PASSEGGIATA MINIMA
di Sandro Baganzani (1889-1950)
Nelle mie mani tengo
la tua rosea manina.
Si cammina nel sole per i solchi
dove è rimasta ancora
qualche margheritina
qualche bocca di drago
qualche papavero rosso.
Tu guardi in su le vigne.
Un mago... sicuro è venuto.
D'uva non ce n'è più.
Parli di tante cose
nel tuo gergo ch'io non comprendo.
Si coglie qualche chicco
di velluto rimasto tra le foglie
rossicce: mi doni
una chiocciola gialla
su un ramo di sambuco.
Ò la malinconia
di questa giornata
senza suoni
deserta
dopo la festa vendemmiale
come un vano pomeriggio
domenicale.
Cinguettami, bambina,
qualche parola che tu
sola sai. Mi inginocchio
anch'io tra i mentastri:
ti scelgo le galle:
inseguo con te le farfalle.
Sei Cappuccetto tra i gnomi
piccini: i grilli neri
che saltan sui tuoi passi
coi loro tremolanti violini.
Tu mi ricordi i nidi
bambini, della primavera...
ò la malinconia
dei nidi vuoti
che pendono dal frassino
con qualche piuma leggiera.
Ma tu cammini
stringendoti al cuore
con le due mani
delle ramette in fiore.
Rimbomba
la romba del treno lontano
che va.
Domani, bambina, domani...
. . . . . . .
. . . . . . .
. . . . . . .
(Da "Arie paesane", Taddei, Ferrara 1920)
ULTIMA PASSEGGIATA
di Giovanni Chiggiato (1876-1923)
Tutte le foglie della terra, quelle, quelle
che lustravano al sol polite, il nostro
capo fasciando d'ampie zone d'ombra!
La gran giuncata ogni viale ingombra,
e guizzan tra 'l fogliame color d'ostro
chiazze di brina simili a fiammelle.
E il mio passo lentissimo s'affonda
tacito ne la vana mèsse d'oro
che cede e piega e non si frange o stride;
e un van ricordo in mente mi sorride,
quando i tuoi passi e i miei facean canoro
il bosco in sua placidità profonda.
Ma quel ricordo agli alberi del bosco
non dà frondi né fior: drizzando stecchi
aridi ad un caliginoso cielo
gli alberi abbrividiscono di gelo:
quasi non trovo più l'orme dei vecchi
ricordi, i luoghi quasi non conosco.
Fredda è l'ora del vespro: una campana
dondola troppo pigra. Ne la serra
fioriscono le prime violette:
quanto stupor negli occhi ti ristette
quando l'april ci rifiorì la terra!
e quell'ora mi par tanto lontana.
L'ultime rose e i primi crisantemi
contendono nell'orto ch'ella vide
disfiorir lentamente. Ed io son solo
e un poco triste, e ignoro di che duolo,
se d'intatte speranze anche sorride
questo mio cor nei dì d'autunno estremi.
Altra mèsse di foglie, altra e più bella
crescete per le mie gioie future!
v'affido, alberi, l'ultima preghiera.
Quand'ella ed io verremo a primavera,
dire udrò: - vi fur mai due creature
più felici in goder l'ombra novella?
(Dalla rivista «La Riviera Ligure, 32, 1901)
LA PASSEGGIATA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)
Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure
qualche dolcezza è ne la nostra vita
da ieri: una dolcezza indefinita
che vela un poco, sembra, le sventure
nostre e le fa, sembra, quasi lontane.
Ben, ieri, mi sembravano lontane
mentre io parlava, mentre io v'ascoltava,
e il mare in calma a pena a pena ansava,
ed eran quei vapori come lane
di agnelli, sparsi in un benigno cielo.
Mi veniva da voi o da quel cielo
e da quel mare l'umile riposo?
Certo, in un punto, io fui quasi oblioso.
Lane di agnelli, gigli senza stelo,
vaghe bianche apparenze, in cielo, in mare...
Come leggero ai lidi ansava il mare!
Il vostro passo diventò più lento.
Come leggero anche! Ed io era attento
più la ritmo di quel passo o a quell'ansare,
o a le vostre parole, o al mio pensiero?
Parea che io non avessi alcun pensiero.
Non pensava. Sentiva, solamente.
Dite: non foste mai convalescente
in un aprile un po' velato? È vero
che nulla al mondo, nulla è più soave?
Qualche cosa era in me, di quel soave.
Pure, voi non mi amate ed io non vi amo.
Pure, quando vi chiamo, io non vi chiamo
per, nome. E il vostro nome è quel de l'Ave:
nome che pare un balsamo a la bocca!
