domenica 24 gennaio 2021

Le ninfe nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Le ninfe sono, nella mitologia classica, delle divinità in forma di giovani donne, che amano sostare o abitare presso fonti, corsi d'acqua o laghi. Collegate alle ninfe sono le piante acquatiche dette ninfee; secondo una leggenda - anch'essa riconducibile alla mitologia - una ninfa fu tramutata in questo fiore a causa della eccessiva gelosia che provava nei confronti di Ercole (da qui il nome). I poeti italiani decadenti e simbolisti furono attirati da queste figure mitologiche senza dubbio affascinanti e misteriose, e le inserirono nei loro versi, sia da protagoniste, sia accomunate ad altre divinità. Per quel che concerne la simbologia, le ninfe molto spesso hanno a che vedere con la bellezza irraggiungibile e con l'amore non corrisposto. Andando ad analizzare brevemente alcune poesie che le pongono in risalto, e partendo dalla seconda metà dell'Ottocento, nei versi di Arturo Graf la ninfea diviene quasi una chimera, trovandosi nelle prossimità della cima di un monte, all'interno di una foresta e nei pressi di una sorgente; totalmente svestita e bellissima, essa rappresenta per il poeta "un sogno d'amor vivo e fiorente, / che al radiar d'una suprema idea / nel sen di virginale alma si chiuda". Gabriele D'Annunzio nel Poema paradisiaco inserisce due sonetti dedicati alle ninfe: La Napea e La Naiade; la prima è una ninfa dei boschi, e il poeta abruzzese la pone all'interno di un ambiente collinare, a pochi passi dal mare, avvolto in un fitto mistero; la seconda, che è una ninfa delle acque, vive invece in una sorta di limbo, all'interno di un luogo in cui, tanti e tanti anni prima, si svolsero riti erotici di cui ancora rimangono alcuni indizi; qui, la evanescente presenza della ninfa, si manifesta tramite rumori insoliti, che riconducono il pensiero ai tempi memorabili in cui quel luogo ora desolato era al centro di convegni amorosi. Passando al Novecento, il discorso cambia poco; ci sono poeti come Vincenzo Fago che mettono in risalto il lato erotico delle dee, osservandole mentre, completamente nude, s'immergono nelle acque di un lago, scatenando nel poeta un immenso desiderio; ci sono invece poeti come Diego Garoglio che le descrivono in tutt'altro modo: marmoree e sognanti, praticamente imprigionate nel luogo dove sono state poste, esse sono simili all'anima triste del poeta, che è impossibilitato, come loro, a realizzare i suoi celestiali sogni.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "Le ninfe, il satiro e il poeta" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Edoardo Giacomo Boner: "Sogno" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Enrico Annibale Butti: "Amor novo" in «Cronaca d'Arte», 26 luglio 1891.

Gabriele D'Annunzio: "La Napea" e "La Naiade" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuseppe De Paoli: "L'attesa" in "Il sistro d'oro" (1909).

G. A. Fabris: "Apollo" in «Hermes», 1905-1906.

Vincenzo Fago: "Il bagno d'Egle" in "Discordanze" (1905).

Diego Garoglio: "La ninfa" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Arturo Graf: "Ninfea" in "Medusa" (1890).

Arturo Graf: "Le ninfe di marmo" in "Le Danaidi" (1905).

Ettore Magni: "Fasi lunari" in "Canti nomadi" (1908).

Enrico Panzacchi: "Mitologia" in "Poesie" (1908).

Fausto Salvatori: "La Ninfa" in "La Terra promessa" (1907).

Luigi Siciliani: "Eco" in "Sogni pagani" (1906).

Cesare Giulio Viola: "Lo statere" in «La Democrazia», 20 ottobre 1905.

 

 

 

Testi

 

LA NAPEA

di Gabriele D'Annunzio

 

Lentamente dai cieli il Giorno inclina

come stanco dei troppo lungo ardore,

acceso avendo l'intimo sapore

in quei frutti che sola una divina

mano dai rami penduli ne l'ore

notturne coglierà, su la collina

irrigata, di quasi feminina

forma, ove dura un qualche antico amore.

 

Lentamente la curva ombra si stende

giù pe 'l declivo; e giunge, d'orto in orto,

insino a un golfo che de' raggi estremi

ampio e falcato in lontananza splende:

ove già fu, nel tempo antico, un porto

che forse contenea mille triremi.

