domenica 29 maggio 2022

Gli uccellini in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Dopo gli uccellacci, ecco gli uccellini, ovvero 10 poesie italiane in cui la fanno da protagonisti uccelli di piccole dimensioni, che, spesso, sono in grado di intonare un canto assai piacevole. Qualcuno di questi piccoli pennuti, è facile trovarlo all’interno delle nostre abitazioni, ma, ahimè, rinchiuso in una gabbia. Gli altri li possiamo vedere, liberi, volare sui rami degli alberi cittadini, in cerca di cibo; o magari, nelle pinete e nei boschi che circondano i centri abitati. La loro discreta presenza, così come il loro bel canto, ci rasserena l’animo, e rende certamente più piacevole la nostra complicata vita.

 

 

LA SOLITUDINE DEL BECCACCINO

di Fernando Bandini (1931-2013)

 

La solitudine del beccaccino

stanata dalla mia ombra

ha perduto il suo regno di prati palustri

indecisa tra il cielo e le terre più in là.

Lungo-rostrato forava

gli steli sottili dell'aria. Più in là

c'era una torcia su una torre d'acciaio.

 

E lui, su nell'aria

con elegante spavento. Il suo bruno

non poteva specchiare un solo pezzo

del mondo né le quattro strisce giallastre

tracciare un solo segnale d'allarme.

 

Udito inerme o mano con fucile,

chi poteva affermare di conoscere il verso?

Il suo silenzio era un patto

di confidenza con la terra fradicia.

Muto o sordo? Tacere è non sentire?

 

Avere una riga di latte sull'occhio

è non vedere il lampo lontano

delle raffinerie?

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2018, pp. 81-82)

 

 

 

 

ROSIGNOLO

di Filippo De Pisis (1896-1956)

 

Come in agonia

di là dai boschi scuri sognati,

rosignolo in amore!

Gorgheggi, brividi, pause

voluttuoso scoramento:

di là da pareti di ghiaccio,

di là d'ardor di deserti,

profumo amaro

sull'alba,

rosignolo in amore.

 

(da "Poesie", Garzanti, Milano 2003, p. 83)

 

 

 

 

IL PICCHIO

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Egli non batte già alla scorza degli alberi,

ma si attacca al martello

di un violastro castello.

Vorrei però sapere

che cosa gli avrà detto servo o castellano

se non chiese cerambico né baco

alla porta nascosta,

quando fugge lontano

dondolandosi come un ubriaco

e sghignazza così sulla risposta.

 

(da "Preghiera al trifoglio", Casini, Roma 1953, p. 7)

 

 

 

 

FRINGUELLO CIECO

di Achille Leto (1870-1963)

 

Il piccolo cieco ricorda

il cielo la selva il ruscello,

e canta ma triste: non scorda

il cieco fringuello.

 

La luce rimase nel cuore,

se il fuoco la tolse dagli occhi;

or sembra che il chiuso dolore

dal becco gli sbocchi.

 

Un lucido filo di canto,

che sale, dall'ombra, nel sole;

un'ombra, nel sole, di pianto,

che vuole che vuole...

 

Ma vuole il fringuello sì poco,

dagli uomini, o, meglio, dai bruti;

vuol gli occhi bruciati dal fuoco,

gli occhietti perduti!

 

(da "Piccole ali", Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1914, p. 185)

 

 

 

 

INDOVINÒ IL CARDELLINO

di Nico Orengo (1944-2009)

 

Indovinò il cardellino

nel cantare l'attimo

dell'alba, quella luce

che spiazza vie e

correnti e induce

sulla terra a posare

il passo, infrangendo

codici di brina

della nata bambina,

lei: la mattina.

 

(da "Cartoline vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999, p. 75)

 

 

 

 

IL PETTIROSSO

di Luigi Orsini (1873-1954)

 

Forse d'aprile a le sanguigne aurore

che di suo comparire ànno diletto

colse la fiamma viva onde nel petto

arde e s'affoca il garrulo amatore.

 

Balza dai piani e chiede a le canore

selve de' monti vegetal ricetto

ove l'acceso spirito soletto

temprare al fresco dei ginepri in fiore.

 

Sì tra le rame che il mattino allaccia

di gialle strisce il picchiettìo sottile

va ripetendo al dì che si rinnova,

 

e s'imboscando ove non è più traccia

d'uomo, asserena de l'aereo stile

la sua compagna che tremando cova.