Quando parlate, io non guardo la bocca
parlare, o al men non troppo guardo. Ascolto;
comprendo, vi rispondo. Il vostro volto
non muta se la mia mano vi tocca.
La vostra mano è quella che non dona.
Nulla di voi, nulla di voi si dona.
Però, nulla io vi chiedo, nulla attendo
se bene, debolmente sorridendo
come chi langue e pur non s'abbandona...
Oh, no! Voi eravate, ieri, stanca.
Voi eravate ieri molto stanca,
oh tanto che vi caddero di mano
i fiori. Non è vero che di mano
vi caddero le rose, tanto stanca
eravate? Così vi vedo ancóra.
E fate che così vi veda ancóra,
un'altra volta, un'altra volta sola.
Forse... Oh no. Sorridete. È una parola
vana questa che io dico. Voi, signora,
siete per me come un giardino chiuso.
Siete per me come un giardino chiuso,
dove nessuno è penetrato mai.
Di profondi invisibili rosai
giunge tale un divino odore effuso
che atterra ogni desìo di chi l'aspira.
Non ad altro la nostra anima aspira
che a una tristezza riposata, eguale.
Conosco il vostro portentoso male;
e il dolore ch'è in voi forse m'attira
più de la vostra bocca e dei capelli
vostri, dei grandi medusèi capelli
bruni come foglie morte
ma vivi e fien come l'angui attorte
de la Górgone, io temo, se ribelli,
e pieni del terribile mistero.
Me non avvolgerà tanto mistero.
Dicono che nel folto de le chiome
voi abbiate una ciocca rossa come
una fiamma: nel folto chiusa. È vero?
Io la penso, e la veggo fiammeggiare.
La veggo stramente fiammeggiare
come un segno fatale. – O passione
arsa a quel fuoco! – Tutte le corone
de la terra non possono oscurare
quel segno unico. Voi siete l'Eccelsa.
Voi che passate, voi siete l'Eccelsa.
E passate così, per vie terrene!
Chi osa? Chi vi prende? Chi vi tiene?
Siete come una spada senza l'elsa,
pura e lucente, e non brandita mai...
Oh, dove sono giunto! Perché mai
vi dico queste cose? Perdonate
chi sogna. Perdonate, perdonate.
Il tramonto è una fiamma, e i marinai
cantano da le navi, e odora il mare.
Voi vedete: non è lo stesso mare
di ieri. Voi vedete: è un altro cielo.
Lane di agnelli, gigli senza stelo,
vaghe bianche apparenze, in cielo, in mare:
queste cose rispondon meglio a noi,
meglio a le nostre anime stanche. Noi
saremo paghi di qualche dolcezza
mite, noi cercheremo una tristezza
riposata ed eguale. Ed abbia i suoi
cieli velati Aprile, come ieri,
i suoi mari quieti, come ieri;
sì che possiamo noi recar lungh'essi
i lidi, o sotto gli alberi, sommessi
colloqui e sogni e taciti pensieri,
– o voi dal dolce nome che io non chiamo! –
perché voi non mi amate ed io non vi amo.
(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)
PASSEGGIATA VESPERTINA
di Diego Garoglio (1866-1933)
1.
Andava, andava assai lento e silente
il fiume verso l'invisibil foce;
io camminava con la chiusa mente
sognando, e come il fiume, senza voce.
Sparso di pratoline era il virente
argine molle e già fiorìa precoce
qualche pianta sul ciglio, e la semente
del grano verdeggiava... Assai veloce
io camminava per fuggir me stesso,
senza quasi saper dove né quando,
verso una meta ignota a l'orizzonte,
gli occhi al suolo, a una casa, ad un cipresso.
Mi volsi: il dì morìa trascolorando
le nubi, il fiume, il vaporoso monte.
2.
Il sol moriva sopra la pineta
lontano, e trattenerlo avrei voluto
un istante, un istante (oh! di poeta
risibil sogno!) e il disco era caduto
irrevocabilmente... Un'ora lieta
io volea richiamar, volea dal muto
abisso del passato una segreta
parola rivocar Tutto perduto
per sempre! Volsi per la via romita
i passi a la città... La schiera brulla
dei gattici e dei platani fuggìa,
allungandosi come ombra infinita
de l'anima fuggente indarno: sulla
terra gravava la malinconia.
(Da "Sovra il bel fiume d'Arno", Zanichelli, Bologna 1913)
SORPRESI DALLA SERA
di Giulio Gianelli (1879-1914)
Stringiti a me, non abbia il tuo cuore neppure un sussulto.
