domenica 31 luglio 2022

Il mare in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

“Il mare: quant’acqua”: è il primo verso di una tra le dieci poesie che ho trascritto in questo post, ma è stata anche la mia meravigliata esclamazione che – da quanto mi dissero i miei genitori – pronunciai la prima volta che vidi il mare. Come non meravigliarsi di fronte all’immensità del mare, alle sue onde e al cangiante colore delle sue acque? Nelle poesie che ho scelto, spesso si assiste alla nascita di una serie di meditazioni, stimolate proprio dalla visione del mare. Qualche poeta, poi, in pochi versi sintetizza una sensazione di vivissima gioia, scaturita guardando attentamente il colore azzurro del mare. C’è anche chi si lascia andare alla fantasiosa visone di un mare del tutto particolare, che può vedere la luce soltanto grazie alla invidiabile immaginazione di un essere adulto, oppure di un bambino che – miracolo della fanciullezza – sa creare un nuovo mare raccogliendo un po’ d’acqua all’interno di un secchiello.

 

 

 

ATTESA

di Giovanni Descalzo (1902-1951)

 

Ancora reboando

con cavalloni possenti

mare tu giungi alla riva.

Sei bianco per vivide scie lunari,

schiumeggi infuriato

ma scorgo fra le barche

silenziosi in attesa

i pescatori.

Io non attendo la calma.

Essi ti scrutano attenti

certi ormai di saperti spossato.

Per quale intuito varano

a un tratto mentre ancora

la bufera imperversa?

Breve è la lotta ché lenta declina

d'onda in onda la cieca violenza

e giungono alla cala

a tempo colla bonaccia.

La mia esperienza non è ancora saggezza

o non ha quiete l'onda del male?

 

[da "La vana fatica. Poesie (1928-1942)", San Marco dei Giustiniani, Genova 2002, p. 90]

 

 

 

 

AMICO - MI CIRCONDA IL VASTO MARE

di Carlo Michelstaedter (1887-1910)

 

Amico - mi circonda il vasto mare

con mille luci - io guardo all'orizzonte

dove il cielo ed il mare

lor vita fondon infinitamente. -

Ma altrove la natura aneddotizza

la terra spiega le sue lunghe dita

ed il sole racconta a forti tratti

le coste cui il mare rode ai piedi

ed i verdi vigneti su coronano.

E giù: alle coste in seno accende il sole

bianchi paesi intorno ai campanili

e giù nel mare bianche vele erranti

alla ventura. -

 

A me d'accanto, sullo stesso scoglio

sta la fanciulla e vibra come un'alga,

siccome un'alga all'onda varia e infida

φιλοβαθεία. -

S'avviva al sole il bronzo dei capelli

ed i suoi occhi di colomba tremuli

guardano il mare e guardano la costa

illuminata. -

Ma sotto il velo dell'aria serena

sente il mistero eterno d'ogni cosa

costretta a divenire senza posa

nell'infinito.

Sente nel sol la voce dolorosa

dell'universo, - e l'abisso l'attira

l'agita con un brivido d'orrore

siccome l'onda suol l'alga marina

che le tenaci aggrappa

radici nell'abisso e ride al sole. -

 

Amico io guardo ancora all'orizzonte

dove il cielo ed il mare

la vita fondon infinitamente.

Guardo e chiedo la vita

la vita della mia forza selvaggia

perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole

di me possa narrar l'ombra e le luci -

la vita che mi dia pace sicura

nella pienezza dell'essere.

 

E gli occhi tremuli della colomba

vedranno nella gioia e nella pace

l'abisso della mia forza selvaggia -

e le onde varie della mia esistenza

l'agiteranno or lievi or tempestose

come l'onda del mar l'alga marina

che le tenaci aggrappa

radici nell'abisso e ride al sole. -

 

                      Pirano, agosto 1908

 

(da "Poesie", Adelphi, Milano 1987, pp. 52-53)

 

 

 

 

Da "MEDITERRANEO"

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Antico, sono ubriacato dalla voce

ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono

come verdi campane e si ributtano

indietro e si disciolgono.

