domenica 8 maggio 2022

Le opere pittoriche nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Non è difficile rintracciare, in alcune poesie dei decadenti e dei simbolisti, le ispirazioni procurate dall'osservazione di quadri famosi o meno, i cui autori sono in genere pittori molto vicini alla corrente simbolista; così nascono ad esempio alcuni sonetti del Camerana riferiti all'inquietante tela di Arnold Böcklin: L'isola dei morti, un capolavoro del simbolismo pittorico; la stessa cosa può dirsi a riguardo della tela di Segantini: L'Amore alla fonte della vita, da cui scaturisce una lirica di Angiolo Orvieto che porta il medesimo titolo. A seconda del tema o del protagonista della tela, si sviluppa la simbologia dei versi che la descrivono: una donna particolarmente affascinante, un paesaggio di rara bellezza, una abitazione misteriosa ecc. Da ricordare che il simbolismo (più che il decadentismo) trovò la sua migliore espressività proprio nella pittura, grazie ad artisti geniali come Böcklin, Moreau, Gaugin, Segantini, Munch e tanti altri.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Vittoria Aganoor: "Vecchio organista" in "Nuove liriche" (1908).

Vittoria Aganoor: "Prima luce" in "Poesie complete" (1912).

Diego Angeli: "Donna Lucrezia" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).

Giovanni Camerana: "Corot" e "Ad Arnoldo Böcklin" in "Poesie" (1968).

Gabriele D'Annunzio: "Psiche giacente" e "La donna del sarcofago" in "Poema paradisiaco" (1893).

Cosimo Giorgieri Contri: "Confidenze" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Corrado Govoni: "Prerafaelitica" in "Le Fiale" (1903).

Guido Gozzano: "Im Spiele der Wellen" in "Poesie e prose" (1961).

Gian Pietro Lucini: "Sopra di un «Disegno macabro e bacchico»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).

Arturo Onofri: "Gioconda" in «Lirica», giugno 1912.

Angiolo Orvieto: "L'Amore alla fonte della vita" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "Il dittico a mezze scale" in "Poemi" (1909).

Emanuele Sella: "Primavera" in "Monteluce" (1909).

Domenico Tumiati: "Il paese delle tre capanne", "Mura deserte" e "Aratura" in "Musica antica per chitarra" (1897).

 

 

 

 

Testi

 

IM SPIELE DER WELLEN

di Guido Gozzano

 

Tra le sirene che Boecklin gittava

nel fremito dell'onde verdazzurre

una ne manca, appena adolescente,

agile più di tutte e la più bella.

 

Poiché non quella che supina ascolta

il Tritone soffiare nella conca,

non quella che si gode la bonaccia

con tre scherzosi albàtri affaticati,

 

e non quelle che fuggono al Centauro,

l'una presa alle chiome, l'altra emersa

con volto sorridente, l'altra immersa

col busto, eretta con le gambe snelle:

 

non tutte quelle vincono la grazia

appena adolescente che abbandona

il mare caro al grande basilese,

il mare Azzurro per il mare Grigio!

 

E al mare nostro più non resta viva

che l'immagine fatta di memoria,

svelta nel solco dove più ribolle

la spuma e dove l'onda è tutta gemme!

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993)

 

 

 

 

L'AMORE ALLA FONTE DELLA VITA

(QUADRO DI G. SEGANTINI)

di Angiolo Orvieto

 

Non ti compiaci, o giovinetto Aprile,

dell'opera leggiadra? Assai gentile

coppia è questa che vien fra l'erbe e i fiori

teneri, tra gli odori

leggeri, fra i colori

indefinitamente delicati.

 

Procedon essi uniti ed irrorati

di giovinezza, spirano, beati,

l'aure vitali del mattin fragrante

fra le gemmate piante;

ed ogni nuovo istante

concede una letizia a lor novella.

 

Ella è pudica come una sorella,

ma il cuore, il cuore dentro le martella;

ei ferve come il mare, ma non osa

ancor di desiosa

stretta avvincer la sposa,

che lo segue alla fonte della vita.

 

La fonte è presso ed è tutta fiorita;

immerge in essa un Angelo le dita.

Quell'acqua fresca, dolce e cristallina,

nell'aria mattutina

per il mondo declina

a irrorarlo di sua grazia infinita.