Rabbrividisci? è nulla, o quasi; un remoto singulto
di rivo sotto gli archi di gelo; o che al gelo un virgulto
s'infranse. Torniamo, ora: che importa se il dì ci abbandoni?
Torniamo con passi fratelli: i tuoi passi son buoni,
non isfioran la terra, non hanno che docili suoni:
non li temono i fiori, l'erbetta li ama, li vuole.. O Maria,
che parole da bimbo ti dico! ma abbrevian la via.
Guarda: il sole adescato dai monti, con tatti leggeri
raccoglie i veli ed esula: restano ciechi i sentieri.
Parla anche tu, sorella. Che pensi?... Ah quella campana
in estasì di pianto! (un'anima che s'allontana).
È bene... ascoltare. Che angoscia nel rotto lamento!
Vuole, forse, col grido raggiungere nel firmamento
l'anima fuggitiva... o, forse, ella piange, ella suona
per dir che la terra saluta, ricorda, perdona.
Ma non pianger tu pure, non piangere, ora; verranno
le lacrime nostre, o sorella, col tempo; e saranno
le benvenute, sai? sicuro: le gemme de l'anno.
Torniamo che fa buio; già stridono porte e cancelli
chiudendosi a la notte: torniamo con passi fratelli:
giova ascoltar le funebri squille, pensare agli avelli.
(Da "Intimi vangeli", Streglio, Torino 1908)
BIANCA PASSEGGIATRICE
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)
I.
Autunno spegne li ultimi rossori:
i viali che seppero la state
taciono ora tra lor siepi sfrondate
cui già Settembre vendemiò di fiori.
La terra un odor vago esala. Pare
come un odore di disfacimento:
anche esala un vapore umido e lento
che dilegua e ritoma. Il piano è un mare.
Mar senza rive, senza flutti; oblìo.
Nuvole or sì or no passan lontano
sul mare irremeabile del piano
e il lor passaggio è come un lento addio.
Nereggian pini tra 'l pallor delli orti,
soli. Nel mar del piano qualche punta
par testimoni un'isola defunta,
i morti alberi di vascelli morti.
Mai non vedemmo desolazione
più soave e più triste. Una infinita
quietudine senza ombra di vita
sta sulle cose e in calma le compone:
una stanchezza tacita corrose
questa fine d'Autunno, in terra e in cielo:
il piano è un mare, il cielo è un velo. E velo
e mar copron di sé tutte le cose.
II.
Mai non vedemmo così calmo il giorno
scender sui neri culmini delli orti;
sembra un vel che si adagii; un vel di morti
sogni che Autunno ne diffonda intorno.
Or chi sei tu? Per questi orti, tra bussi
cupi procedi. Anche sei morta. Torni
tu dalla solitudine di giorni
antichi, e con la man tremula bussi
ecco alle porte del mio cuor. Le porte
del mio cuore si aprono. Sorella
di dolore, che vuoi? Chi mi favella
così, con voce che velò la Morte?
Povera cara Giovinezza! Io
già ti vidi in questi orti, or non è grande
tempo: e cingevi allor di tue ghirlande
l'Erme del luogo e i sogni del cuor mio.
Or le ghirlande di quel tempo sono
vizze. Tu movi in bianca veste ancora
ma verso un'urna mortuale. È l'ora
questa per te de l'ultimo abbandono.
III.
Ed ella cerca la sua tomba muta
in qualche solitudine remota
del parco: e sia quella sua tomba ignota
a tutti, nella gran selva perduta.
Sia la sua tomba sotto i vecchi pini
che videro la bianca adolescente
ebra di qualche suo sogno innocente
ivi sostare a' ceruli mattini;
che videro la donna omai già schiva,
omai disciolta d'ogni illusione,
ghirlandar l'Erme d'aride corone
come una mortuale ara votiva.
Ed ella dorma in quello che compose
sonno al suo sogno la pineta nera:
e non oda cantar di primavera
nidi sui rami: e rifiorir le rose
ella non veda. Ella è stanca di tante
imagini di bene e di promessa
ella che camminò sempre lungh'essa
un'onda triste a piagge aride errante.
Ella che seppe tutto il pianto umano
e ne raccolse con tacita calma
l'amarissimo flutto entro la palma,
come in un'urna, della bianca mano.
Altro non pensa ella, altro non chiede,
che dormire alla gran selva custode:
ove nessun romore ode: e non ode
che crosciar pine omai sotto il suo piede;
ove anche il Giorno è come un passeggero
tacito che non osa indugiare,
e la Notte e profonda come un mare
d'ombra: un mar d'ombra sopra un cimitero.