La casa delle mie estati lontane,

t'era accanto, lo sai,

là nel paese dove il sole cuoce

e annuvolano l'aria le zanzare.

Come allora oggi in tua presenza impietro,

mare, ma non più degno

mi credo del solenne ammonimento

del tuo respiro. Tu m'hai detto primo

che il piccino fermento

del mio cuore non era che un momento

del tuo; che mi era in fondo

la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso

e insieme fisso:

e svuotarmi così d'ogni lordura

come tu fai che sbatti sulle sponde

tra sugheri alghe asterie

le inutili macerie del tuo abisso.

 

(da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1992, p. 66)

 

 

 

 

IL MARE: QUANT'ACQUA

di Nico Orengo (1944-2009)

 

Il mare: quant'acqua

da millenni inquieta

capriola tra il fondale

e la riva, sgomitola

vele d'onde e piane,

strappandosi, da terra

all'orizzonte,

in voragini di viola

e veli azzurri,

respirando infantile

o in scoppi d'asma,

vivendo il ventre

di una madre, ampia.

 

(da "Cartoline di mare vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999, p. 8)

 

 

 

 

MAR ROSSO

di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

 

Non è un ampissimo mare,

si vedono bene i confini e i contorni,

la forma che ha:

ha forma di cuore, e posa

in una terra azzurra

sotto un cielo di rosa.

Son l'acque d'un rosso assai cupo,

ma vivo, fremente.

Non ha questo mare ne onde ne flutti,

ma ha nell'ammasso uniforme

dei palpiti forti, ineguali,

s'abbassa e s'innalza,

si espande o comprime.

Padrone del mare

è un giovine principe, fulvo bellissimo.

In piedi alla prua d'una lancia

egli vive girando il suo mare.

Padrone assoluto

egli gira traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi.

La punta acutissima

di quella terribile lancia

trafigge, trapassa, trafora

l'ammasso purpureo dell'acque,

ne balzano alti gli spruzzi

in gorghi ed in fiotti;

s'innalzano l'acque

al passare di quella terribile lancia.

Il principe in piedi, impassibile,

neanche un istante rallenta il suo corso,

neppure uno spruzzo lo bagna,

la veste sua bianca

non porta una macchia

del rosso dell'acque.

Padrone assoluto

egli gira traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi il suo mare,

diritto alla prua della lancia

terribile,

fulvo, bellissimo.

Un gemito,

un fremito,

che sembra l'affanno

d'eterno ed uguale dolore,

vien su da quel mare

che ha forma di cuore, e posa

in una terra azzurra

sotto un cielo di rosa.

 

(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 141-143)

 

 

 

 

IL MARE È TUTTO AZZURRO

di Sandro Penna (1906-1976)

 

Il mare è tutto azzurro.

Il mare è tutto calmo.

Nel cuore è quasi un urlo

di gioia. E tutto è calmo.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 12)

 

 

 

 

LE VIE DEL MARE

di Francesco Valerio Ratti (1877-1944)

 

Quando l'Oceano si distende

piano, morbido, quale

pallido tessuto orientale

di meraviglioso lavoro,

sotto il Sole che pende

come un gran disco d'oro

sulla calma equatoriale,

 

più piane del piano del mare

che si leva in respiri lenti,

si vedon le correnti

svolgersi e biancheggiare

come fiumane di latte,

lentissimamente attratte

dal desiderio polare.

 

Sono le sconosciute vie

dell'Oceano profondo,

che da un capo all'altro del mondo

continuamente notte e die,

per le solitudini eterne

delle cupe caverne

vagan con un gran giro tondo.

 

Sono le vie non conosciute

che fan con lenti passi

le meduse e i sargassi

e l'alghe sradicate;

sono le vie deserte e mute

che fanno le navi perdute,

capovolte dimenticate.

 

(da "Canti velieri", Gonnelli, Firenze 1912, pp. 15-16)

 

 

 

 

SECCHIELLO

di Fernanda Romagnoli (1916-1986)

 

Il bimbo inginocchiato sulla sabbia rovente

leggeva il mare nel secchiello colmo:

il sasso blu nel fondo e la conchiglia gialla

e il cavalluccio stecchito: dolcemente

lui l'incitava a galla con il piccolo dito.

