Dopo gli uccellacci, ecco gli uccellini, ovvero 10 poesie italiane in
cui la fanno da protagonisti uccelli di piccole dimensioni, che, spesso, sono
in grado di intonare un canto assai piacevole. Qualcuno di questi piccoli
pennuti, è facile trovarlo all’interno delle nostre abitazioni, ma, ahimè,
rinchiuso in una gabbia. Gli altri li possiamo vedere, liberi, volare sui rami
degli alberi cittadini, in cerca di cibo; o magari, nelle pinete e nei boschi
che circondano i centri abitati. La loro discreta presenza, così come il loro
bel canto, ci rasserena l’animo, e rende certamente più piacevole la nostra complicata
vita.
LA SOLITUDINE DEL
BECCACCINO
di Fernando
Bandini (1931-2013)
La solitudine del beccaccino
stanata dalla mia
ombra
ha perduto il suo
regno di prati palustri
indecisa tra il
cielo e le terre più in là.
Lungo-rostrato
forava
gli steli sottili
dell'aria. Più in là
c'era una torcia
su una torre d'acciaio.
E lui, su
nell'aria
con elegante
spavento. Il suo bruno
non poteva
specchiare un solo pezzo
del mondo né le
quattro strisce giallastre
tracciare un solo
segnale d'allarme.
Udito inerme o
mano con fucile,
chi poteva
affermare di conoscere il verso?
Il suo silenzio
era un patto
di confidenza con
la terra fradicia.
Muto o sordo?
Tacere è non sentire?
Avere una riga di
latte sull'occhio
è non vedere il
lampo lontano
delle raffinerie?
(da "Tutte
le poesie", Mondadori, Milano 2018, pp. 81-82)
ROSIGNOLO
di Filippo De
Pisis (1896-1956)
Come in agonia
di là dai boschi
scuri sognati,
rosignolo in
amore!
Gorgheggi,
brividi, pause
voluttuoso
scoramento:
di là da pareti
di ghiaccio,
di là d'ardor di
deserti,
profumo amaro
sull'alba,
rosignolo in
amore.
(da
"Poesie", Garzanti, Milano 2003, p. 83)
IL PICCHIO
di Corrado Govoni
(1884-1965)
Egli non batte
già alla scorza degli alberi,
ma si attacca al
martello
di un violastro
castello.
Vorrei però
sapere
che cosa gli avrà
detto servo o castellano
se non chiese
cerambico né baco
alla porta
nascosta,
quando fugge
lontano
dondolandosi come
un ubriaco
e sghignazza così
sulla risposta.
(da
"Preghiera al trifoglio", Casini, Roma 1953, p. 7)
FRINGUELLO CIECO
di Achille Leto
(1870-1963)
Il piccolo cieco
ricorda
il cielo la selva
il ruscello,
e canta ma
triste: non scorda
il cieco
fringuello.
La luce rimase
nel cuore,
se il fuoco la
tolse dagli occhi;
or sembra che il
chiuso dolore
dal becco gli sbocchi.
Un lucido filo di
canto,
che sale,
dall'ombra, nel sole;
un'ombra, nel
sole, di pianto,
che vuole che
vuole...
Ma vuole il
fringuello sì poco,
dagli uomini, o,
meglio, dai bruti;
vuol gli occhi
bruciati dal fuoco,
gli occhietti
perduti!
(da "Piccole
ali", Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1914, p. 185)
INDOVINÒ IL CARDELLINO
di Nico Orengo
(1944-2009)
Indovinò il
cardellino
nel cantare
l'attimo
dell'alba, quella
luce
che spiazza vie e
correnti e induce
sulla terra a
posare
il passo,
infrangendo
codici di brina
della nata
bambina,
lei: la mattina.
(da
"Cartoline vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999, p. 75)
IL PETTIROSSO
di Luigi Orsini
(1873-1954)
Forse d'aprile a
le sanguigne aurore
che di suo
comparire ànno diletto
colse la fiamma
viva onde nel petto
arde e s'affoca
il garrulo amatore.