(Da "Primavere del desiderio e dell'oblio", Lattes, Torino 1903)
PASSEGGIATA DELL'ANIMA CONVALESCENTE
di Corrado Govoni (1884-1965)
Anima mia, guarda che bel sole!
Non vuoi che andiamo a prendere un po' d'aria
nella nostra Certosa solitaria?
Vedrai che sono nate le viole.
Ma guarda, anima mia, come i sassi
si son tutti coperti di verdura!
Si direbbe che quasi hanno paura
di fare male ai tuoi piccoli passi.
Anima mia, quale trasparenza
divina ha la tua carne! che languore!
così tutta velata dal pallore,
il vestito de la convalescenza.
Tu sembri materiata d'una cera
pia di gigli e monde tuberose
che illumina col suo olio di rose
il cuore interna lampada leggera.
Le tue mani che sian state avvezze
a innaffiare i fior pallidi dei sogni
nella serra del sonno che in lor ogni
gesto sono aspersori di carezze?
O tenera sorella, amica mia,
come mi sembri diversa e mutata!
mi dài l'idea d'uscire ordinata
dentro il convento della malattia!
Com'è soave e languido il tuo viso!
Com'è bella la tua bocca imbiancata
con tra i labri la rosa estenuata
del suo malinconico sorriso!
Anima mia, sorella convertita,
dammi ancora le tue bianche mani
ch'io le intrecci a le mie e che le sgrani
come un dolce rosario di dita!
Guarda, sorella, come sono puro
anch'io: tu potresti accarezzarmi
i capelli, la fronte, anche baciarmi,
senza destare un desiderio impuro.
No, non rimproverarmi: anima. Taci!
Baciamoci: ché non potrà arrossire
l'angiol tuo custode nel sentire
le caste litanie dei nostri baci.
Le tue labbra fatte per pregare
sono le siepi tenere di rose
dove i baci, con le zampine rosee
come colombe vengono a tubare.
Come regine povere ch'esiglia
il voto della rinunziazione
le tue pupille portan le corone
a lutto delle loro lunghe ciglia.
Oh come, sposa mia, sei leggera!
e il tuo corpo diafano e lontano!
Ho l'impressione di condur per mano
l'anima ignuda della primavera.
Ecco, o sorella mia, vedi! vedi!
la Certosa de la malinconia!
Vedi, sorella, quale frenesia
di viole azzurrognole è ai tuoi piedi!
In ginocchio, per la comunione
della tua lingua, anima mia, mi getto;
nella mia bocca spasimante aspetto
l'ostia rossa della passione.
Anima mia, convalescente amore,
alla nostra carezza hai visto un bianco?
Il tuo custode angiol che ti sta a fianco
ha coperto con l'ali il suo rossore.
(Da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907)
UN'ALTRA RISORTA
di Guido Gozzano (1883-1916)
Solo, errando così come chi erra
senza meta, un po' triste, a passi stanchi,
udivo un passo frettoloso ai fianchi;
poi l'ombra apparve, e la conobbi in terra...
Tremante a guisa d'uom ch'aspetta guerra,
mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi.
Ma fu l'incontro mesto, e non amaro.
Proseguimmo tra l'oro delle acace
del Valentino, camminando a paro.
Ella parlava, tenera, loquace,
del passato, di sé, della sua pace,
del futuro, di me, del giorno chiaro
«Che bel Novembre! È come una menzogna
primaverile! E lei, compagno inerte,
se ne va solo per le vie deserte,
col trasognato viso di chi sogna...
Fare bisogna. Vivere bisogna
la bella vita dalle mille offerte.»
«Le mille offerte... Oh! vana fantasia!
Solo in disparte dalla molta gente,
ritrovo i sogni e le mie fedi spente,
solo in disparte l'anima s'oblìa...
Vivo in campagna, con una prozia,
la madre inferma ed uno zio demente.
Sono felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno: il sogno che non varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza rimpianto:
appartenersi, meditare... Canto
l'esilio e la rinuncia volontaria.»
«Ah! lasci la rinuncia che non dico
lasci l'esilio a me, lasci l'oblìo
a me che rassegnata già m'avvio
prigioniera del Tempo, del nemico...
Dove Lei sale c'è la luce, amico!
Dov'io scendo c'è l'ombra, amico mio!...»
Ed era lei che mi parlava, quella
che risorgeva dal passato eterno
sulle tiepide soglie dell'inverno?...
La quarantina la faceva bella,
diversamente bella: una sorella
buona, dall'occhio tenero materno.
Tacevo, preso dalla grazia immensa
di quel profilo forte che m'adesca;
tra il cupo argento della chioma densa
ella appariva giovenile e fresca
come una deità settecentesca...