 

(da "Le campane di Ortodònico", L'Eroica, Milano 1921, pp. 146-147)

 

 

 

 

 LA CAPINERA

di Giovanni Pascoli (1855-1912)

 

Il tempo si cambia: stasera

vuol l'acqua venire a ruscelli.

L'annunzia la capinera

tra li àlbatri e li avornielli:

                         tac tac.

 

Non mettere, o bionda mammina,

ai bimbi i vestiti da fuori.

Restate, che l'acqua è vicina:

udite tra i pini e gli allori:

                         tac tac.

 

Anch'essa nel tiepido nido

s'alleva i suoi quattro piccini:

per questo ripete il suo grido,

guardando il suo nido di crini:

                         tac tac.

 

Già vede una nuvola a mare:

già, sotto le goccie dirotte,

vedrà tutto il bosco tremare,

covando tra il vento e la notte:

                         tac tac.

 

(da "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, p. 191)

 

 

 

 

MERLO

di Umberto Saba (1883-1957)

 

Esisteva quel mondo al quale in sogno

ritorno ancora; che in sogno mi scuote?

Certo esisteva. E n’erano gran parte

mia madre e un merlo.

 

Lei vedo appena. Più risalta il nero

e il giallo di chi lieto salutava

col suo canto (era questo il mio pensiero)

me, che l’udivo dalla via. Mia madre

sedeva, stanca, in cucina. Tritava

a lui solo (era questo il suo pensiero)

e alla mia cena la carne. Nessuna

vista o rumore così lo eccitava.

 

Tra un fanciullo ingabbiato e un insettivoro,

che i vermetti carpiva alla sua mano,

in quella casa, in quel mondo lontano,

c’era un amore. C’era anche un equivoco.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 579)

 

 

 

 

L'ALLODOLA

di Sebastiano Satta (1867-1914)

 

Bambina, attorno al tuo bianco recinto

Prono è un bifolco sulla stiva ed ara:

La lodoletta con sua voce chiara

Lo accompagna dal cielo di giacinto.

 

Anch’io pur aro, o figlia. Oh ma non mai

L’opra mi parve sì grave e nemica:

Ché a coronar la mia vana fatica

Tu, lodoletta mia, non canterai.

 

(da "Canti", Ilisso, Nuoro 1996, p. 168)

 

 

 

 

IL CANARINO

di Carlo Stuparich (1894-1916)

 

  Spesso mi divertivo a suonare il violino, seduto sotto la gabbia del canarino appesa in alto sulla parete, quando vi batteva il sole. Giocavo più che suonare; facevo dei trilli, dei saltellati, dei pizzicati fuori di ogni misura e tonalità, come un nascere improvviso e

caduco di fiori varissimi ma senza sostanza, l’uno dove l’altro sparì senza traccie.

  L’uccello fermo sull’assicella più alta, scattava la testina da ogni parte meravigliato o, preso come da una gioia troppo piena, la lasciava espandere in una cadenza continua di note ora trillate ora stese o vibranti, brevi, oscillando la coda e gonfiando la gola sì che le piume disordinate come da un soffio lo facevano goffo.

  Allora smettevo di suonare e lo guardavo contento finché cessava. Poi io a ricominciare, esso a seguire, e avanti, così mi divertivo a lungo senza seccare nessuno. E il ricordo di un tempo così speso non mi portò mai disgusto.

 

     (1914).

 

(da "Cose e Ombre di Uno", «La Voce, Roma 1919, pp. 25-26)

 

 

 

Tomas Castelazo, "Birds on the wire"
(da questa pagina web)

 

 

domenica 22 maggio 2022

Poeti dimenticati: Renato Mucci

 

Nacque a Roma nel 1893 e morì nel 1976. Dopo la laurea in Giurisprudenza, svolse diverse attività lavorative; ricoprì incarichi prestigiosi nell'ambito dell'amministrazione e fu segretario particolare del ministro Giuseppe Bottai. Si interessò alla letteratura e pubblicò, oltre a due volumi poetici, diverse traduzioni di opere di famosi scrittori francesi; è anche autore di due testi teatrali. Come poeta, esordì nel 1925, con un volume di prose liriche, a cui seguì, ben tredici anni dopo, un esile libro di versi, che di fatto concluse la sua carriera poetica. Inizialmente influenzato dalle tematiche del decadentismo e del frammentismo vociano, Mucci si trasformò in un poeta assai più misurato, che, in parte, mostra una vicinanza alla poetica di Umberto Saba; inoltre i suoi versi si distinguono per una percepibile essenzialità unita ad una limpidezza d'immagini e di pensieri che è raro ritrovare in altri poeti del suo tempo.

