domenica 24 gennaio 2021

Le ninfe nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Le ninfe sono, nella mitologia classica, delle divinità in forma di giovani donne, che amano sostare o abitare presso fonti, corsi d'acqua o laghi. Collegate alle ninfe sono le piante acquatiche dette ninfee; secondo una leggenda - anch'essa riconducibile alla mitologia - una ninfa fu tramutata in questo fiore a causa della eccessiva gelosia che provava nei confronti di Ercole (da qui il nome). I poeti italiani decadenti e simbolisti furono attirati da queste figure mitologiche senza dubbio affascinanti e misteriose, e le inserirono nei loro versi, sia da protagoniste, sia accomunate ad altre divinità. Per quel che concerne la simbologia, le ninfe molto spesso hanno a che vedere con la bellezza irraggiungibile e con l'amore non corrisposto. Andando ad analizzare brevemente alcune poesie che le pongono in risalto, e partendo dalla seconda metà dell'Ottocento, nei versi di Arturo Graf la ninfea diviene quasi una chimera, trovandosi nelle prossimità della cima di un monte, all'interno di una foresta e nei pressi di una sorgente; totalmente svestita e bellissima, essa rappresenta per il poeta "un sogno d'amor vivo e fiorente, / che al radiar d'una suprema idea / nel sen di virginale alma si chiuda". Gabriele D'Annunzio nel Poema paradisiaco inserisce due sonetti dedicati alle ninfe: La Napea e La Naiade; la prima è una ninfa dei boschi, e il poeta abruzzese la pone all'interno di un ambiente collinare, a pochi passi dal mare, avvolto in un fitto mistero; la seconda, che è una ninfa delle acque, vive invece in una sorta di limbo, all'interno di un luogo in cui, tanti e tanti anni prima, si svolsero riti erotici di cui ancora rimangono alcuni indizi; qui, la evanescente presenza della ninfa, si manifesta tramite rumori insoliti, che riconducono il pensiero ai tempi memorabili in cui quel luogo ora desolato era al centro di convegni amorosi. Passando al Novecento, il discorso cambia poco; ci sono poeti come Vincenzo Fago che mettono in risalto il lato erotico delle dee, osservandole mentre, completamente nude, s'immergono nelle acque di un lago, scatenando nel poeta un immenso desiderio; ci sono invece poeti come Diego Garoglio che le descrivono in tutt'altro modo: marmoree e sognanti, praticamente imprigionate nel luogo dove sono state poste, esse sono simili all'anima triste del poeta, che è impossibilitato, come loro, a realizzare i suoi celestiali sogni.

 

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "Le ninfe, il satiro e il poeta" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Edoardo Giacomo Boner: "Sogno" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Enrico Annibale Butti: "Amor novo" in «Cronaca d'Arte», 26 luglio 1891.

Gabriele D'Annunzio: "La Napea" e "La Naiade" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuseppe De Paoli: "L'attesa" in "Il sistro d'oro" (1909).

G. A. Fabris: "Apollo" in «Hermes», 1905-1906.

Vincenzo Fago: "Il bagno d'Egle" in "Discordanze" (1905).

Diego Garoglio: "La ninfa" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Arturo Graf: "Ninfea" in "Medusa" (1890).

Arturo Graf: "Le ninfe di marmo" in "Le Danaidi" (1905).

Ettore Magni: "Fasi lunari" in "Canti nomadi" (1908).

Enrico Panzacchi: "Mitologia" in "Poesie" (1908).

Fausto Salvatori: "La Ninfa" in "La Terra promessa" (1907).

Luigi Siciliani: "Eco" in "Sogni pagani" (1906).

Cesare Giulio Viola: "Lo statere" in «La Democrazia», 20 ottobre 1905.

 

 

 

Testi

 

LA NAPEA

di Gabriele D'Annunzio

 

Lentamente dai cieli il Giorno inclina

come stanco dei troppo lungo ardore,

acceso avendo l'intimo sapore

in quei frutti che sola una divina

mano dai rami penduli ne l'ore

notturne coglierà, su la collina

irrigata, di quasi feminina

forma, ove dura un qualche antico amore.