 

(da "Poema paradisiaco")

 

 

 

 

ECO

di Luigi Siciliani

 

Fui bella. Per i boschi esercitati

dal mio piede veloce e per i campi

udivo il mormorio de' freschi fonti,

il più leggero scorrere dell'acque;

ogni canto d'alati, ogni susurro

di venti leni o grido di tempesta

coglievo; mi era noto ogni recesso,

ogni grotta, ove giungono ansimanti

l'agili cerve rapide, seguite

dall'ululato cupido dei cani.

A me tesero acquati indarno i fauni

d'orecchio aguzzo e piede bipartito:

fui ebbra della dolce libertà.

 

Un giorno io mossi verso la pianura

coperta dalla lunga ombra dei colli;

mi tremava sul capo una ghirlanda

d'edera sempre verde e di ciclami

tolti dal bosco, fiori dell'autunno.

Arsa di sete ero discesa al murmure

d'un fonte cristallino a dissetarmi,

e negli orecchi m'era ancora un suono

soave ed uno strepere di voli,

tal che sui labbri mi saliva il canto.

A un tratto scorsi sull'opposta riva

un uomo, fermo, immobile. Ristetti,

poi, cauta, — non so chi mi sospinse —

trassi verso colui che par non curi

di cosa alcuna e solo intenda a quella

fluidità perenne del ruscello.

 

E mirai con questi occhi un tale aspetto

che nulla più mi cancellò dal cuore;

e per le membra mie stupite corse

un tremore un pallor sùbito. Quegli

me già non vide, intento e reclinato

alla perenne correntia dell'onda.

A lungo tacqui; poi la miseranda

anima ritornò, si fece ardita

e suscitò le deboli parole:

«Odimi! sono Eco, una ninfa...» Quegli

si levò disdegnando e con pié ratto

mosse, sparì nel bosco frondeggiante.

 

Sempre fuggi, sempre da me lontano,

schivando i piedi miei veloci al corso.

Ma non la voce delle mie compagne

e non lo scherno e il riso altosonante

entro il denso fogliame me rattenne

dei fauni pié partito orecchio aguzzo.

Avida ovunque il folle desiderio

mi indicasse la traccia de' suoi piedi

io sempre corsi dietro l'implacato;

e sempre lo trovai fiso nei fiumi,

fiso nelle perenni correntie,

dove il suo folle affanno lo spingeva

a ricercare a rimirar sé stesso.

 

Riarsa dalla mia cocente febbre,

dall'implacato assillo dell'amore,

lo cercai per le valli i monti i piani,

e mi si inaridiva nelle fauci

la voce per il diuturno grido:

«O Narciso, o Narciso, odimi! sono

una vergine indomita e mi piego

liberamente a questa tua bellezza;

bianca son io più che la neve e il latte,

ma tu sei come il grappolo maturo.

O Narciso, o Narciso, odi la ninfa

molto desiderata Eco montana!»

Ma quegli, intento nella sua bellezza,

non amò che sé solo che sé solo,

non seppe egli né volle che sé stesso.

E sulla folle brama sua tornò

immobile la fonte cristallina.

 

Ebbra ne fui; fui pazza di dolore.

Quando il mio corpo cadde al suolo, l'anima

fuggì via, fuggì via gridando sempre,

chiamando lui dovunque il mio perduto,

cercando per la terra il mio perduto,

che amò sé stesso e disdegnò la ninfa

molto desiderata Eco montana.

 

Or vanno i gridi miei da monte a monte,

da valle a valle. Ad ogni voce che

risuoni forte e forte si lamenti,

risponde la mia voce eternamente.

Non rimane di me che un vano suono,

che tu cerchi onde muova, e trovi solo

quel pianto eterno che riecheggia a te,

scorrendo per la terra ampia ogni luogo,

ripercotendo sempre la tua voce,

che mia s'è fatta, e docile si leva

sempre che voglia sempre che l'invochi,

e da secoli e secoli il perenne

lamento grida nello spazio vano.