 

Parlottava fra sé, rideva nel suggello

delle ciglia abbassate, del cappelluccio stinto.

Né sopra lui l'azzurro aveva attinto

ad altro mare che al suo, nel suo secchiello.

 

(da "Il tredicesimo invitato e altre poesie", Scheiwiller, Milano 2003, p. 126)

 

 

 

 

MARE-COLORE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Mare fanciullo insaziato di giuoco,

vecchio mare insaziato di pianto,

tu che sei lampo e fango

e cielo e sangue e fuoco,

 

oggi hai lasciato alle lente rive

orgoglio e forza, gaiezza e dolore:

oggi non sei che colore,

un bel colore che vive.

 

(da "Poesie", Mondadori, Milano 1960, p. 295)

 

 

 

 

IL MARE

di Cesare Vivaldi (1925-1999)

 

Sulla linea dov'erano i gabbiani

una riga continua bianca e grigia

si profila un'immagine, una nera

presenza.

Che come vetro incrina

la scia perduta di quei voli, labili

più degli angeli: cade

su di me uno straziante tintinnio

d'ali.

O mestissima pioggia, fumigante

di salnitri autunnali! Se qualcosa

ancora in mare biancheggia, sirene

levano l'alte

code di pesce: in un canto schiumoso

tutto con sé inabissano.

 

E il mare un attimo

esita e sta,

finché non prende vento e vola, urlante

onda che batte sull'ignoto.

Follemente salpato

verso piani che appena si dividono

dall'ombra.

 

(da "Poesie scelte 1952/1992", Newton Compton, Roma 1993, p. 30)

 


Czesław Znamierowski, "The sea at night"
(da questa pagina web)


domenica 24 luglio 2022

"Serre calde e Quindici canzoni" di Maurice Maeterlinck

 

Serres chaudes (Serre calde, Vanier, Parigi 1889) è il titolo della prima opera poetica di Maurice Maeterlinck (Gand 1862 – Nizza 1949), scrittore e drammaturgo belga di lingua francese, tra i massimi esponenti del simbolismo, sia nella forma poetica che in quella teatrale. I primi versi di Maeterlinck sono contrassegnati da atmosfere rarefatte; vi si respira una estenuazione dichiarata, che risulta maggiormente evidente leggendo i versi di poesie come Lassitude, Chasses lasses, Fauves las; molti sono anche i riferimenti al tedio (Serre d'ennui, Ennui, Ronde d'ennui) ed a una vaga e compiaciuta aura mistica (Oraison, Oraison nocturne, Amen); quest'ultima poi, a volte si mescola con una sensualità morbida, lievemente accennata (Tentations, Désir d'hiver). Moltissimi sono gli elementi che avvicinano quest'opera di Maeterlinck alla poetica dei simbolisti: una serie di luoghi (serre, foreste, prati, mari, castelli, ospedali), fiori (gigli, rose, nenufari), animali (cigni, pavoni, pecore, serpenti) e parti del corpo (mani, occhi) che frequentemente ricorrono nei versi di Serres chaudes; il tutto unito ad una spiritualità tipica nei letterati decadenti che si palesa nel dialogo fitto e accorato tra il poeta e la sua anima. Queste poesie ben presto furono apprezzate e tenute in particolare considerazione dai poeti nostrani, a cominciare da Gabriele D'Annunzio (si legga la poesia Le tristezze ignote compresa in Poema paradisiaco) per continuare coi poeti crepuscolari e non solo (si potrebbero menzionare molte poesie di Cosimo Giorgieri Contri, Guelfo Civinini, Guido Gozzano, Corrado Govoni, Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Sergio Corazzini e altri ancora).

Douze chansons (Dodici canzoni, Stock, Parigi 1896) è la seconda opera poetica di Maeterlinck e si discosta di molto da Serres chaudes poiché, come si capisce anche dal titolo, trattasi in questo caso di componimenti che molto attingono dalle ballate e dalle canzoni popolari e contengono temi e personaggi legati al mondo delle fiabe. Pur essendo meno fondamentale della prima opera, anche Douze chansons divenne punto di riferimento per la realizzazione d'importanti opere poetiche italiane, come i primi volumi di Aldo Palazzeschi, Le sette leggende di Angiolo Orvieto e Il Re pensieroso di Ugo Betti.