 

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Natura morta", Gobetti, Torino 1925.

"Poesie", Edizioni del Cavallino, Venezia 1938.

 

 


 

 

 

Presenze in antologie

 

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. V, pp. 104-106).

 

 

 

 

Testi

 

 

SOGNO DI CASA MIA

 

  Se non proprio a mezzanotte, certo verso quell'ora, i sogni dei miei parenti fuggono a frotte dalle fronti posate sui cuscini e vagano attraverso il ronzante silenzio delle stanze abbandonate.

  Povere stanze buie, che rimanete estatiche, quasi gelate ore ed ore, per mettermi paura con le apparizioni incantate degli armadi, solenni e sacerdotali, dei tavoli, pronti a qualsiasi impossibile giro, delle sedie, sempre comiche e complicate!

  Come se non vi conoscessi, come se potesse intimorirmi la vostra statuaria impassibilità o i vani vostri scricchiolii che nel fondo cupo, sembrano interrompere ed illuminare l'oscurità, rubando il mestiere alle lucciole! Guardate, piuttosto, anche voi i sogni dei miei parenti: da sotto le porte delle camere da letto eccoli infatti sgusciare ad uno ad uno.

 

(da "Natura morta")

 

 

 

 

CANTO SPIRITUALE

 

Il tempo non abitua

A questa dura prigionia del corpo!

 

Solo nel sonno liberat me Dominus.

 

È allora che dal fianco mi spicco

E sul madido sudario

Sorridendo abbandono

La tramortita spoglia.

 

Nei prati d'asfòdelo

Mansueti brucavano liocorni.

 

Ma quando fra le tempie ricongiunte

Folgora crudo il risveglio,

Dentro la cella di calce e di sangue

Torno a ridurmi cattivo.

 

Servo, diffido, osservo.

E guardo al fianco, in attesa

Dell'ultimo volo.

 

(da “Poesie”)

 

 

domenica 15 maggio 2022

"Il passero e il lebbroso" di Leonardo Sinisgalli

 

Il passero e il lebbroso è il titolo di una raccolta poetica di Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908 - Roma 1981), uscita nel 1970 grazie alla Mondadori di Milano. Questo libro rappresenta una definitiva svolta della poetica sinisgalliana; lo scrittore lucano, infatti, iniziò da qui un percorso che non mutò fino all'ultima raccolta, caratterizzato da un'ulteriore scarnificazione del testo poetico, che ha, come naturale conseguenza, la netta prevalenza di epigrammi su ogni altro tipo di componimento in versi. Il passero e il lebbroso, è un libro di 115 pagine, in cui si possono leggere 81 poesie, divise in sei sezioni senza titolo. 

Analizzando questi versi si nota che la prima sezione si differenzia dalle altre per la maggior presenza di poesie brevissime (per lo più di due o tre versi); nelle successive invece, è facile ritrovare il poeta arguto e fantasioso della raccolta immediatamente precedente: L’età della luna. Nei versi di alcune liriche, Sinisgalli cita alcuni personaggi del mondo della cultura, contemporanei e non, tra i quali spicca quello del collega Eugenio Montale, che, in modo sagace e divertente, viene additato da Sinisgalli quale suo imitatore (il riferimento è, ovviamente, alle raccolte che il poeta ligure pubblicò durante gli anni sessanta del XX secolo). Personalmente ritengo Il passero e il lebbroso un bel libro, probabilmente sottostimato, così come lo sono altri dell'ingegnere lucano. Mi meraviglio del fatto che molti critici concentrino la loro attenzione soltanto sulle prime raccolte di Sinisgalli, poiché rilevo un livello alto nell'intera sua opera poetica, che va da 18 poesie (1936) a Dimenticatoio (1978). La recente uscita di un volume che finalmente riunisce tutti i versi di Sinisgalli, dà la possibilità ai lettori di verificare in modo semplice questa costanza di livello, e anche di far percepire sia la capacità di sintesi che la genialità del poeta di Montemurro, il quale va considerato come uno dei migliori in assoluto del Novecento. Chiudo riportando cinque poesie presenti in Il passero e il lebbroso.

 

 

 


 

 

LA DISTANZA

 

Ogni anno muta la distanza

tra le cose che stanno d’intorno

anche se io resto inchiodato,

anche se le cose sono inanimate.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 23)

 

 

 

 

AURORA

 

Mi sveglio in un bagno di sudore,

mi chiama da lontano

una vocina trafelata

proprio in cima all'aurora.