 

(da "Sogni pagani")

 

John William Waterhouse, "Nymphs finding the Head of Orpheus"
(da questa pagina web)


domenica 17 gennaio 2021

"Myricae" di Giovanni Pascoli

 

Ricordo ancora perfettamente quando, in un soleggiato pomeriggio autunnale dell'anno 1992, mi recai in una libreria di Ostia Lido e comperai due libri di versi; uno di essi era Myricae di Giovanni Pascoli, e fu anche il primo libro del poeta romagnolo che entrò a far parte della mia biblioteca. Fino a quel momento, la mia conoscenza della poesia pascoliana si era limitata ai versi presenti nei vecchi libri di scuola o in qualche antologia; quasi nulla, quindi, sapevo della raccolta, che, oltre ad essere la prima pubblicata dal Pascoli, è considerata tra le migliori del secolo XIX (e non solo in ambito nazionale). Volendo ora parlare un po' della storia di questo capolavoro della poesia italiana e internazionale, comincio dicendo che la prima edizione di Myricae uscì nel luglio del 1891; le 22 poesie presenti in questo libriccino, erano già apparse qualche anno prima nella rivista Vita nuova; 10 di esse, rintracciabili nell'edizione del 10 agosto 1890, ovvero nell'anniversario della morte del papà di Pascoli, portavano già il titolo della futura raccolta. Ben più consistente fu la seconda edizione di Myricae, pubblicata nel gennaio del 1892, poiché in essa comparvero 50 componimenti poetici in più, che contribuirono decisamente a dare un aspetto nuovo all'opera. Fu però la terza edizione: uscita nel marzo del 1894, a fornire la struttura portante della raccolta, mantenuta definitivamente. Qui, le liriche divengono 116, venendo a formare un gruppo ben corposo. Anche nella quarta edizione, comparsa nel febbraio del 1897, il Pascoli aggiunse nuove poesie, portando il numero totale a 152. Infine, la quinta e definitiva edizione del 1900, vide l'aggiunta di sole 4 liriche. Uguale alla precedente - eccetto alcuni particolari non molto rilevanti - è la sesta ed ultima edizione del 1903. Di Myricae, nei decenni che seguirono, uscirono tante nuove edizioni; quella che io posseggo, è la quinta della Rizzoli (collana BUR Poesia); qui è possibile leggere anche l'ottima prefazione del critico letterario Vincenzo Mengaldo, nonché le importantissime note di Franco Melotti; in verità non conosco altre edizioni di quest'opera, ma è certo che considero questa una delle migliori in assoluto. È grazie a questo libro che ho potuto approfondire la conoscenza dell'opera poetica pascoliana, e finalmente leggere le tante belle poesie trascurate dai libri di scuola. Per quel che concerne la sostanza di questa raccolta, ed anche il motivo della sua importanza, è opportuno dire che i versi di Myricae soltanto apparentemente sembrano proseguire la strada del verismo, già tracciata qualche decennio addietro, sia in prosa che in poesia, da altri ottimi scrittori italiani; in realtà, dietro alle immagini di vita campestre, di fanciulle e ragazze, di lavoratori e di semplici animali, si cela un sentimento di sconcerto, un malessere e un pessimismo che sfocia in malinconia. Inoltre, dall'insieme delle rappresentazioni e delle descrizioni della natura che lo circonda, il poeta fa scaturire un senso del mistero che ricopre ogni oggetto e ogni forma vivente; tutto ciò diviene percepibile solo e soltanto agli occhi del cosiddetto fanciullino: una presenza nascosta, che pure possiede qualsiasi essere umano (ma i più ne sono inconsapevoli), e che gli permette di scoprire, con occhi nuovi, tutti i segreti del mondo che lo circonda; questi occhi non sono altro che quelli del bambino: libero da qualsiasi struttura culturale o pregiudizio morale e nello stesso tempo dotato di quella freschezza, quella voglia di scoperta e quell'intuito che l'adulto non possiede. Soltanto il fanciullino può, in tal modo, far emergere tutto ciò che esiste di autentico e di spontaneo nelle piccole e pur grandi manifestazioni della natura; nel contempo è in grado di capire i significati arcani, riesce a decifrare dei rapporti invisibili tra le cose e tra gli esseri viventi. Da qui nasce anche il simbolismo pascoliano: facile da individuare in molti suoi componimenti poetici, e nello stesso tempo assai profondo. Nelle raccolte poetiche successive a Myricae, raramente il Pascoli raggiunse questi livelli di semplicità e di profondità; soltanto nei Canti di Castelvecchio è possibile rintracciare più di qualcosa che assomigli alla prima opera poetica dello scrittore romagnolo. In conclusione, ecco cinque indimenticabili poesie tratte da Myricae.

