Le ninfe sono, nella
mitologia classica, delle divinità in forma di giovani donne, che amano sostare
o abitare presso fonti, corsi d'acqua o laghi. Collegate alle ninfe sono le
piante acquatiche dette ninfee; secondo una leggenda - anch'essa riconducibile
alla mitologia - una ninfa fu tramutata in questo fiore a causa della eccessiva
gelosia che provava nei confronti di Ercole (da qui il nome). I poeti italiani
decadenti e simbolisti furono attirati da queste figure mitologiche senza
dubbio affascinanti e misteriose, e le inserirono nei loro versi, sia da
protagoniste, sia accomunate ad altre divinità. Per quel che concerne la
simbologia, le ninfe molto spesso hanno a che vedere con la bellezza
irraggiungibile e con l'amore non corrisposto. Andando ad analizzare brevemente
alcune poesie che le pongono in risalto, e partendo dalla seconda metà
dell'Ottocento, nei versi di Arturo Graf la ninfea diviene quasi una chimera,
trovandosi nelle prossimità della cima di un monte, all'interno di una foresta
e nei pressi di una sorgente; totalmente svestita e bellissima, essa
rappresenta per il poeta "un sogno
d'amor vivo e fiorente, / che al radiar d'una suprema idea / nel sen di
virginale alma si chiuda". Gabriele D'Annunzio nel Poema paradisiaco inserisce due sonetti
dedicati alle ninfe: La Napea e La Naiade; la prima è una ninfa dei
boschi, e il poeta abruzzese la pone all'interno di un ambiente collinare, a
pochi passi dal mare, avvolto in un fitto mistero; la seconda, che è una ninfa
delle acque, vive invece in una sorta di limbo, all'interno di un luogo in cui,
tanti e tanti anni prima, si svolsero riti erotici di cui ancora rimangono
alcuni indizi; qui, la evanescente presenza della ninfa, si manifesta tramite
rumori insoliti, che riconducono il pensiero ai tempi memorabili in cui quel
luogo ora desolato era al centro di convegni amorosi. Passando al Novecento, il
discorso cambia poco; ci sono poeti come Vincenzo Fago che mettono in risalto
il lato erotico delle dee, osservandole mentre, completamente nude, s'immergono
nelle acque di un lago, scatenando nel poeta un immenso desiderio; ci sono
invece poeti come Diego Garoglio che le descrivono in tutt'altro modo: marmoree
e sognanti, praticamente imprigionate nel luogo dove sono state poste, esse
sono simili all'anima triste del poeta, che è impossibilitato, come loro, a
realizzare i suoi celestiali sogni.
Poesie sull'argomento
Mario Adobati:
"Le ninfe, il satiro e il poeta" in "I cipressi e le
sorgenti" (1919).
Edoardo Giacomo
Boner: "Sogno" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).
Enrico Annibale
Butti: "Amor novo" in «Cronaca d'Arte», 26 luglio 1891.
Gabriele D'Annunzio:
"La Napea" e "La Naiade" in "Poema paradisiaco"
(1893).
Giuseppe De Paoli:
"L'attesa" in "Il sistro d'oro" (1909).
G. A. Fabris: "Apollo" in «Hermes», 1905-1906.
Vincenzo Fago:
"Il bagno d'Egle" in "Discordanze" (1905).
Diego Garoglio:
"La ninfa" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Arturo Graf:
"Ninfea" in "Medusa" (1890).
Arturo Graf: "Le
ninfe di marmo" in "Le Danaidi" (1905).
Ettore Magni:
"Fasi lunari" in "Canti nomadi" (1908).
Enrico Panzacchi:
"Mitologia" in "Poesie" (1908).
Fausto Salvatori:
"La Ninfa" in "La Terra promessa" (1907).
Luigi Siciliani:
"Eco" in "Sogni pagani" (1906).
Cesare Giulio Viola: "Lo statere" in «La Democrazia», 20 ottobre 1905.
Testi
LA NAPEA
di Gabriele
D'Annunzio
Lentamente dai cieli
il Giorno inclina
come stanco dei
troppo lungo ardore,
acceso avendo
l'intimo sapore
in quei frutti che
sola una divina
mano dai rami penduli
ne l'ore
notturne coglierà, su
la collina
irrigata, di quasi
feminina
forma, ove dura un
qualche antico amore.