Maurice Maeterlinck raccolse i suoi due libri in versi in un unico titolo: Serres chiude: suivies de Quinze chansons, nel 1912. Da questo libro è nata l'edizione italiana (con testo originale a fronte) a cura di Milo De Angelis, pubblicata dalla Mondadori di Milano nel 1989 (vedi foto in basso), esattamente cento anni dopo la prima apparizione di Serres chaudes. Da qui estraggo tre poesie tradotte in italiano dal curatore.

 

 


 

ANIMA

 

Mia anima!

Mia anima davvero troppo al riparo!

E queste greggi di desideri in una serra!

Aspettando una tempesta sulle praterie!

 

Andiamo verso i più ammalati!

Hanno strane esalazioni.

In mezzo a loro attraverso un campo di battaglia con mia madre.

A mezzogiorno viene seppellito un fratello d’armi

Mentre le sentinelle fanno colazione.

 

Andiamo anche verso i più deboli:

Hanno strani sudori;

Ecco una fidanzata ammalata,

Un tradimento di domenica,

E dei bambini in prigione.

(E più lontano, attraverso il vapore)

È una donna che muore sulla porta di una cucina?

O una suora che sbuccia verdure davanti al letto di un incurabile?

 

Andiamo, infine, verso i più tristi:

(All’ultimo, perché hanno dei veleni)

Le mie labbra accettano i baci d’un ferito!

Tutte le castellane sono morte di fame, questa estate, nelle torri della mia anima!

Eccola l’alba che entra nella festa!

Intravedo pecore lungo le banchine,

E c’è una vela sulle finestre dell’ospedale.

 

È lungo il cammino dal mio cuore alla mia anima!

E tutte le sentinelle son morte al loro posto!

 

Un giorno c’era una povera, piccola festa nei sobborghi dell’anima!

Si falciava la cicuta, una domenica mattina;

E tutte le vergini del convento guardavano passare i vascelli sul canale, un giorno di digiuno e di sole.

Mentre i cigni soffrivano sotto un ponte velenoso;

Venivano portati alberi intorno alla prigione,

Venivano distribuite medicine in un pomeriggio di giugno,

E i pasti dei malati si estendevano a tutti gli orizzonti!

 

Mia anima!

E quanta tristezza in tutto questo, anima mia! E quanta tristezza in tutto questo!

 

(da: Maurice Maeterlinck, "Serre calde e Quindici Canzoni", Mondadori, Milano 1989, pp. 43-45)

 

 

 

 

NOIA

 

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,

I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;

Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,

I pavoni che passano nel mio sonno,

I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,

Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,

Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,

Attendere svogliati il tempo senza sole.

 

(da: Maurice Maeterlinck, "Serre calde e Quindici Canzoni", Mondadori, Milano 1989, p. 57)

 

 

 

 

 

VETRO ARDENTE

 

Guardo le antiche ore,

Sotto il vetro ardente dei rimpianti;

E dal fondo blu dei loro segreti

I fiori emergono migliori.

 

Questo vetro sui miei desideri!

I miei desideri attraverso l’anima!

E l’erba morta che essa infiamma

Avvicinandosi ai ricordi!

 

La innalzo sui miei pensieri,

E vedo  sbocciare, in mezzo

Alla fuga del cristallo azzurro,

Le foglie dei dolori passati,

 

E persino si allontanano le sere

Morte così a lungo nella memoria,

Che turbano con il loro lento marezzo

L’anima verde di altre speranze.

 

(da: Maurice Maeterlinck, "Serre calde e Quindici Canzoni", Mondadori, Milano 1989, p. 81)

mercoledì 20 luglio 2022

Sola

 

Sola in cima alla terrazza

Fissi il mare ed aspetti... Che cosa?

Poco fa il ponente era rosa

 

Rosa caldo affocato, e ora è lilla

E una stella vi brilla

Così luminosa!

 

La sera avvolge il giardino e la villa

E inzuppa l'erba di guazza.