«Amico neghittoso, a che mai pensa?»
«Penso al Petrarca che raggiunto fu
per via, da Laura, com'io son la Lei...»
Sorrise, rise discoprendo i bei
denti... «Che Laura in fior di gioventù!...
Irriverente!... Pensi invece ai miei
capelli grigi... Non mi tingo più.»
(Da "I collqui", Treves, Milano 1911)
PASSEGGIATA D’AUTUNNO
di Arturo Graf (1848-1913)
All’entrar del novembre, e pria che il mite
Cielo turbino i venti e l’aer fosco.
Oh dolce cosa passeggiar nel bosco
Sovra un tappeto di foglie appassite!
Oh come dolce e come triste! È l’ora
Che stanco il sol tra nugoli s’adagia:
Arde scenato il ciel; lume di bragia
L’inviluppo de’ rami apre e strafora.
Non bisbiglia sommesso uccello in frasca.
Non vento freme, non acqua gorgoglia:
Di tratto in tratto una pallida foglia
Si spicca lenta dal suo ramo e casca.
Tu vai soletto, pur verso occidente,
Lontan da luoghi frequentati o colti,
E crepitar sotto i tuoi passi ascolti
La fragil trama delle foglie spente.
Soletto vai nella quïete muta,
Smemorato del mondo e di sue arti;
Ed ecco un sogno, un breve sogno parti
(Già muore il dì) la vita c’hai vissuta.
Com’è lontana, lontana, lontana,
La giovinezza amorosa e gentile!
Rose di maggio, viole d’aprile...
Un canto, un riso, una favola vana!
E già son presso (dilagano l’ombre)
Della vecchiezza i dì torbidi e brevi...
Squallor del verno, caligini e nevi!
Ore di tedio velate ed ingombre!
Tu vai soletto. A che pensi? Non sai.
In fondo al core una musica antica
Ti par d’udire e una voce che dica:
Il giorno è volto e non torna più mai.
Altri corranno le rose novelle...
Tu vai soletto pel bosco deserto,
E guardi su, nel crepuscolo incerto,
Come tremando s’accendon le stelle.
(Da "Morgana", Treves, Milano 1901)
PASSEGGIATA AUTUNNALE
di Pietro Mastri (1868-1932)
Io vo lentamente sotto la pioggia
di foglie morte, per questo viale.
Oh rigidi olmi nel cielo autunnale,
fra un vel di nebbia! Oh lugubre pioggia!
Ed or crepitanti e come contorte
da fuoco, or tacite come vane ombre,
le foglie cadono, cadono... Ingombre
son tutte le cose di questa morte.
Oh! tutto n'è ingombro. La roggia chiazza
adombra il terreno, gli argini, i muri,
i vuoti sedili: cumuli oscuri
qua e là si elevano, lustri di guazza.
Eppure io ben vedo, fra un polverìo
denso, com'è quando turbina il vento,
qualcuno a un suo rude lavoro intento:
spazzare, ammucchiare con gran fruscìo.
E vedo passare carri ricolmi
di queste piccole morte...«Che vale?
Oh! senza posa, ma placida, eguale,
cade la pioggia dall'alto degli olmi.
Da tutti, da tutti gli alberi cade
vicino e lontano la triste pioggia,
senza posa, senza posa: la roggia
chiazza si allarga, dilaga ed invade...
Io vo lentamente. Sotto il mio piede,
ecco, via via qualche foglia percossa
manda un lieve scricchiolìo come d'ossa
fragili, e infranta di subito cede.
Ecco: una foglia mi sfiora la mano,
cadendo; un'altra mi passa rasente
agli occhi sì ratta, che più son lente
le ciglia a schermirsi; un'altra pian piano
mi scende sull'òmero e alle mie vesti
s'appiglia.... Ebbene: copritemi tutto,
copritemi, o foglie, del vostro lutto,
sì che il mio corpo gravato ne resti.
Anch'io vo' giacere sul nudo suolo,
che vide le nostre fuggevoli orme;
tornare alla terra, cumulo informe,
su cui gli uccelletti fermino il volo.
Non io vi sentii con l'anima (oh Aprile!)
dall'esili gemme schiudervi al sole,
tenere come le prime parole
ch'escano incerte da labbro infantile?
Non io vi mirai quando agili e pronte
ad ogni aura, le verdi esultanze
vostre, ampiamente, con tremole danze
d'ombre, stormivano sulla mia fronte?
Ed ora è la morte... E sia! Cadete,
cadete, o foglie, vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco, sì, tutto è vano,
come noi siamo e come voi siete.