 

 


 

ALLORA

 

Allora... in un tempo assai lunge...

felice fui molto; non ora;

ma quanta dolcezza mi giunge

da tanta dolcezza d'allora!

 

Quell'anno!... per anni che poi

fuggirono, che fuggiranno,

non puoi, mio pensiero, non puoi

portare con te, che quell'anno!

 

Un giorno fu quello, ch'è senza

compagno, ch'è senza ritorno:

la vita fu vana parvenza

sì prima sì dopo quel giorno!

 

Un punto!... così passeggero,

che in vero passò non raggiunto;

ma bello così, che molto ero

felice felice, quel punto!

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 129)

 

 

 

 

ORFANO

 

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.

Senti: una zana dondola pian piano.

Un bimbo piange, il picciol dito in bocca;

canta una vecchia, il mento sulla mano.

 

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino

c'è rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo s'addormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 175)

 

 

 

 

L’ASSIUOLO

 

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù...

 

Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chiù...

 

Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?...);

e c’era quel pianto di morte...

chiù...

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 264-265)

 

 

 

 

IL NIDO

 

Dal selvaggio rosaio scheletrito

penzola un nido. Come, a primavera,

ne prorompeva empiendo la riviera

il cinguettio del garrulo convito!

 

Or v’è sola una piuma, che all’invito

del vento esita, palpita leggiera;

qual sogno antico in anima severa,

fuggente sempre e non ancor fuggito:

 

e già l’occhio dal cielo ora si toglie;

dal cielo dove un ultimo concento

salì raggiando e dileguò nell’aria;

 

e si figge alla terra, in cui le foglie

putride stanno, mentre a onde il vento

piange nella campagna solitaria.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 299-300)

 

 

 

 

 

ULTIMO SOGNO

 

Da un immoto fragor di carrïaggi

ferrei, moventi verso l'infinito

tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...

un silenzio improvviso. Ero guarito.

 

Era spirato il nembo del mio male

in un alito. Un muovere di ciglia;

e vidi la mia madre al capezzale:

io la guardava senza meraviglia.

 

Libero!... inerte sì, forse, quand'io

le mani al petto sciogliere volessi:

ma non volevo. Udivasi un fruscio

sottile, assiduo, quasi di cipressi;

 

quasi d'un fiume che cercasse il mare

inesistente, in un immenso piano:

io ne seguiva il vano sussurrare,

sempre lo stesso, sempre più lontano.

 

(da "Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 364-365)

 

domenica 10 gennaio 2021

Antologie: "Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina"

 

Sebbene si tratti di un interessante saggio scritto da Elsa Sormani, il volume intitolato Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina, edito da Laterza in Bari nel 1973, ha caratteristiche tali da renderlo una vera e propria antologia critica, in cui sono presenti sia frammenti di prosa, che versi. Il libro si compone di quattro sezioni che vado ad elencare: Dal decadentismo europeo al bizantinismo; Prosatori e narratori dalla scapigliatura al decadentismo; Arte, scienza e fede in Antonio Fogazzaro; Poeti fine secolo. In tutte le sezioni compaiono delle poesie: nella prima ve ne sono alcune di Ugo Fleres, Giulio Salvadori, Contessa Lara, Adolfo De Bosis, Enrico Nencioni ed Enrico Panzacchi; nella seconda si trova una lirica di Luigi Gualdo; nella terza, oltre ad alcuni frammenti del poema Miranda, trovano spazio tre poesie di Antonio Fogazzaro; infine, nell'ultima sezione abbondano poesie di Remigio Zena, Arturo Graf, Giovanni Camerana, Vittoria Aganoor e Domenico Gnoli. Nel complesso, questo saggio antologico analizza ciò che di meglio si produsse in Italia sia in prosa che in versi, nell'ultimo quarto del secolo XIX, escludendo però dall'analisi i "grandi" come Giovanni Verga, Luigi Capuana, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio. C'è da precisare che qui vengono presi maggiormente in considerazione gli scrittori più vicini a determinate scuole e tendenze artistiche, assai in voga nella seconda parte dell'Ottocento; in particolare si focalizza l'attenzione sui bizantinisti e sui decadenti, trascurando quindi tutti gli altri scrittori (dai classicisti ai realisti, dagli scapigliati ai tardo-romantici) che produssero, in questi determinati anni, opere letterarie altrettanto interessanti. In realtà, nella collana dell'editore Laterza dedicata alla letteratura italiana, di cui fa parte anche il volume che ho preso in esame, esistono altri saggi antologici che si occupano degli assenti, siano essi "minori" (gli scapigliati, Olindo Guerrini, Pompeo Bettini ecc.) o "maggiori" (Carducci, Pascoli, D'Annunzio e anche i poeti crepuscolari); alcuni di questi saggi, saranno da me ricordati in nuovi post futuri. Chiudo, elencando gli scrittori presenti in Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina (tralasciando però i nomi di coloro che ivi figurano con frammenti prosastici).