Che speri, che aspetti,

chi ti tiene legato?

Vieni a stenderti al mio lato,

è fresco buio ventilato.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 37)

 

 

 

 

CERCHI CONCENTRICI

 

I vicini hanno messo a guardia

cani furenti.

Non vado oltre i mucchi di pietre.

Ripiego nei miei confini.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 39)

 

 

 

 

UNO SPICCHIO DI PERA

 

Raramente mia madre

buttava via una pera fradicia.

Riusciva sempre col suo coltelluccio

che aveva la punta ricurva

e serviva a scappucciare le orecchiette

a salvarne almeno uno spicchio.

 

(da “Il passero e il lebbroso”, Mondadori, Milano 1970, p. 49)

 

 

 

 

TRIANGOLAZIONI

 

Va in cerca di poesia come di funghi.

Ama i luoghi più delle persone,

ma fa lunghi

sproloqui con gli straccivendoli.

 

(da "Il passero e il lebbroso", Mondadori, Milano 1970, p. 85)

 

domenica 8 maggio 2022

Le opere pittoriche nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Non è difficile rintracciare, in alcune poesie dei decadenti e dei simbolisti, le ispirazioni procurate dall'osservazione di quadri famosi o meno, i cui autori sono in genere pittori molto vicini alla corrente simbolista; così nascono ad esempio alcuni sonetti del Camerana riferiti all'inquietante tela di Arnold Böcklin: L'isola dei morti, un capolavoro del simbolismo pittorico; la stessa cosa può dirsi a riguardo della tela di Segantini: L'Amore alla fonte della vita, da cui scaturisce una lirica di Angiolo Orvieto che porta il medesimo titolo. A seconda del tema o del protagonista della tela, si sviluppa la simbologia dei versi che la descrivono: una donna particolarmente affascinante, un paesaggio di rara bellezza, una abitazione misteriosa ecc. Da ricordare che il simbolismo (più che il decadentismo) trovò la sua migliore espressività proprio nella pittura, grazie ad artisti geniali come Böcklin, Moreau, Gaugin, Segantini, Munch e tanti altri.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Vittoria Aganoor: "Vecchio organista" in "Nuove liriche" (1908).

Vittoria Aganoor: "Prima luce" in "Poesie complete" (1912).

Diego Angeli: "Donna Lucrezia" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Giovanni Camerana: "Corot" e "Ad Arnoldo Böcklin" in "Poesie" (1968).

Gabriele D'Annunzio: "Psiche giacente" e "La donna del sarcofago" in "Poema paradisiaco" (1893).

Cosimo Giorgieri Contri: "Confidenze" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Corrado Govoni: "Prerafaelitica" in "Le Fiale" (1903).

Guido Gozzano: "Im Spiele der Wellen" in "Poesie e prose" (1961).

Gian Pietro Lucini: "Sopra di un «Disegno macabro e bacchico»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).

Arturo Onofri: "Gioconda" in «Lirica», giugno 1912.

Angiolo Orvieto: "L'Amore alla fonte della vita" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "Il dittico a mezze scale" in "Poemi" (1909).

Emanuele Sella: "Primavera" in "Monteluce" (1909).

Domenico Tumiati: "Il paese delle tre capanne", "Mura deserte" e "Aratura" in "Musica antica per chitarra" (1897).

 

 

 

 

Testi

 

IM SPIELE DER WELLEN

di Guido Gozzano

 

Tra le sirene che Boecklin gittava

nel fremito dell'onde verdazzurre

una ne manca, appena adolescente,

agile più di tutte e la più bella.

 

Poiché non quella che supina ascolta

il Tritone soffiare nella conca,

non quella che si gode la bonaccia

con tre scherzosi albàtri affaticati,

 

e non quelle che fuggono al Centauro,

l'una presa alle chiome, l'altra emersa

con volto sorridente, l'altra immersa

col busto, eretta con le gambe snelle:

 

non tutte quelle vincono la grazia

appena adolescente che abbandona

il mare caro al grande basilese,

il mare Azzurro per il mare Grigio!

 

E al mare nostro più non resta viva

che l'immagine fatta di memoria,

svelta nel solco dove più ribolle

la spuma e dove l'onda è tutta gemme!