Balza dai piani e
chiede a le canore
selve de' monti
vegetal ricetto
ove l'acceso
spirito soletto
temprare al
fresco dei ginepri in fiore.
Sì tra le rame
che il mattino allaccia
di gialle strisce
il picchiettìo sottile
va ripetendo al
dì che si rinnova,
e s'imboscando
ove non è più traccia
d'uomo, asserena
de l'aereo stile
la sua compagna
che tremando cova.
(da "Le
campane di Ortodònico", L'Eroica, Milano 1921, pp. 146-147)
di Giovanni
Pascoli (1855-1912)
Il tempo si
cambia: stasera
vuol l'acqua
venire a ruscelli.
L'annunzia la
capinera
tra li àlbatri e
li avornielli:
tac tac.
Non mettere, o
bionda mammina,
ai bimbi i
vestiti da fuori.
Restate, che
l'acqua è vicina:
udite tra i pini
e gli allori:
tac tac.
Anch'essa nel
tiepido nido
s'alleva i suoi
quattro piccini:
per questo ripete
il suo grido,
guardando il suo
nido di crini:
tac tac.
Già vede una
nuvola a mare:
già, sotto le
goccie dirotte,
vedrà tutto il
bosco tremare,
covando tra il
vento e la notte:
tac tac.
(da "Canti
di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, p. 191)
MERLO
di Umberto Saba
(1883-1957)
Esisteva quel
mondo al quale in sogno
ritorno ancora;
che in sogno mi scuote?
Certo esisteva. E
n’erano gran parte
mia madre e un
merlo.
Lei vedo appena.
Più risalta il nero
e il giallo di
chi lieto salutava
col suo canto
(era questo il mio pensiero)
me, che l’udivo
dalla via. Mia madre
sedeva, stanca,
in cucina. Tritava
a lui solo (era
questo il suo pensiero)
e alla mia cena
la carne. Nessuna
vista o rumore
così lo eccitava.
Tra un fanciullo
ingabbiato e un insettivoro,
che i vermetti
carpiva alla sua mano,
in quella casa,
in quel mondo lontano,
c’era un amore.
C’era anche un equivoco.
(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 579)
L'ALLODOLA
di Sebastiano
Satta (1867-1914)
Bambina, attorno
al tuo bianco recinto
Prono è un
bifolco sulla stiva ed ara:
La lodoletta con
sua voce chiara
Lo accompagna dal
cielo di giacinto.
Anch’io pur aro,
o figlia. Oh ma non mai
L’opra mi parve
sì grave e nemica:
Ché a coronar la
mia vana fatica
Tu, lodoletta
mia, non canterai.
(da
"Canti", Ilisso, Nuoro 1996, p. 168)
IL CANARINO
di Carlo
Stuparich (1894-1916)
Spesso mi divertivo a suonare il violino,
seduto sotto la gabbia del canarino appesa in alto sulla parete, quando vi
batteva il sole. Giocavo più che suonare; facevo dei trilli, dei saltellati,
dei pizzicati fuori di ogni misura e tonalità, come un nascere improvviso e
caduco di fiori
varissimi ma senza sostanza, l’uno dove l’altro sparì senza traccie.
L’uccello fermo sull’assicella più alta,
scattava la testina da ogni parte meravigliato o, preso come da una gioia
troppo piena, la lasciava espandere in una cadenza continua di note ora
trillate ora stese o vibranti, brevi, oscillando la coda e gonfiando la gola sì
che le piume disordinate come da un soffio lo facevano goffo.
Allora smettevo di suonare e lo guardavo
contento finché cessava. Poi io a ricominciare, esso a seguire, e avanti, così
mi divertivo a lungo senza seccare nessuno. E il ricordo di un tempo così speso
non mi portò mai disgusto.
(1914).
(da "Cose e
Ombre di Uno", «La Voce, Roma 1919, pp. 25-26)
Tomas Castelazo, "Birds on the wire"
(da questa pagina web)
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