(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)
PASSEGGIATA
di Nicola Moscardelli (1894-1943)
Odore di chiuso diverso dinanzi a ogni porta cadaveri putrefatti nascosti - agonie di fiori artificiali di bellezze svanite emigrate in cartoline da un soldo - tango di mosche frenetiche su resti di frutta marcite. Ma fuori puttane sveltissime si acciuffano con occhi di bistro vertiginosi - Gigli di mani tese per afferrare fantasmi d'uomini vivi - oceano di flutti nei vasti bicchieri d'assenzio paura di morir troppo giovine in queste ondate d'autunno -
(Da "Abbeveratoio", Libreria della Voce, Firenze 1915)
LA PASSEGGIATA
di Angiolo Orvieto (1869-1967)
Grandi betulle intorno: altre levate
al cielo, altre abbattute e stese in croci
ampie sui prati: un mormorio di voci
lieve, lontano, ed un gran sol d'estate.
Scendea rimasto inconsciamente solo,
lungi da' miei compagni, in un profondo
oblio, che mi tenea fuori dal mondo,
scevro d'ogni letizia e d'ogni duolo.
Sull'anima piovea, lungo il viaggio,
tutto il fraterno incanto delle cose,
e le linfe fluiano armoniose
coll'onde del mio sangue, al mio passaggio.
Oh San Francesco!... e l'occhio mio, vagando
in giù, vedea pei colli digradanti
sparire e riapparir di quando in quando
i miei compagni che correano avanti.
Ed ecco, o miei compagni, un repentino
amor di voi nel mio petto s'accende;
un'angoscia fraterna mi sorprende,
pensando a voi, compagni del cammino.
S'aprono i vostri cuori, ed ogni piaga
nuova ed antica a me più non si cela;
ogni gioia secreta si rivela,
ogni mestizia ed ogni speme vaga.
Ond'io mi sento, o uomini, congiunto
a tutti voi con vincolo fraterno,
e sulla fronte mia sento l'eterno
soffio che passa e dilegua in un punto.
(Da "La sposa mistica. Il velo di Maya", Treves, Milano 1898)
LUNGO IL FIUME
di Arturo Onofri (1885-1928)
Vuoi che andiamo nel sole, lungo il fiume?
Oggi sento una dolce rinascenza;
sfoglio la vita come un bel volume.
Ma illanguidisce, la convalescenza.
Non vedi come lene è la corrente?
Credo che nulla meglio persuada
del fiume che s'avvia perennemente
nel languore di sogno che lo istrada.
Guarda: il suo corso è oggi più gagliardo,
ché già la neve, ai monti, un po' s'è sciolta...
Sostiamo alquanto! Ogni giorno lo guardo;
ma ogni giorno mi par la prima volta.
Viaggia calmo come il nostro amore:
si muta sempre e non si muta mai.
L'amor mio ti viaggia tutto il cuore,
e tu lo sai... ma pure non lo sai.
Vieni, usciamo nel sole. Io mi sostengo
al tuo braccio sottile, e tu col piede,
passo per passo, togli via le pietre,
ch'io non fatichi troppo. E ti trattengo,
se ti sia per mancare l'equilibrio.
E andiamo tutti e due, deboli e soli,
nella placidità di cui m'inebrio,
sotto un cielo che pullula di voli.
Ogni poco mi volgo per vedere
quanto cammino abbiamo già percorso.
Son felice! Mi sembra sorso a sorso
bere il sogno di mille primavere.
Guarda, laggiù, quel labile tesoro!
un diluvio invisibile nell'aria:
pioggia di sole, quasi leggendaria;
ma sull'acque diventa pioggia d'oro.
Quanto è soave la convalescenza!
Io vedo l'aria come in fiocchi azzurri...
Non credi tu che mi consumi gli occhi
questa diffusa e chiara trasparenza?
Andiamo! Nelle molli erbe rinate
i piedi non si stancano d'andare.
Io penso che il paese delle fate
sia men bello: ha troppe cose rare.
Invece tutto è qui semplice e giova:
il cielo ilare, i voli, il nostro amore;
e l'acqua che viaggia, e l'erba nova,
e l'ozio solatio d'un pescatore...
(Da "Canti delle oasi", Tip. Tuscolana, Roma 1909)
È TARDI
di Nino Oxilia (1889-1917)
È tardi. È molto tardi. È bene che si vada.
Vieni, dammi la mano;
rifacciamo la strada.
La tua casa è lontano.
Perché taci e ti guardi
la punta delle dita?
Piccola tu, mia vita,
vieni, fa tardi.
