuore nascosto", Treves, Milano 1920, pp. 89-93)

 

 

 

 

LA CASA DI MARA

di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)

 

La casa di Mara

è una piccola stanza di legno.

A lato un cipresso l'adombra nel giorno.

Davanti vi corrono i treni.

Seduta nell'ombra dell'alto cipresso

sta Mara filando.

La vecchia ha cent'anni,

e vive filando in quell'ombra.

I treni le corron veloci davanti

portando la gente lontano.

Ell'alza la testa un istante

e presto il lavoro riprende.

I treni mugghiando

s'incrocian dinanzi alla casa di Mara volando.

Ell'alza la testa un istante

e presto il lavoro riprende.

 

(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 71-72)

 

 

 

 

CASETTA BIANCA

di Yosto Randaccio (1880-1965)

 

  Non è la suggestione

d'un'ala di gabbiano,

d'un picco di neve lontano,

ma il sogno de l'anima stanca,

il desiderio d'una casa bianca

in seno a una collina,

o in faccia a la marina

armoniosa.

 

  Rammenti tu pure? Che cosa

rammenti? Era un mattino

turchino, sì turchino

che pareva innaturale

ineffabile, ideale.

E dicemmo... Che cosa, rammenti,

dicemmo? Parole languenti

profondamente.

 

  Ma di che cosa si faceva ardente

l'anima, quella che trassi a la vetta

radiosa, benedetta?

Rammenti? Vibravano i sogni.

Era un palpito per ogni

attimo: una fiamma vermiglia,

ne l'ombra de le ciglia.

La voluttà languiva.

 

  E l'anima nostra sentiva

cupidamente il peccato.

Che cosa cercavi con l'occhio velato

di sogno? Guardavi lontano

oltre il desiderio umano?

A quale orizzonte anelava

s'appassionava

l'anima nostra selvaggia?

 

  Lontano! Una spiaggia

sonora, una collina

smeraldina, una casa piccina

così, tutta sole e susurro.

E sopra l'azzurro

del cielo, e vicino la voce del mare

solenne per abbandonare

l'anima stanca d'amore.

 

  Questo era il sogno del cuore.

Una casetta bianca, ma chi allora

nel languore profano de l'ora

disse tutte queste cose

deliziose?

Tu? Ah come sentivo tremare

tremare tremare

la carne stanca!

 

  Ed ora, Anna, ecco la casa bianca

creata dal nostro desìo

d'amore. È al solatìo

la casa bianca, in vetta a una collina

e in faccia a la marina

armoniosa. Guarda: non pare

una vela dal mare

quando il mare è tutto verde?

 

  Sentiremo il profumo de l'erbe

montanine e coralline,

e un profumo più dolce e più fine

sentiremo,

quando passeremo

su gli invisibili fiori

de i nostri simbolici amori,

per languire,

 

per soffrire, per morire!

Sogni? Ma dimmi che cosa

faremo ne la casa silenziosa

quando saremo insieme

soli ne le estreme

suggestioni

de l'amore, ne le tentazioni

del piacere?

 

  Oggi mi pare di vedere

il sorriso assenziente

su la tua bocca selvaggiamente

ardente. E aspetto una parola

una parola sola

d'ebrezza

di dolcezza

di passione.

 

(da «Rivista di Roma», 13 novembre 1904)

 



domenica 19 maggio 2024

Riviste: "Il Frontespizio"

 

Il Frontespizio nacque come rassegna bibliografica della Libreria Editrice Fiorentina nel 1929. Divenne rivista letteraria all’incirca un anno dopo, dimostrando immediatamente una spiccata preferenza per gli scrittori di orientamento cattolico. Alla direzione del Frontespizio si alternarono Enrico Lucatello, Piero Bargellini e Barna Occhini fino al 1940: anno in cui cessarono le pubblicazioni della rivista. Nelle pagine del Frontespizio, che acquisì un pubblico sempre più vasto, attraverso gli anni, divenne storico il contrasto tra due gruppi di intellettuali ben distinti: da una parte i “tradizionalisti” rappresentati da Papini, Occhini e Bargellini; dall’altra gli “ermetici” riuniti intorno all’eminente figura di Carlo Bo (Luzi, Parronchi, Macrì e altri). Tale contrasto divenne sempre più accentuato, fino alla secessione di Bo e sodali avvenuta nel 1938. Vi erano però anche altri scrittori, come Carlo Betocchi e Nicola Lisi, i quali non parteciparono direttamente alle polemiche e agli scontri verbali dei gruppi citati, preferendo una posizione neutrale e pubblicando sia poesie che prose del tutto staccate dagli orientamenti che erano più in voga durante quel preciso periodo storico. I testi che riporto a conclusione di questo post, sono proprio di questi ultimi intellettuali.