 

(da "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya", Treves, Milano 1898)



Giovanni Segantini, "L'Amore alla Fonte della Vita"
(da questa pagina web)


domenica 1 maggio 2022

La poesia di Giuseppe Ungaretti

 

Se non ricordo male, anche Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto 1888 - Milano 1970) è uno di quei grandissimi poeti che non conobbi sui banchi scolastici, ma a seguito di un mio interessamento personale; la sua presenza, nei libri di testo delle scuole di allora (circa quarant'anni fa), era costante; sfogliarne uno, e trovarvi quelle sue brevissime poesie come Mattina - due versi che si compongono di sole due parole - m'incuriosiva, come penso avrà incuriosito chissà quanti studenti. Fu proprio leggendo le poesie di Ungaretti trovate nelle pagine dei libri di scuola, che il mio interesse verso la sua tormentata vita e verso la sua opera letteraria crebbe. Ricordo bene che, uno dei primissimi libri di versi da me comperati (ad un prezzo particolarmente basso) circa trenta anni or sono, conteneva una scelta delle poesie ungarettiane. Quanto all'autore, per i pochissimi che non lo conoscessero o non sapessero molto di lui, dico che è stato uno dei migliori poeti italiani ed europei del XX secolo. Le brevissime poesie - e in particolare i versi ridotti all'osso della sua fase poetica iniziale (che può essere circoscritta, all'incirca negli anni compresi tra il 1914 ed il 1919) - rappresentano qualcosa di unico nel panorama letterario mondiale; parlo, ovviamente, delle liriche scritte durante la Grande Guerra - evento bellico al quale il poeta partecipò -, che raccontano in modo sintetico ma ineccepibile, le sensazioni tremende di un soldato di trincea, costretto a vivere delle situazioni di estrema violenza; Ungaretti, in queste poesie parla della sua precarietà, del suo dolore nel veder morire i compagni di sventura e non poter fare nulla per impedirlo, della sua ricerca disperata di un'altra vita: lontana anni luce dall'inferno in cui si trova; insomma racconta come hanno saputo fare pochissimi, cosa significhi partecipare direttamente ad una guerra. Successiva a questa fase - che, ripeto, è la più interessante della produzione in versi di Ungaretti - ve n'è un'altra in cui il poeta torna sui propri passi, abbandonando, anche se solo in parte, quello sperimentalismo iniziale così sconvolgente; le ulteriori fasi della poesia ungarettiana non si discostano da quest'ultima, e vedono il poeta, sempre più anziano, esternare la propria sofferenza nata a seguito dei gravi lutti familiari che lo colpirono; inoltre Ungaretti, più distaccato e meditativo rispetto agli anni addietro, riflette sul senso della vita e della morte, includendo considerazioni e pensieri riguardanti l'umanità, la violenza, il tempo, lo spazio ecc. Ma, come ho già detto, per me il migliore Ungaretti è quello dei celebri "versicoli"; per tale motivo, ho deciso di chiudere questo mio post con tre pietre miliari della poesia di tutti i tempi, che Ungaretti scrisse durante la Prima Guerra Mondiale, e che certamente i lettori di poesia già conoscono; le trascrivo da quel vecchio libro di cui ho parlato all'inizio.

 

 


 

 

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

 

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

 

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

 

La morte

si sconta

vivendo

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 58)

 

 

 

 

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916

 

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca

 

È il mio cuore

il paese più straziato

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 65)

 

 

 

 

NATALE

Napoli il 26 dicembre 1916

 

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

 

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

 

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

 

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

 

Sto

con le quattro

capriole

di fumo

del focolare

 

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 74)

 

lunedì 25 aprile 2022

Due poesie sugli orrori della guerra

 

Nell’occasione del 25 aprile di questo tragico anno, offro, a chi voglia leggerle, due brevi poesie che parlano della 2° Guerra Mondiale. La prima, di Giacomo Prampolini (Milano 1898 – Pisa 1975), mette in evidenza un paesaggio desolato e devastato dalla guerra, in cui si respira un’atmosfera di morte e distruzione, tipica dei luoghi in cui si è verificato un conflitto bellico. La seconda, di Elena Bono (Sonnino 1921 – Lavagna 2014), si sofferma brevemente sulle peggiori atrocità che possono facilmente accadere durante una guerra, che si concretizzano in esecuzioni sommarie, spietate, motivate soltanto da un odio estremo, e incomprensibile per chi è fuori da quel maledetto contesto, dove la ragionevolezza non trova spazio alcuno. Sperando in un futuro migliore di questo presente sempre più preoccupante, auguro a tutti un buon 25 aprile.

 

 

 

DUE POESIE SUGLI ORRORI DELLA GUERRA

 

 

I PONTI…

di Giacomo Prampolini

 

I ponti

distrutti…

rotte le braccia

da riva a riva,

oppressi i greti.

I ponti

colmati -

là sono morte

le onde

che il mare mandava.

