Ricordo ancora perfettamente quando, in un soleggiato pomeriggio autunnale dell'anno 1992, mi recai in una libreria di Ostia Lido e comperai due libri di versi; uno di essi era Myricae di Giovanni Pascoli, e fu anche il primo libro del poeta romagnolo che entrò a far parte della mia biblioteca. Fino a quel momento, la mia conoscenza della poesia pascoliana si era limitata ai versi presenti nei vecchi libri di scuola o in qualche antologia; quasi nulla, quindi, sapevo della raccolta, che, oltre ad essere la prima pubblicata dal Pascoli, è considerata tra le migliori del secolo XIX (e non solo in ambito nazionale). Volendo ora parlare un po' della storia di questo capolavoro della poesia italiana e internazionale, comincio dicendo che la prima edizione di Myricae uscì nel luglio del 1891; le 22 poesie presenti in questo libriccino, erano già apparse qualche anno prima nella rivista Vita nuova; 10 di esse, rintracciabili nell'edizione del 10 agosto 1890, ovvero nell'anniversario della morte del papà di Pascoli, portavano già il titolo della futura raccolta. Ben più consistente fu la seconda edizione di Myricae, pubblicata nel gennaio del 1892, poiché in essa comparvero 50 componimenti poetici in più, che contribuirono decisamente a dare un aspetto nuovo all'opera. Fu però la terza edizione: uscita nel marzo del 1894, a fornire la struttura portante della raccolta, mantenuta definitivamente. Qui, le liriche divengono 116, venendo a formare un gruppo ben corposo. Anche nella quarta edizione, comparsa nel febbraio del 1897, il Pascoli aggiunse nuove poesie, portando il numero totale a 152. Infine, la quinta e definitiva edizione del 1900, vide l'aggiunta di sole 4 liriche. Uguale alla precedente - eccetto alcuni particolari non molto rilevanti - è la sesta ed ultima edizione del 1903. Di Myricae, nei decenni che seguirono, uscirono tante nuove edizioni; quella che io posseggo, è la quinta della Rizzoli (collana BUR Poesia); qui è possibile leggere anche l'ottima prefazione del critico letterario Vincenzo Mengaldo, nonché le importantissime note di Franco Melotti; in verità non conosco altre edizioni di quest'opera, ma è certo che considero questa una delle migliori in assoluto. È grazie a questo libro che ho potuto approfondire la conoscenza dell'opera poetica pascoliana, e finalmente leggere le tante belle poesie trascurate dai libri di scuola. Per quel che concerne la sostanza di questa raccolta, ed anche il motivo della sua importanza, è opportuno dire che i versi di Myricae soltanto apparentemente sembrano proseguire la strada del verismo, già tracciata qualche decennio addietro, sia in prosa che in poesia, da altri ottimi scrittori italiani; in realtà, dietro alle immagini di vita campestre, di fanciulle e ragazze, di lavoratori e di semplici animali, si cela un sentimento di sconcerto, un malessere e un pessimismo che sfocia in malinconia. Inoltre, dall'insieme delle rappresentazioni e delle descrizioni della natura che lo circonda, il poeta fa scaturire un senso del mistero che ricopre ogni oggetto e ogni forma vivente; tutto ciò diviene percepibile solo e soltanto agli occhi del cosiddetto fanciullino: una presenza nascosta, che pure possiede qualsiasi essere umano (ma i più ne sono inconsapevoli), e che gli permette di scoprire, con occhi nuovi, tutti i segreti del mondo che lo circonda; questi occhi non sono altro che quelli del bambino: libero da qualsiasi struttura culturale o pregiudizio morale e nello stesso tempo dotato di quella freschezza, quella voglia di scoperta e quell'intuito che l'adulto non possiede. Soltanto il fanciullino può, in tal modo, far emergere tutto ciò che esiste di autentico e di spontaneo nelle piccole e pur grandi manifestazioni della natura; nel contempo è in grado di capire i significati arcani, riesce a decifrare dei rapporti invisibili tra le cose e tra gli esseri viventi. Da qui nasce anche il simbolismo pascoliano: facile da individuare in molti suoi componimenti poetici, e nello stesso tempo assai profondo. Nelle raccolte poetiche successive a Myricae, raramente il Pascoli raggiunse questi livelli di semplicità e di profondità; soltanto nei Canti di Castelvecchio è possibile rintracciare più di qualcosa che assomigli alla prima opera poetica dello scrittore romagnolo. In conclusione, ecco cinque indimenticabili poesie tratte da Myricae.