 

 


 

 

CHI S'ALZA ALLA FATICA

di Carlo Betocchi (1899-1986)

 

Si coloravan le nubi coi fuochi nascenti

quand'io nacqui al giorno fuori della cupa notte,

teneri idilli mescevano l'ombre coi venti

danzando sugli orli delle invallate grotte.

 

Chi s'alza alla fatica è timido, chiede al cielo

pane e perdono per tutto quell'intero giorno.

i monti solenni non osan togliere il velo

ai loro alberi finché non sia ben certo il giorno.

 

Né ancor la casa, di cuor piena, esclama: - Io a te, cielo! -

morta e profonda stando sul tranquillo colle:

la solitudine stende l'ali sull'intero

mondo, la terra come lacrime tien le zolle,

 

ma io, sotto i tuoi piangenti occhi, celeste alba,

perché sono un'anima incedo gagliardamente,

tra le cose tremanti, nella tua luce scialba,

col mio cuore leggero, a una fatica innocente.

 

(da «Il Frontespizio», gennaio 1933)

 

 

 

 

Da INCONTRI DELL’ANIMA

di Nicola Lisi (1893-1975)

 

2.

Una mattina insieme alla chiarezza del giorno vidi giungere una farfalla eccezionale soprattutto per la sua grandezza in un prato con radi e vecchi castagni (un breve ripiano sulle pendici della montagna) che attraversò col volar punteggiato, scherzoso delle farfalle. Rimasi per un istante irresoluto se correrle incontro ed abbatterla con un colpo della bacchetta che avevo in mano, un colpo misurato in diritto sul corpo molle, in modo da poterla portare e conservare in città con le sue grandi ali intatte, a meravigliare chi l'avesse veduta; ma quel pensiero affondò, scomparve nella profonda quiete della mia anima.

  Ero seduto poco discosto dalla sua direzione di volo ed intuivo che non mi avrebbe scansato; difatti mi passò d'accanto quasi sfiorandomi per cui mi fu possibile posar lo sguardo sulle ali distese, come sulle pagine aperte di un libro. Erano di color bianchissimo con una piccola orlatura nera anche lungo il corpo di questo stesso colore.

  La seguii attentamente lungo il suo andare fino a un'altra muriccia, che mi nascondeva per tutta la sua lunghezza ogni orizzonte terrestre. Dietro a quella scomparve. Ma nella stessa direzione da cui era venuta sopraggiungeva un nuvolo e neanche poteva dirsi un nuvolo, bensì propriamente una sfera formata da tante comuni farfalle, spaziate e circondate dalla prima luce del sole. Esse passaron pure aldisopra della muriccia andando certo dov'ella era andata.

  Nel pomeriggio ritornai nel prato. Avevo l'assoluta convinzione di assistere al ritorno della grande farfalla, stimando il suo viaggio legato con la fase di quello stesso giorno. Difatti quando il cielo cominciò a scolorirsi di luce e a rifarsi di stelle sulla muriccia si elevò la farfalla che io non posso fare a meno di chiamar regale.

  Evidentemente rifaceva il tragitto della mattina e poiché ero ritornato nello stesso posto mi sarebbe ripassata d'accanto. Così fu. Ma era poi questa la stessa? Aveva le ali nere, bianco il corpo e la orlatura delle ali.

  Eppure, nonostante la inversione dei colori non poteva essere un'altra. L'invariabilità della grandezza, nel volo, nella direzione, la stessa regalità ne costituivan la prova. E a farmi sorridere poi anche dello stesso dubbio venne la palla viva di ali appuntite a contatto con il silenzioso volo delle tenebre come al mattino lo era stata con la prima luce.

 

(da «Il Frontespizio», ottobre 1933)