Pesanti

passarono

i barbari -

ora sappiamo

che erano ciechi

più della morte.

 

(da "Molte stagioni", Mondadori, Milano 1962, p. 109)

 

 

 

 

RAPPRESAGLIA

di Elena Bono

 

Ci sono dieci morti sulla strada.

Il prete non li può benedire,

le loro madri non li possono lavare.

Stasera in ogni casa si prega per loro,

ogni madre li piange come figli.

 

(da "Poesie. Opera omnia", Le Mani, Recco-Genova 2007, p. 272)

 


Paul Nash, "We are Making a New World"
(da questa pagina web)


sabato 23 aprile 2022

Un solo profumo di rosa

 

Un solo profumo di rosa

in calda atmosfera veloce,

beato di sé, si riposa,

nell’ombra che ha forma di croce.

 

È solo un profumo: è sospiro

di farsi bontà volontaria,

che induce a color di zaffiro

il nimbo di sole dell’aria.

 

La terra solleva dall’ombra,

con braccia d’eterno avvenire,

il duro dolor che la ingombra,

sognando altri cieli fiorire.

 

E ignara ogni vita si sposa,

dall’ombra che ha forma di croce,

a un cielo che odora di rosa,

in calda atmosfera veloce.

 

 


 

COMMENTO

 

La poesia senza titolo che ho trascritto qui sopra, è la numero 82 della raccolta di Arturo Onofri (Roma 1885 – ivi 1928) intitolata Terrestrità del sole; pubblicata nel 1927 presso l’editore Vallecchi di Firenze, rappresenta una definitiva svolta nel percorso poetico dello scrittore romano. Ad essa seguiranno altre, assai simili raccolte – alcune delle quali uscite quando Onofri era già scomparso – che presentano, come particolarità principale, la scelta esclusiva di una poesia filosofica, molto legata alle teorie di Rudolf Steiner (1861-1925), il quale sosteneva che nel continuo trasformarsi dell’universo e della natura terrestre, si manifesta la presenza di Dio. La poesia riportata, si trova alla pagina 137 del suddetto libro, che ora è possibile leggere, insieme alla successiva raccolta Vincere il drago! (1928), in una edizione anastatica, pubblicata nel 1998 da La Finestra Editrice di Trento. Il contenuto mostra diverse simbologie; in primo piano ci sono la rosa (ovvero l’amore), che qui non si percepisce visivamente, ma in modo olfattivo, e la croce (ossia il dolore e, nello stesso tempo, la cristianità); anche quest’ultima non è direttamente visibile, ma la sua presenza è evidenziata dall’ombra che copre la rosa (o meglio, il suo profumo). Amore e dolore cristiano, divengono pura energia, spinta a fare del bene; grazie alla potenza di questa unione, anche il disco luminoso del sole si trasforma, divenendo simile ad un zaffiro (minerale di colore azzurro), e, quindi, confondendosi col cielo. Nella terza quartina della poesia, la terra prende vita, e solleva dall’ombra (della croce) il dolore duro e pesante che la occupa, rendendolo quindi più sopportabile; infine, la terra stessa, divenuta anche essere pensante, s'immagina (sogna) l’esistenza di altri cieli, fioriti in un non ben identificato luogo, in cui, proprio grazie alla forza dell’amore cristiano, non esiste alcun genere di dolore. Non facile risulta l’interpretazione dell’ultima quartina, in cui il poeta sembra vedere una unione inconsapevole ma sicura, tra gli esseri viventi della terra ed il cielo (ovvero l’ultraterreno) che ha assorbito e fatto suo il profumo della rosa (ossia l’amore e la bontà), e che si sostanzia in uno slancio verso il bene universale.

venerdì 15 aprile 2022

La Via Crucis in 10 poesie di 10 poeti italiani

 La “Via Crucis” è rappresentata dalle quattordici stazioni (croci di legno a cui si associano opere artistiche a tema), raffiguranti i momenti salienti della “Passione di Cristo”. Questo rito religioso si svolge la sera del Venerdì santo. Nelle 10 poesie che ho trascritto di seguito a questo preambolo, oltre alla dolorosa fase ultima della vita di Gesù, si parla, spesso tramite simboli, anche di un percorso dominato da una sofferenza particolarmente acuta, riguardante l’umanità intera o, più semplicemente, un individuo soltanto (che può essere il poeta stesso o una persona a lui vicina). Ho escluso dalla selezione due belle poesie – di Umberto Bellintani e David Maria Turoldo – solamente perché le avevo già incluse in altri post pubblicati già diversi anni or sono. Forse è superfluo aggiungere che quest’anno, la vera Via Crucis, è qualcosa di particolarmente toccante ed è, nello stesso tempo, estremamente significativa, poiché sappiamo tutti molto bene il difficilissimo momento della storia che l’umanità intera sta vivendo, e forse vivrà ancora per lungo tempo.