Sola in cima alla terrazza

 

Tu rimani ed aspetti... Che cosa?

 

 



COMMENTO

Sola è il titolo di una poesia di Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866 – Oneglia 1938), che si trova alla pagina 51 del volume intitolato Il cuore nascosto, pubblicato dall’editore Treves, a Milano, nel 1920. In questi dieci versi, il poeta ligure si rivolge ad una donna – probabilmente la sua compagna -, chiedendole il motivo della sua misteriosa attesa di qualcosa o qualcuno. Essa si trova in cima alla terrazza di una villa in riva al mare; forse è estate, e, quasi sicuramente, l’ora è quella del tramonto: quando l’orizzonte muta colore, passando da un rosa caldo ad un delicato lilla, e, in lontananza, già è possibile vedere la luce intensa di una stella. Il tempo passa, e la sera, con la sua oscurità, ha ormai avvolto il luogo dove si trovano il poeta e la donna. Quest’ultima però, non si muove dalla terrazza, e continua a guardare lontano. Il poeta ripete la domanda, che però sembra essere ignorata dalla donna, chiusa in un mutismo ostinato.

domenica 17 luglio 2022

La poesia di Sandro Penna


 


Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1976) rappresenta un punto fermo e insostituibile nella poesia italiana del Novecento; la sua presenza costante nelle migliori antologie del settore, lo stanno a dimostrare. Tra gli elementi che maggiormente caratterizzano i suoi versi, ci sono l'essenzialità, la disarmante sensualità e un impressionismo spicciolo, che coglie il segno in modo del tutto personale. Già subito dopo la morte, Sandro Penna fu considerato una sorta di personaggio leggendario, e le sue poesie divennero oggetto di culto, soprattutto in determinati ambienti elitari. In molti hanno provato a stabilire quali fossero i poeti a cui Penna si inspirò nel creare i suoi migliori versi, e si è parlato, un po' vagamente, di Pascoli, dei crepuscolari e di Palazzeschi; ma quasi tutti i critici concordano nel nome di Saba quale poeta più vicino allo scrittore umbro, in particolare, come scrisse Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italiani del Novecento, "il Saba più melico e gratuito delle «canzonette"¹. Ma, a parte le influenze letterarie, è importante affermare che Penna trasse la sua ispirazione più schietta dal vissuto, e quindi dalla sua diversità, percepita senza drammi interiori, anzi, valutata quale elemento di forza e di libertà. La sua è, insomma, una poesia "sincera". Altro elemento che sorprende, è l'estrema semplicità dei suoi versi; tanto più perché essi nacquero e si svilupparono nel periodo storico-letterario (gli anni '30 del XX secolo), in cui predominava l'ermetismo. Per tale motivo Penna può essere considerato, come Attilio Bertolucci o come Giorgio Caproni, poeta anti-ermetico. Certo è che la sua figura e la sua opera in versi ottennero plausi fin dalle prime pubblicazioni in riviste e volumi, e la sua fama andò sempre più aumentando, facendolo diventare un poeta estremamente importante nel panorama della lirica italiana novecentesca e non solo. Dopo un elenco delle opere poetiche di Sandro Penna, trascrivo quattro poesie che ritengo tra le sue migliori.

 

NOTE

1) Da Poeti italiani del Novecento, Mondadori 1991, Milano, p. 735.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Poesie", Parenti, Firenze 1939.

"Appunti", Edizioni della Meridiana, Milano 1950.

"Una strana gioia di vivere", Scheiwiller, Milano 1956.

"Poesie", Garzanti, Milano 1957.

"Croce e delizia", Longanesi, Milano 1958.

"Tutte le poesie", Garzanti, Milano 1970.

"Poesie", Garzanti, Milano 1973.

"L'ombra e la luce", Scheiwiller, Milano 1975.

"Stranezze 1957-1976", Garzanti, Milano 1976.

"Il viaggiatore insonne", Garzanti, Milano 1977.

"Il rombo immenso", Scheiwiller, Milano 1978.

"Confuso sogno", Garzanti, Milano 1980.

"Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982.