Lentamente la curva
ombra si stende
giù pe 'l declivo; e
giunge, d'orto in orto,
insino a un golfo che
de' raggi estremi
ampio e falcato in
lontananza splende:
ove già fu, nel tempo
antico, un porto
che forse contenea mille triremi.
(da "Poema paradisiaco")
ECO
di Luigi Siciliani
Fui bella. Per i
boschi esercitati
dal mio piede veloce
e per i campi
udivo il mormorio de'
freschi fonti,
il più leggero
scorrere dell'acque;
ogni canto d'alati,
ogni susurro
di venti leni o grido
di tempesta
coglievo; mi era noto
ogni recesso,
ogni grotta, ove
giungono ansimanti
l'agili cerve rapide,
seguite
dall'ululato cupido
dei cani.
A me tesero acquati
indarno i fauni
d'orecchio aguzzo e
piede bipartito:
fui ebbra della dolce
libertà.
Un giorno io mossi
verso la pianura
coperta dalla lunga
ombra dei colli;
mi tremava sul capo
una ghirlanda
d'edera sempre verde
e di ciclami
tolti dal bosco,
fiori dell'autunno.
Arsa di sete ero
discesa al murmure
d'un fonte
cristallino a dissetarmi,
e negli orecchi m'era
ancora un suono
soave ed uno strepere
di voli,
tal che sui labbri mi
saliva il canto.
A un tratto scorsi
sull'opposta riva
un uomo, fermo,
immobile. Ristetti,
poi, cauta, — non so
chi mi sospinse —
trassi verso colui
che par non curi
di cosa alcuna e solo
intenda a quella
fluidità perenne del
ruscello.
E mirai con questi
occhi un tale aspetto
che nulla più mi
cancellò dal cuore;
e per le membra mie
stupite corse
un tremore un pallor
sùbito. Quegli
me già non vide,
intento e reclinato
alla perenne
correntia dell'onda.
A lungo tacqui; poi
la miseranda
anima ritornò, si
fece ardita
e suscitò le deboli
parole:
«Odimi! sono Eco, una
ninfa...» Quegli
si levò disdegnando e
con pié ratto
mosse, sparì nel bosco
frondeggiante.
Sempre fuggi, sempre
da me lontano,
schivando i piedi
miei veloci al corso.
Ma non la voce delle
mie compagne
e non lo scherno e il
riso altosonante
entro il denso
fogliame me rattenne
dei fauni pié partito
orecchio aguzzo.
Avida ovunque il
folle desiderio
mi indicasse la
traccia de' suoi piedi
io sempre corsi
dietro l'implacato;
e sempre lo trovai
fiso nei fiumi,
fiso nelle perenni
correntie,
dove il suo folle
affanno lo spingeva
a ricercare a rimirar
sé stesso.
Riarsa dalla mia
cocente febbre,
dall'implacato
assillo dell'amore,
lo cercai per le
valli i monti i piani,
e mi si inaridiva
nelle fauci
la voce per il
diuturno grido:
«O Narciso, o
Narciso, odimi! sono
una vergine indomita
e mi piego
liberamente a questa
tua bellezza;
bianca son io più che
la neve e il latte,
ma tu sei come il
grappolo maturo.
O Narciso, o Narciso,
odi la ninfa
molto desiderata Eco
montana!»
Ma quegli, intento
nella sua bellezza,
non amò che sé solo
che sé solo,
non seppe egli né
volle che sé stesso.
E sulla folle brama
sua tornò
immobile la fonte
cristallina.
Ebbra ne fui; fui
pazza di dolore.
Quando il mio corpo
cadde al suolo, l'anima
fuggì via, fuggì via
gridando sempre,
chiamando lui
dovunque il mio perduto,
cercando per la terra
il mio perduto,
che amò sé stesso e
disdegnò la ninfa
molto desiderata Eco
montana.
Or vanno i gridi miei
da monte a monte,
da valle a valle. Ad
ogni voce che
risuoni forte e forte
si lamenti,
risponde la mia voce
eternamente.
Non rimane di me che
un vano suono,
che tu cerchi onde
muova, e trovi solo
quel pianto eterno
che riecheggia a te,
scorrendo per la
terra ampia ogni luogo,
ripercotendo sempre
la tua voce,
che mia s'è fatta, e
docile si leva
sempre che voglia
sempre che l'invochi,
e da secoli e secoli
il perenne
lamento grida nello
spazio vano.
(da "Sogni
pagani")
John William Waterhouse, "Nymphs finding the Head of Orpheus" (da questa pagina web) |
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