 

 

LA VIA CRUCIS IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI

 

 

VIA CRUCIS

di Franco Berardelli (1908-1932)

 

Lagrime e sangue da la faccia accesa

cadono a stille sulla veste bianca.

Lungo è il cammino e già la forza manca,

ché sulle spalle il rozzo legno pesa.

 

Ogni più lieve sosta Gli è contesa:

e a poco a poco la persona stanca

s'incurva e cede, né una man l'affranca

dal pondo, o la sorregge nell'ascesa.

 

Gemon le donne e piangono sommesse,

in cuore e in volto tristi addolorate,

procedono con Lui verso la Croce.

 

«Non su me, non su me, ma su voi stesse

sopra i nati vostri, lacrimate!»

Sale dolente la divina voce.

 

(da "Antologia della poesia cattolica italiana del Novecento", UPSIC, Roma 1959, p. 351) 

 

 

 


VIA CRUCIS

di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)

 

La via della Croce

non è finita

sul monte Calvario.

La Croce, come una lancia

divelta da mano feroce,

ha ripreso il cammino, è partita

per un viaggio che dura

da secoli e secoli, e va

senza mai sosta, errante

di terra in terra,

di guerra in guerra:

la Croce, eterna viandante.

A volte si degna

di farsi portare

da un cireneo volontario,

eroe, martire, santo,

o anche soltanto

da un povero cristo,

e va, nuda, tetra,

a cercare in abissi

d'orrore, altre vittime umane

che il martello inchioda, la spugna

attosca, la lancia squarcia

tra gli scherni dell'aguzzino.

Poi getta via i crocefissi

e riprende, nuda, il cammino.

 

(da "Il sole dorme", Rebellato, Cittadella Veneta 1962, p. 36)

 

 

 

 

L'INCONTRO CON LA MADRE

STAZIONE QUARTA

di Giovanni Cristini (1925-1995)

 

Egli ti chiese un giorno

d'entrare in noi, nel nero fiume del mondo.

E con pazienza attese che fiorisse

il bianco giglio alle tue pure soglie,

e gli angioli tremavano, e tu pure tremavi

su poca paglia, il grembo aperto al mistero.

 

La notte era il tuo grembo, il curvo cielo.

 

Il canto che chiudeva

le due remote rive

era di pace agli uomini, ma il prezzo

scorreva già nelle tue calde lacrime.

Grave fu il tuo consenso.

Egli violò il tuo grembo,

divenne albero pietra sangue fuoco,

fiorì d'amore le oscure radici.

 

La nostra lebbra intanto

già s'attaccava all'orlo

della sua rossa veste. E non la scosse

per amore di te, sua dolce Madre.

Quello era il prezzo

del tuo anteriore riscatto

e del nostro che dura e che vacilla.

Egli l'assunse, e non curava gli angioli

che si velavano il volto

e il cielo fatto oscuro oltre le nubi.

 

Ora l'incontri, e se gli allarghi le braccia

stringi sul cuore un lebbroso, acuta spada.

Tutto fu già scontato

in quell'istante in cui chinasti il capo,

e un divino consenso

come un soffio spirò dalle tue labbra.

 

E il Signore discese in mezzo a noi,

nel nero fiume del mondo.

 

(da "Poesia religiosa italiana", Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 768)

 

 

 

 

SOTTO LA CROCE

di Silvio Cucinotta (1873-1928)

 

Egli non trema al rombo del destino?

Ride l'idea. Con serena faccia

a la sua croce libero s'allaccia

e va sereno per il suo cammino.

 

E coglie, andando, fremiti e lamenti,

urli di fame e gemiti di morte:

la sua parola su le folle insorte

scende secura con pacati accenti.

 

Ma più nera d'intorno la procella

stride del male: da le aperte gole

una folla di livide parole

copre di fango l'opera novella.

 

Un bagliore sanguigno intanto rade

l'estremo dubitar dell'orizzonte:

allor, fremendo, al suol piega la fronte

e stanco sotto la sua croce cade...

 

(da "Brume", Trinchera, Messina 1913, p. 13)

 

 

 

 

LA VIA DEL CALVARIO

di Saverio Fino (1874-1937)

 

Figliolo di Gesù, prendi la croce,

e portala al Calvario. Una feroce

turba l'opprime. Ei cade e sorge e cade

e sorge e cade disfatto. L'invade

lo scoramento: l'anima gli manca,

cosa, ah!, più trista del corpo che sfianca.