 

BIZANTINI E DECADENTI NELL'ITALIA UMBERTINA




 

Vittoria Aganoor, Giovanni Camerana, Contessa Lara, Adolfo De Bosis, Ugo Fleres, Antonio Fogazzaro, Domenico Gnoli, Arturo Graf, Luigi Gualdo, Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi, Giulio Salvadori, Remigio Zena.

lunedì 4 gennaio 2021

Giorno piovoso

 

È freddo il giorno e scuro,

    piove e imperversa forte l'uragan,

aggrappasi la vite al vecchio muro

    e morte foglie al suol cadendo van;

                    il giorno è mesto e scuro.

 

Fredda e fosca è la vita,

    sibila il vento e piove, i pensier mesti

s'aggrappano al passato, irrigidita

    cade la speme giovanil, funesti

                    sono i giorni e la vita.

 

Cessa, o mio cor, dal lutto;

    al di là delle nubi avvi lucente

un sole, e simil fato è in tutti e in tutto;

    qualche giorno di pioggia ha ognun sovente,

                    qualche giorno di lutto.

 

 

In questo post voglio parlare di una poesia che rimane profondamente legata ad un mio lontano giorno dell'infanzia. Era, probabilmente, una mattina autunnale, grigia e piovosa; mi trovavo nell'aula della scuola elementare della mia frazione, insieme ai miei compagni di allora: forse era il 1972 o forse l'anno seguente. Quel giorno la maestra decise di farci leggere una poesia intitolata Giorno piovoso. Non ricordo se dovemmo impararla a memoria, però ricordo bene quei pochi versi che parlavano proprio di una giornata uggiosa e malinconica; una volta che l'ebbi letta non potei fare a meno di guardare, fuori dalla finestra dell'istituto scolastico, quel pezzettino di paesaggio che riuscivo a scorgere, e che rispecchiava fedelmente l'atmosfera dei versi appena letti. Questa poesia, tradotta in italiano da non so chi, è del poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882). Ciò che lessi, in realtà, è soltanto la prima parte del componimento; la seconda e la terza non sono presenti nel libro di letture scolastiche dove si trovava e dove tutt'ora si trova, visto che il volume lo possiedo ancora. Dato che trovo questa poesia bellissima in tutte le sue parti, ho voluto riportarla per intero, trascrivendola da una vecchia raccolta di poesie tradotte da Diocleziano Mancini¹. Di quest'ultimo, so che nacque a Terni nel 1857, e che fu egregio traduttore di poesie inglesi, francesi, spagnole e slave. Il suo nome è facile ritrovarlo sfogliando alcune riviste di fine Ottocento e d'inizio Novecento; ivi figura sempre come traduttore e mai come poeta originale. Invece, i versi che lessi tanti e tanti anni or sono, e che mi rimasero sempre impressi nella memoria, li ho riproposti nella foto in basso: alla pagina 20 del libro Il fiore d'oro Classe 2°, Noseda, Como 1970; insieme ad essa c'è un'altra poesia², ed entrambe sono inserite nella sezione intitolata Novembre.



 


NOTE

1) Esattamente è Saggio di liriche inglesi, Tipografia dell'Unione Liberale, Terni 1886. La poesia riportata si trova alle pagine 155-156.