Le nubi si sono raccolte
tutte su Monte Mario
chiudendo l’ali grigie.
Tu piangi e non sai perché piangi.
S’accendono i lumi;
tu vorresti dirmi qualcosa
e mi accarezzi le mani
e i tuoi occhi luccicano
tra le lacrime. –
Vieni, dammi la mano;
è bene che rincasiamo.
Non dirmi nulla: io so bene
perché tu piangi.
Andiamo, mia piccola, vieni. –
Tu piangi perché fa sera.
(Da "Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918)
LA PASSEGGIATA (PARLA UNO SCAPOLO POCO INTRAPRENDENTE)
di Luigi Siciliani (1881-1936)
Sempre e ancora aduggiato,
e spasimante di vederne tante,
e di non possederne neppure una!
Guarda le popolane
dalle carni ripiene e l'andatura
salda, senza cappello,
a due a due,
che ridon forte
facendo mostra della dentatura
sana;
le piccole borghesi con quegli occhi
pieni di desideri insoddisfatti,
davanti alle vetrine
dei gioiellieri.
Belle guance rosate
in quei visi sfilati
di signorina,
in quelle guance piene di signora!
Guarda le aristocratiche, più snelle
dei giunchi e delle canne,
con quel corpo così vestito bene,
che pare un ritmo d'onde.
Le passeggere!
E quest'altra che fugge via, al trotto
della pariglia saura,
e ti lascia l'immagine precisa
della bellezza!
e quell'altra che corre più fugace
nella tozza automobile laccata,
e ti lascia l'immagine indistinta
della bellezza!
Ha gli occhi azzurri?
È bruna? è bionda?
Chi lo sa? Sembra bella ed è sparita.
Disperazione!
Tu hai per consolarti
là! quella meretrice che t'ammicca
famelica e malsana.
(Da "Poesie per ridere", Quintieri, Milano 1909)
ULTIMA PASSEGGIATA
di Alberto Sormani (1866-1893)
Mi è dolce e triste, prima di partire,
prima di andare lontano,
in una giornata così desolatamente malinconica,
di ripassare a passo lento e pensieroso
i luoghi del dolore immenso, i luoghi dei ricordi
infinitamente angosciosi.
Piante dell'Orrido, come siete alte
e tristi!
Come slanciate in alto verso il cielo
la vostra noia mortale,
la vostra grave disperazione,
la vostra irreparabile sventura! -
Avete freddo già?
Sentite il freddo della morte?
Sentite già la neve
che vi grava e vi irrigidisce?
Perché perché tanto dolore,
perché una così triste desolazione?
Avete l'anima?
Avete un cuore
che sente e che patisce nel profondo?
L'autunno ch'ella cominciava a morire
io pensavo che il vostro dolore fosse per lei,
pensavo che fosse una disperazione in voi
a vedere la vostra povera regina
che si incamminava malinconica e pallida
verso la morte.
Ora lei non c'è più. Ella è nelle regioni oscure
e non può più venire insieme a me. Io vengo solo,
io sono solo, io sono forte, io sono anche
malinconicamente felice, -
e voi piangete ancora,
voi vi addolorate e vi disperate sempre egualmente...
Oh, natura, così grande come sei,
forse tu non ti curi di nulla che ci tocchi, noi.
Eppure io, eppure lei
abbiamo ben lungamente sognato
di vivere con te, di palpitare
con l'anima tua divina ed immortale,
di confonderci alle tue gioie ed ai tuoi dolori,
agli odii, agli amori, ai furori tuoi. -
Non avevi l'anima forse?
Non ci ascoltavi tu?
Non ci seguivi tu col tuo pensiero profondo e sterminato,
come un Dio, come una madre,
come una sorella onnipotente
dell'anima nostra?
Fu quella l'ultima passeggiata
prima di morire.
Io l'accompagnavo. Ella si sentiva stanca,
si appoggiava soavemente al mio braccio,
e mi guardava negli occhi profondamente, angosciosamente,
come ferita a morte.
Che cosa potevo farle io? Quale conforto,
quale parola dolce le potevo dire?
Cercavo di mostrarmi sorridente,
e riuscivo almeno a non piangere.
Pensate, pensate, o povere piante,
i suoi occhi dicevano che non voleva morire,
ch'era così giovane ancora e così bella,
che voleva vivere ancora,
per me, per me,
per amare sempre me, -
che non voleva morire, -
che doveva morire, e non voleva!
Che cosa potevo farle io?
Tutta la povera natura desolata intorno
pronunciava la immensa sventura: -
Anche lei, anche lei
doveva morire!