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993)

 

 

 

 

L'AMORE ALLA FONTE DELLA VITA

(QUADRO DI G. SEGANTINI)

di Angiolo Orvieto

 

Non ti compiaci, o giovinetto Aprile,

dell'opera leggiadra? Assai gentile

coppia è questa che vien fra l'erbe e i fiori

teneri, tra gli odori

leggeri, fra i colori

indefinitamente delicati.

 

Procedon essi uniti ed irrorati

di giovinezza, spirano, beati,

l'aure vitali del mattin fragrante

fra le gemmate piante;

ed ogni nuovo istante

concede una letizia a lor novella.

 

Ella è pudica come una sorella,

ma il cuore, il cuore dentro le martella;

ei ferve come il mare, ma non osa

ancor di desiosa

stretta avvincer la sposa,

che lo segue alla fonte della vita.

 

La fonte è presso ed è tutta fiorita;

immerge in essa un Angelo le dita.

Quell'acqua fresca, dolce e cristallina,

nell'aria mattutina

per il mondo declina

a irrorarlo di sua grazia infinita.

 

(da "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya", Treves, Milano 1898)



Giovanni Segantini, "L'Amore alla Fonte della Vita"
(da questa pagina web)


domenica 1 maggio 2022

La poesia di Giuseppe Ungaretti

 

Se non ricordo male, anche Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto 1888 - Milano 1970) è uno di quei grandissimi poeti che non conobbi sui banchi scolastici, ma a seguito di un mio interessamento personale; la sua presenza, nei libri di testo delle scuole di allora (circa quarant'anni fa), era costante; sfogliarne uno, e trovarvi quelle sue brevissime poesie come Mattina - due versi che si compongono di sole due parole - m'incuriosiva, come penso avrà incuriosito chissà quanti studenti. Fu proprio leggendo le poesie di Ungaretti trovate nelle pagine dei libri di scuola, che il mio interesse verso la sua tormentata vita e verso la sua opera letteraria crebbe. Ricordo bene che, uno dei primissimi libri di versi da me comperati (ad un prezzo particolarmente basso) circa trenta anni or sono, conteneva una scelta delle poesie ungarettiane. Quanto all'autore, per i pochissimi che non lo conoscessero o non sapessero molto di lui, dico che è stato uno dei migliori poeti italiani ed europei del XX secolo. Le brevissime poesie - e in particolare i versi ridotti all'osso della sua fase poetica iniziale (che può essere circoscritta, all'incirca negli anni compresi tra il 1914 ed il 1919) - rappresentano qualcosa di unico nel panorama letterario mondiale; parlo, ovviamente, delle liriche scritte durante la Grande Guerra - evento bellico al quale il poeta partecipò -, che raccontano in modo sintetico ma ineccepibile, le sensazioni tremende di un soldato di trincea, costretto a vivere delle situazioni di estrema violenza; Ungaretti, in queste poesie parla della sua precarietà, del suo dolore nel veder morire i compagni di sventura e non poter fare nulla per impedirlo, della sua ricerca disperata di un'altra vita: lontana anni luce dall'inferno in cui si trova; insomma racconta come hanno saputo fare pochissimi, cosa significhi partecipare direttamente ad una guerra. Successiva a questa fase - che, ripeto, è la più interessante della produzione in versi di Ungaretti - ve n'è un'altra in cui il poeta torna sui propri passi, abbandonando, anche se solo in parte, quello sperimentalismo iniziale così sconvolgente; le ulteriori fasi della poesia ungarettiana non si discostano da quest'ultima, e vedono il poeta, sempre più anziano, esternare la propria sofferenza nata a seguito dei gravi lutti familiari che lo colpirono; inoltre Ungaretti, più distaccato e meditativo rispetto agli anni addietro, riflette sul senso della vita e della morte, includendo considerazioni e pensieri riguardanti l'umanità, la violenza, il tempo, lo spazio ecc. Ma, come ho già detto, per me il migliore Ungaretti è quello dei celebri "versicoli"; per tale motivo, ho deciso di chiudere questo mio post con tre pietre miliari della poesia di tutti i tempi, che Ungaretti scrisse durante la Prima Guerra Mondiale, e che certamente i lettori di poesia già conoscono; le trascrivo da quel vecchio libro di cui ho parlato all'inizio.

 

 


 

 

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

 

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

 

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

 

La morte

si sconta

vivendo

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 58)

 

 

 

 

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916

 

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca

 

È il mio cuore

il paese più straziato

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 65)

 

 

 

 

NATALE

Napoli il 26 dicembre 1916

 

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

 

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

 

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

 

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

 

Sto

con le quattro

capriole

di fumo

del focolare

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 74)