Intorno abbuia l'universo e tutto.

Maria, lo vedi di tua carne il frutto?

Giovanni, vedi la tua Madre? Gli occhi

guardano aridi; tremano i ginocchi.

Con Te, Gesù, nel fango la mia stolta

umanità morde la terra; ascolta

i suoi gemiti! Hai rotta la persona,

ma io piango e ancora Tu, Gesù, perdona.

Ecco, è il Calvario: è l'ultima agonia;

pendi ai chiovi, Gesù, l'anima mia!

 

(da "Elevazione e altri versi", Società Editrice Internazionale, Torino 1923, pp. 30-31)

 

 

 

 

VIA CRUCIS

di Luigi Grilli (1858-1931)

 

Sta la solinga vetta,

Che arride al viandante,

Alta nella raggiante

Gloria del sole eretta.

 

Ei tra gli sterpi affretta,

Acceso il volto, ansante,

Ma il piede riluttante

A terra, ecco, lo getta.

 

E il sognatore in alto

Guarda, sospira e tace,

Vinto nell'arduo assalto:

 

Vinto non già fiaccato;

Ché pel suo cor pugnace

È la battaglia fato.

 

(da «Natura ed Arte», dicembre 1899)

 

 

 

 

MOMENTI DELLA PASSIONE (III)

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

Senza bellezza né vigore. L'arbusto secco, piegato

dal vento del deserto, che lo ricopre di sabbia grigia.

L'animale condotto al macello,

il corpo una rigida angoscia, lo sguardo un muto tremito.

Noi lo vorremmo lontano, lo abbiamo respinto dal nostro mondo!

Non sopportiamo la sua vista né il suo ricordo.

Perché dunque ci perseguita sempre, perché torna a balenarci davanti

come una spada che ferisce ed illumina?

Perché ci appartiene più di quanto noi stessi ci apparteniamo?

Chiudiamo invano gli occhi: anche il buio più nero,

come il candido panno della Veronica,

fa soltanto da sfondo al volto doloroso

del Figlio dell'Uomo.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 327)

 

 

 

 

VIA CRUCIS

di Angiolo Orvieto (1869-1967)

 

Su su per l'erta del dolore umano

vanno schiere infinite di viventi,

lente movendo sempre innanzi, invano,

per l'aer bigio, tra' vapor dolenti.

 

Decine di milioni, a mano a mano,

passano i vivi pallidi e silenti;

il volto e la persona d'un arcano

duolo ha l'impronta ed ha gli atteggiamenti.

 

E vanno e vanno e vanno senza tregua

verso la mèta oscura della morte,

che chiude nel mister la cupa strada.

 

E mentre che un esercito dilegua,

erompe un altro fuor da ignote porte,

e dietro a lui convien che a morte vada.

 

(da "Poesie scelte", Olschki, Firenze 1979, p. 46)

 

 

 

 

LA VIA CRUCIS...

di Michele Pierri (1899-1988)

 

     La via crucis che con tanta spontaneità e contribuzione riesco a seguire è quella della tua vita stazione per stazione, che la memoria di continuo mi mostra nella sua conosciuta realtà. E questo m'induce a pensare che tu sei stata la presenza umana di Dio a me più vicina anche negli altri atti dell'esistenza, col tuo evangelo domestico dalle nozze di Cana in poi. Voglia Gesù concedermi l'ultimo evento, la sua resurrezione da te rappresentata a illuminare la mia pochezza di cieco.

 

(da "E ti chiamo - libera verità", La Finestra, Trento 2002, p. 219)

 

 

 

 

LA VIA CRUCIS

di Maria Luisa Spaziani (1922-2014)

 

La bronchite stanotte mi trasforma

in una quercia carica di neve.

Crocifissa alla terra con radici

di debolezza e brividi,

sento i rami che grevi si curvano

sotto il peso di mille cristalli.

 

Conobbi un giorno un ragazzetto, molto

più malato di me.

Respirava a fatica, ed un veliero

insabbiato pareva nel suo letto,

ma il pensiero in alto era il rigogolo

sulla cima dell’olmo fulminato.

 

Questa notte lo penso, io che so bene

che presto guarirò.

E simile mi sento a quel fedele

che vidi a Bruges nel suo manto di lontra.

Guardava una via Crucis e si sforzava

d’immaginare il fiele e ogni tormento.

 

E forse oscuramente anche sentiva

che non soltanto il Cristo delle icone

il passo sterminato delle tenebre

lo varca in nostro nome.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2012, p. 101)



Duccio da Buoninsegna, "Le stazioni della Via Crucis"
(da questa pagina web)