2) Si tratta di Crisantemo, la cui autrice: Arpalice Cuman Pertile (1876-1958), fu docente e poetessa, e dedicò la maggior parte dei suoi scritti al pubblico infantile.

domenica 3 gennaio 2021

La poesia di Dino Campana

 

Dino Campana (Marradi 1885 - Scandicci 1932) ha sempre creato enormi divisioni nei critici e nei lettori di poesia: fin da quando fu pubblicata la sua unica raccolta di versi e prose intitolata Canti orfici (correva l'anno 1914), nacquero delle discussioni tra chi lo riteneva un talento eccezionale e chi invece lo stroncava in modo netto. Tutt'ora, credo, vi siano ancora delle valutazioni contrastanti nei suoi riguardi. Per quel che concerne il mio pensiero, devo ammettere che non fui mai particolarmente attratto dalla poesia di Campana e ancor meno dalle sue prose poetiche. Tuttavia non penso, come fecero e fanno alcuni, che il poeta di Marradi fosse soltanto un malato di mente; alcune sue poesie sono bellissime e se dovessi compilare un'antologia della migliore poesia italiana novecentesca, non lascerei certamente fuori almeno tre fra le sue composizioni in versi; Chimera, Giardino autunnale e Canto della tenebra. Da qui a considerarlo, come hanno fatto molti critici in passato, quale capostipite della cosiddetta "poesia pura", ce ne passa; penso che tale privilegio - ammesso che lo sia - vada attribuito al solo Arturo Onofri (e parlo, ovviamente, dell'ultima fase poetica dello scrittore romano). Campana invece, a me sembra più legato al secolo XIX, e in particolare alle poetiche care ai decadenti e ai simbolisti; per esempio è facile e forse un po' abusato il suo accostamento ad Arthur Rimbaud. Ma, rimanendo in Italia, a me sembra che ci siano alcune somiglianze anche con un poeta troppo spesso etichettato come "scapigliato": Giovanni Camerana; se si leggono alcuni versi del poeta piemontese, come Guarda lo stagno livido o Corot, è facile trovare la stessa intensità visionaria che si respira in Giardino autunnale o in L'invetriata. Non mi sembra invece di riscontrare alcuna comunanza di contenuti con l'opera poetica di Giosuè Carducci, che qualche critico ha chiamato in causa; per quanto riguarda i vociani, se è vero che Campana predilesse come loro i frammenti poetici e prosastici, per il resto c'è ben poco che li fa stare insieme. Chiudo riportando le tre poesie di Dino Campana che ho citato in precedenza: tre autentici e indimenticabili capolavori della poesia italiana del Novecento.

 

 


 

 

LA CHIMERA

 

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

(da "Opere", TEA, Milano 1989, pp. 23-24)

 

 

 

 

GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)

 

Al giardino spettrale al lauro muto

De le verdi ghirlande

A la terra autunnale

Un ultimo saluto!

A l'aride pendici

Aspre arrossate nell'estremo sole

Confusa di rumori

Rauchi grida la lontana vita:

Grida al morente sole

Che insanguina le aiole.

S'intende una fanfara

Che straziante sale: il fiume spare

Ne le arene dorate: nel silenzio

Stanno le bianche statue a capo i ponti

Volte: e le cose già non sono più.

E dal fondo silenzio come un coro

Tenero e grandioso

Sorge ed anela in alto al mio balcone:

E in aroma d'alloro,

In aroma d'alloro acre languente,

Tra le statue immortali nel tramonto

Ella m'appar, presente.

 

(da "Opere", TEA, Milano 1989, pp. 25)

 

 

 

 

IL CANTO DELLA TENEBRA

 

La luce del crepuscolo si attenua:

Inquieti spiriti sia dolce la tenebra

Al cuore che non ama più!

Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,

Sorgenti sorgenti che sanno

Sorgenti che sanno che spiriti stanno

Che spiriti stanno a ascoltare...

Ascolta: la luce del crepuscolo attenua

Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:

Ascolta: ti ha vinto la Sorte:

Ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte:

Non c'è di dolcezza che possa uguagliare la Morte

Più Più Più

Intendi chi ancora ti culla:

Intendi la dolce fanciulla

Che dice all'orecchio: Più Più

Ed ecco si leva e scompare

Il vento: ecco torna dal mare

Ed ecco sentiamo ansimare

Il cuore che ci amò di più!

Guardiamo: di già il paesaggio

Degli alberi e l'acque è notturno

Il fiume va via taciturno...

Pùm! mamma quell'omo lassù!

 

(da "Opere", TEA, Milano 1989, pp. 28)