Guardò senza parlare
il largo sedile formato dalla roccia
dove avevamo letto insieme
un tragico romanzo di Dostoevskij.
Rabbrividii pensando a quella lettura.
Mentre io leggevo, ella mi seguiva
cogli occhi cupi e fiammeggianti:
la lettura metteva terrore
fino in fondo all'anima.
Siamo passati insieme di qui. Ella sorrise
a vedere l'antico torniché di legno, disfatto dal tempo,
dove avevamo giuocato tante volte
da ragazzi.
Ella sorrise
perché la sua bontà e la sua soavità
erano infinite.
Io la feci passare per prima, e le feci un grande inchino
per farla sorridere ancora.
Ma ella non sorrise più.
Sembrava che entrasse nel regno della morte.
Il suo passo era più incerto ancora,
come esitante, in un mondo nuovo in cui il corpo contava poco.
Scendeva sempre tacendo
per le roccie tagliate a gradini:
guardava le acque piangenti, come sorelle,
le piante spogliate, come sorelle,
le foglie morte in terra, come sorelle morte.
Non pianse, come inaridita.
Appoggiò la sua guancia così dolcemente scarna e patita
sulla mia spalla,
e mi disse, guardando il dolore e la morte che la circondavano: - Alberto, io vado.
Alberto! ho pochi giorni da vivere ancora. -
Diceva questo, e non trovava neppure lagrime da piangere.
Non avendo altro, mi dava dei baci,
molti baci silenziosi sulla mia spalla
e giù, vicino al cuore, -
cosa tremenda - baci invece di lagrime. -
La sua miseria era infinita; -
ma era eguale quella della natura:
sembrava una sola anima di morte e di dolore, -
sembrava che finissero insieme
i giorni ultimi.
Era come una musica fatale.
Mi sembrava ch'ella cantasse cantasse
d'un canto straziato senza voce e senza moto,
ed ogni cosa la seguisse
nel canto, nel pianto mesto e soffocato,
il cielo torbido, le piante spogliate,
le acque, le foglie morte.
Ora, vedendovi ancora,
o cose tristi, come quel giorno,
cerco ancora di lei,
e vorrei ancora sentire il suo viso dolente
ad appoggiarsi sulla mia spalla.
Perché non la trovo? Perché sono solo? E perché voi,
o piante, siete sempre eguali?
Perché piangete ancora e vi disperate
ora che la regina della morte e del dolore
non viene più a piangere tra voi?
E voi acque, perché vi lamentate ancora
come quando vi ascoltava lei?
E voi, o foglie, perché vi distendete in terra
così dolorosamente,
perché vi posate morte sui bacini di acqua morta,
se lei non vi deve vedere e compatire mai più?
Ah dunque tutto è una commedia eterna,
una illusione amara,
un vano simulacro di un'anima che non c'è?
Autunno santo, o mio amore triste,
sei una chimera anche tu?
(Dalla rivista «Cronaca d'Arte», 1892)
UMBRAE MYSTERIUM
di Giovanni Tecchio (1872-?)
Languiva ancor ne l'occidente il giorno
con una luce che facea stupore.
Parea quasi funereo l'autunnale
vespro e ci guardavam spesso d'in torno
come presi da un senso di timore.
Quello pareva un vespero fatale:
triste moriva, triste assai quel giorno.
Ne l'aria c'era non so che lamento.
Nel silenzio solenne di quell'ora
sognava forse l'Anima ammalata.
Tristi cadean le foglie gialle al vento.
Ritorna a quel ricordo umiliata
l'Anima ed a quell'erme rive ancora.
Ne l'aria c'era non so che lamento.
Andavam soli, senza meta, errando
per il parco. Tacevan le fontane
che, in quel silenzio antico, armoniose
facean tra il verde un dì murmure blando.
Pur narrava una Venere lontane
storie d'amore liete e dolorose,
che andavan lungi per il parco errando.
Giungemmo ad un castello antico, immenso.
Per l'alta scala tutta quanta bianca
incominciammo taciti a salire.
Incombeva il silenzio cupo e intenso.
Ansare ella s'udìa: forse era stanca,
poi che sentii 'l suo braccio illanguidire.
D'avanti a noi s'ergea il castello immenso.
Ella era stanca. Per la scala, muti,
sostammo allora. Era già morto il giorno;
era triste, assai triste quella sera
in quei luoghi lontani e sconosciuti.
Deserto il parco si stendea d'in torno
tutto ne l'ombra misteriosa e nera.
E discendemmo per la scala, muti.
(Da "Mysterium", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1894)
Giovanni Boldini, "Passeggiata nel parco a Napoli" |