 

Lentamente la curva ombra si stende

giù pe 'l declivo; e giunge, d'orto in orto,

insino a un golfo che de' raggi estremi

ampio e falcato in lontananza splende:

ove già fu, nel tempo antico, un porto

che forse contenea mille triremi.

 

(da "Poema paradisiaco")

 

 

 

 

ECO

di Luigi Siciliani

 

Fui bella. Per i boschi esercitati

dal mio piede veloce e per i campi

udivo il mormorio de' freschi fonti,

il più leggero scorrere dell'acque;

ogni canto d'alati, ogni susurro

di venti leni o grido di tempesta

coglievo; mi era noto ogni recesso,

ogni grotta, ove giungono ansimanti

l'agili cerve rapide, seguite

dall'ululato cupido dei cani.

A me tesero acquati indarno i fauni

d'orecchio aguzzo e piede bipartito:

fui ebbra della dolce libertà.

 

Un giorno io mossi verso la pianura

coperta dalla lunga ombra dei colli;

mi tremava sul capo una ghirlanda

d'edera sempre verde e di ciclami

tolti dal bosco, fiori dell'autunno.

Arsa di sete ero discesa al murmure

d'un fonte cristallino a dissetarmi,

e negli orecchi m'era ancora un suono

soave ed uno strepere di voli,

tal che sui labbri mi saliva il canto.

A un tratto scorsi sull'opposta riva

un uomo, fermo, immobile. Ristetti,

poi, cauta, — non so chi mi sospinse —

trassi verso colui che par non curi

di cosa alcuna e solo intenda a quella

fluidità perenne del ruscello.

 

E mirai con questi occhi un tale aspetto

che nulla più mi cancellò dal cuore;

e per le membra mie stupite corse

un tremore un pallor sùbito. Quegli

me già non vide, intento e reclinato

alla perenne correntia dell'onda.

A lungo tacqui; poi la miseranda

anima ritornò, si fece ardita

e suscitò le deboli parole:

«Odimi! sono Eco, una ninfa...» Quegli

si levò disdegnando e con pié ratto

mosse, sparì nel bosco frondeggiante.

 

Sempre fuggi, sempre da me lontano,

schivando i piedi miei veloci al corso.

Ma non la voce delle mie compagne

e non lo scherno e il riso altosonante

entro il denso fogliame me rattenne

dei fauni pié partito orecchio aguzzo.

Avida ovunque il folle desiderio

mi indicasse la traccia de' suoi piedi

io sempre corsi dietro l'implacato;

e sempre lo trovai fiso nei fiumi,

fiso nelle perenni correntie,

dove il suo folle affanno lo spingeva

a ricercare a rimirar sé stesso.

 

Riarsa dalla mia cocente febbre,

dall'implacato assillo dell'amore,

lo cercai per le valli i monti i piani,

e mi si inaridiva nelle fauci

la voce per il diuturno grido:

«O Narciso, o Narciso, odimi! sono

una vergine indomita e mi piego

liberamente a questa tua bellezza;

bianca son io più che la neve e il latte,

ma tu sei come il grappolo maturo.

O Narciso, o Narciso, odi la ninfa

molto desiderata Eco montana!»

Ma quegli, intento nella sua bellezza,

non amò che sé solo che sé solo,

non seppe egli né volle che sé stesso.

E sulla folle brama sua tornò

immobile la fonte cristallina.

 

Ebbra ne fui; fui pazza di dolore.

Quando il mio corpo cadde al suolo, l'anima

fuggì via, fuggì via gridando sempre,

chiamando lui dovunque il mio perduto,

cercando per la terra il mio perduto,

che amò sé stesso e disdegnò la ninfa

molto desiderata Eco montana.

 

Or vanno i gridi miei da monte a monte,

da valle a valle. Ad ogni voce che

risuoni forte e forte si lamenti,

risponde la mia voce eternamente.

Non rimane di me che un vano suono,

che tu cerchi onde muova, e trovi solo

quel pianto eterno che riecheggia a te,

scorrendo per la terra ampia ogni luogo,

ripercotendo sempre la tua voce,

che mia s'è fatta, e docile si leva

sempre che voglia sempre che l'invochi,

e da secoli e secoli il perenne

lamento grida nello spazio vano.

 

(da "Sogni pagani")

 

John William Waterhouse, "Nymphs finding the Head of Orpheus"
(da questa pagina web)


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