 

 

 

Testi

 

LA VITA... È RICORDARSI DI UN RISVEGLIO

 

La vita... è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

 

Ma ricordarsi la liberazione

improvvisa è più dolce: a me vicino

un marinaio giovane: l’azzurro

e il bianco della sua divisa e fuori

un mare tutto fresco di colore.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 3)

 

 

 

 

AUTUNNO

 

Il vento ti ha lasciata un'eco chiara,

nei sensi, delle cose ch'ài vedute

- confuse - il giorno. All'apparir del sonno

difenderti non sai: un crisantemo,

un lago tremulo e una esigua fila

d'alberi gialloverdi sotto il sole.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 5)

 

 

 

 

NEL BUIO DELLA STANZA IN ME RISPLENDE

 

Nel buio della stanza in me risplende

il sole di settembre, o forse lieve

lieve anonima intesa entro quel sole.

 

Così l’anima inventa le parole

un poco detestabili. ma il sole...

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 103)

 

 

 

 

LA MIA VITA È MONOTONA...

 

La mia vita è monotona, se arde

un calmo sole alle persiane verdi.

Si fa docile sguardo, calmo amore

anonimo, poesia di quattro versi.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 124)

 

mercoledì 13 luglio 2022

Baracche

 

Sulla riva sinistra dell'Aniene,

vicino al Ponte Vecchio, il vento lava

i cenci della miseria. Ma spesso

sento da quelle baracche di legno

canti di cuori innamorati, e bimbi

quasi laceri ridere sereni

dai sgangherati legni della loro

fiaba. E uomini vedo un poco foschi

di fatica sperare ancora, sempre,

dalla trincea della loro aspra vita.

Quel ritmo così raro per il cuore

- Felicità - sovente lo ritrovo

nel grido-arcobaleno di un a solo

della trombetta di un bimbo felice

sulla riva sinistra dell'Aniene.

 

 


 

 

COMMENTO

 

Questi versi fanno parte della poesia intitolata Baracche, e sono di Carlo Martini (Milano 1908-1978); io li ho trascritti da un volume di Sergio Turconi intitolato La poesia neorealista italiana (Mursia, Milano 1977). In verità non so se la medesima poesia sia completa, non possedendo la raccolta da cui proviene. Lo stesso Turconi, in una relativa nota, informa il lettore che Baracche fa parte della raccolta poetica I giorni della periferia, pubblicata da Martini nel 1954 presso le Edizioni Auditorium di Roma. Questi versi mostrano, secondo Turconi, segni evidenti dell'ipocrisia e del cinismo piccolo-borghese. Forse è così, pure, a me non dispiace il modo in cui il poeta lombardo descrive le misere abitazioni di una parte cospicua della popolazione italiana, ridotta all'estrema povertà dalla guerra da poco finita (siamo nei primi anni '50 del XX secolo). In particolare, è bella l'immagine del bimbo che trova la felicità semplicemente suonando una trombetta; probabilmente Martini si rifà ad una famosa poesia di Corrado Govoni, intitolata La trombettina, che, similmente, pone in risalto l'allegria e l'entusiasmo infantile impersonato da una bambina che ha avuto in dono una piccola tromba-giocattolo. 

domenica 10 luglio 2022

La Chimera

 

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

 

Dino Campana (disegno di Franco Gentilini)

 

COMMENTO

 

La Chimera è il titolo di una tra le poesie più belle e celebri della letteratura italiana. L’autore è Dino Campana (Marradi 1885 - Scandicci 1932), che la inserì nella sua unica raccolta di versi: Canti Orfici, pubblicata dalla Tipografia Ravagli di Marradi nel 1914. Io l’ho trascritta da una ristampa del volume: Opere (prima edizione: TEA, Milano 1989).