ALLORA
Allora... in un
tempo assai lunge...
felice fui molto;
non ora;
ma quanta
dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza
d'allora!
Quell'anno!...
per anni che poi
fuggirono, che
fuggiranno,
non puoi, mio
pensiero, non puoi
portare con te,
che quell'anno!
Un giorno fu
quello, ch'è senza
compagno, ch'è
senza ritorno:
la vita fu vana
parvenza
sì prima sì dopo
quel giorno!
Un punto!... così
passeggero,
che in vero passò
non raggiunto;
ma bello così,
che molto ero
felice felice,
quel punto!
(da
"Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 129)
ORFANO
Lenta la neve
fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana
dondola pian piano.
Un bimbo piange,
il picciol dito in bocca;
canta una vecchia,
il mento sulla mano.
La vecchia canta:
Intorno al tuo lettino
c'è rose e gigli,
tutto un bel giardino.
Nel bel giardino
il bimbo s'addormenta.
La neve fiocca
lenta, lenta, lenta.
(da
"Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 175)
L’ASSIUOLO
Dov’era la luna?
ché il cielo
notava in un’alba
di perla,
ed ergersi il
mandorlo e il melo
parevano a meglio
vederla.
Venivano soffi di
lampi
da un nero di
nubi laggiù;
veniva una voce
dai campi:
chiù...
Le stelle
lucevano rare
tra mezzo alla
nebbia di latte:
sentivo il
cullare del mare,
sentivo un fru
fru tra le fratte;
sentivo nel cuore
un sussulto,
com’eco d’un
grido che fu.
Sonava lontano il
singulto:
chiù...
Su tutte le
lucide vette
tremava un
sospiro di vento:
squassavano le
cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a
invisibili porte
che forse non
s’aprono più?...);
e c’era quel
pianto di morte...
chiù...
(da
"Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 264-265)
IL NIDO
Dal selvaggio
rosaio scheletrito
penzola un nido.
Come, a primavera,
ne prorompeva
empiendo la riviera
il cinguettio del
garrulo convito!
Or v’è sola una
piuma, che all’invito
del vento esita,
palpita leggiera;
qual sogno antico
in anima severa,
fuggente sempre e
non ancor fuggito:
e già l’occhio
dal cielo ora si toglie;
dal cielo dove un
ultimo concento
salì raggiando e
dileguò nell’aria;
e si figge alla
terra, in cui le foglie
putride stanno,
mentre a onde il vento
piange nella
campagna solitaria.
(da
"Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 299-300)
ULTIMO SOGNO
Da un immoto
fragor di carrïaggi
ferrei, moventi
verso l'infinito
tra schiocchi
acuti e fremiti selvaggi...
un silenzio
improvviso. Ero guarito.
Era spirato il
nembo del mio male
in un alito. Un
muovere di ciglia;
e vidi la mia
madre al capezzale:
io la guardava
senza meraviglia.
Libero!... inerte
sì, forse, quand'io
le mani al petto
sciogliere volessi:
ma non volevo.
Udivasi un fruscio
sottile, assiduo,
quasi di cipressi;
quasi d'un fiume
che cercasse il mare
inesistente, in
un immenso piano:
io ne seguiva il
vano sussurrare,
sempre lo stesso,
sempre più lontano.
(da
"Myricae", Rizzoli, Milano 1992, p. 364-365)
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