 La Chimera è il primo componimento in versi della sezione Notturni dei Canti Orfici; qui, si possono leggere altre poesie particolarmente belle, come Giardino autunnale e Il Canto della tenebra. Tornando a La Chimera, fin dall’inizio s’intuisce che Campana, quasi in estasi, sta cercando di descrivere una visione – o meglio ancora, un’illuminazione – che ha caratteristiche mistiche, arcane e particolarmente coinvolgenti. Da notare, inoltre, che il poeta sembra rivolgersi direttamente a questa sorta di visione, come se essa sia in grado di ascoltarlo.  Ciò che appare al poeta, o lo colpisce più di ogni altra cosa, è il volto di una giovanissima donna, se non di un’adolescente, i cui lineamenti ricordano due capolavori pittorici di Leonardo da Vinci: La Vergine delle Rocce e La Gioconda. Ma la descrizione di questa figura femminile, non viene mai definita in modo esauriente, rimanendo sempre assai vaga; ciò che si percepisce chiaramente, è il fascino straordinario che possiede, così come il senso di profondo mistero che la avvolge, e la fa assomigliare a qualcosa di divino. Si potrebbe parlare di un’apparizione, ovvero qualcosa di straordinario e indefinibile che il poeta osserva incredulo ed estasiato, non potendo far altro che adorare il volto pallido di un essere metafisico, che racchiude tutte le maggiori attrattive delle arti più famose: poesia, pittura, musica e scultura. Il fatto che Campana, nella descrizione di questa figura, dichiari più di una volta la sua incertezza (quel “Non so” che compare al primo, al ventunesimo e al ventiquattresimo verso), rafforza l’indeterminatezza di essa; anche il nome con cui Campana decide di chiamarla: Chimera, oltre a mitizzarla, la precisa quale essere irraggiungibile, ovvero alla stregua di un sogno meraviglioso, impossibile da realizzare; niente a che vedere, è ovvio, con il mostro che è così chiamato nella mitologia greca (Χίμαιρα).

mercoledì 6 luglio 2022

La fonte

 

Una fontana nascosta dentro il profondo d'un bosco

 so, dove cresce l'edera folta intorno;

 

quando s'accosta alcuno, ne svolano mille farfalle

 notturne con dipinte l'ali di rosso e bruno.

 

Sopra s'addensan le querce dal cupo dentato fogliame,

 donde sempre suona vario d'alati un canto.

 

Sulla fonte reclino il volto e m'ardono gli occhi,

 che cercano insaziati quanto ho smarrito altrove.

 

Ecco ch'io scorgo nell'acqua cento volti già noti:

 sono le mie speranze, pallide nella fonte.

 

Vogliono perdersi, via svanire per sempre con l'acque.

 Or s'indugiano ancora tenuemente tremano;

 

esse aspettano ch'io precipiti dentro le fredde

 correnti: al mio cadere pronte dilegueranno.

 




 

COMMENTO

La fonte è il titolo di una poesia di Luigi Siciliani (Cirò 1881 – Roma 1925) che ho trascritto dalla raccolta Arida nutrix, pubblicata dalla Società Editoriale Quintieri in Milano nel 1920. La medesima raccolta, era già uscita in altre due edizioni, leggermente differenti da questa; la prima, fu pubblicata nel 1909 presso l’editore Modes di Roma; la seconda, pubblicata dallo stesso editore della terza, uscì nel 1912.

Questi versi parlano di una fonte che si trova in un luogo recondito, all’interno di un fitto bosco. Intorno alla fonte, vivono e crescono piante ed animali; l’edera la circonda e, al di sopra di essa, vi è una concentrazione di querce, che si fanno notare per le loro foglie scure e dentellate. Sopra i rami delle querce vi sono degli uccelli, che probabilmente non si vedono, pur facendo percepire la propria presenza col loro canto assai diversificato. Chi si avvicina alla fonte, vede anche moltissime farfalle notturne, con ali rosse e nere, che si trovano nei pressi dell’acqua, e che volano via e si allontanano non appena avvertono la presenza di un estraneo. La fonte ha qualcosa di magico, che spinge chi vi si avvicina a specchiarsi nelle sue acque. Il poeta lo fa e vede, sulla superficie acquosa, tanti volti conosciuti; sono le sue speranze, che hanno preso le fattezze umane, e spiccano per la loro bianchezza. Queste speranze, divenute esseri viventi e pensanti, vorrebbero dileguarsi per sempre con l’acqua che scorre; ma per ora non si muovono, attendendo che il poeta cada dentro la fonte, e misteriosamente sia portato via dalle fredde correnti; solo in quel momento, le speranze spariranno per sempre.