È l'argomento degli
argomenti: il più trattato e in modi assai diversi. La Morte, come succede
nelle arti figurative, in queste poesie si umanizza, e diviene una entità che
può comunicare sia parlando: - Io sono la
Fine: l'eterna Tenebra, l'Inerzia / eterna; sonno dei corpi, senza sogni. // A
me dinanzi s'arresta ogni cosa: mi chiaman / soluzione d'ogni problema umano
(Federico De Maria), che, magari, inviando un messaggio: Ei la guardò ne gli occhi, e aveva neri / come un antro, e in
quell'antro c'era un fuoco, / segnal de l'incubo. / - Telegrafate!! - // E con
fiato di tomba a quell'uomo / sussurrò una parola... / Batté i denti per febbre
terzana / convulsivo il manipolatore; / balbettò, picchiottò: Morte... Morte...
(Luigi Crociato); e può addirittura accadere che muoia lei stessa: Oh, l'errore come tenne forte / Parca:
chiamare un morto a morire! / Un brivido si fece udire / Stramazzata, moriva la
Morte! (Giuseppe Altomonte). Ci sono poeti che la temono: Ora una sconosciuta ansia ci assale /
talvolta: e come un faticoso orrore.. / Oh mistero! Che è quando si muore? /
Anima, e tu sarai, dunque, mortale? (Cosimo Giorgieri Contri), poeti che l'amano: Come un'amante nova io ti ricevo. (Mario
Adobati), poeti che la desiderano: Dolcemente
morire: / tale gioconda cosa / chiede l'anima stanca. / Salire in una bianca /
serenità. Sentire / la Morte veniente. / Tale gioconda cosa / chiede l'anima
stanca: / dolcemente morire. (Italo Dalmatico), poeti che la odiano e poeti
che la considerano, come la vita, totalmente inutile: È vana l’arte. La sorte / vuol che ogni cosa sia vana, /
vuol che la vita sia vana / e che sia vana la morte. (Carlo Vallini). C'è
chi la vede in forma di giovane donna: Era
bella, era donna, le chiome avea nere e fuggenti / Dietro le spalle bianche; /
Gli occhi avea neri scintillanti, magnifici, fissi / in lontani orizzonti. (Giacinto
Ricci Signorini); chi in forma di bambino: Mi
appar la Morte un bimbo imperioso, / severo e grave, intento, col bel volto /
chino, a scifrar un segno misterioso. (Gian Pietro Lucini); chi a cavallo: S'udì nella notturna aria un galoppo / e
tutta bianca sul cavallo nero // passò rapida innanzi a quelle porte / spalancate.
Protese egli le braccia / e la chiamò per nome: — Morte! Morte! — (Vittoria
Aganoor); chi, secondo una antica tradizione, la immagina armata di falce: Alle vetrate, nelle commessure, / cadon le
mosche, e l'acqua scroscia intanto: / la morte falcia le vite mature, / la
pioggia lava i sassi in camposanto. (Pompeo Bettini); ma c'è pure chi la
vede apparentemente innocua, con, in mano, un semplice ramo d'ulivo: A molti parrà strano, / Ma per vero lo
scrivo: / Null’altro ella teneva in mano / Fuor che un ramo d’ulivo. (Arturo
Graf). Ci sono infine i poeti che prefigurano il post mortem: Ogni spavento,
ogni supplizio atroce, / Si muteranno nella immensa calma; / Diventeran la
rigida, spettrale // Figura bianca, la marmorea salma / Stesa sull’urna, con le
braccia in croce, / In fondo all’ombra della Cattedrale! (Camerana); Chiudi tutte le porte. / Noi veglieremo fino
/ all’alba originale, / fino che un immortale / stella segni il cammino, /
novizii, oltre la Morte! (Sergio Corazzini); Quale sarà la mia sorte / novella dopo la morte? / In quali forme viventi / d’insetti o di chicchi di grano, / o d’altro che viva o non viva, / si trasformerà la passiva / carcassa dell’essere umano? (Carlo Vallini).
Mario Adobati:
"L'odore della morte" e "Elegia della buona morte" in
"I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor:
"L'egro dicea..." in "Leggenda eterna" (1900).
Vittoria Aganoor:
"Dramma notturno" in "Poesie complete" (1912).
Giuseppe Altomonte:
"La morte della Morte" in "Canzoniere minuscolo" (1906).
Pompeo Bettini:
"Nella tomba di carta seppellito" in "Poesie" (1897).
Ettore Botteghi:
"Seguimi" in "Poesie" (1902).
Umberto Bottone:
"Pax lacrymarum" e "Quartine de la Morte" in "Lumi
d'argento" (1906).
Giovanni Camerana:
"Spes unica" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli:
"Sua maestà la Morte" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo
Cesareo: "Scivolò tacita un'orma" in "I canti di Pan"
(1920).
Guelfo Civinini:
"Sestina del verno e della morte" in "L'urna" (1900).
Guelfo Civinini:
"I grilli e la falce" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini:
"Vigilavano le stelle" in «Marforio», novembre 1904.
Sergio Corazzini:
"Ballata a morte" in «Cronache latine», gennaio 1906.
Sergio Corazzini:
"Dopo" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Sergio Corazzini:
"La morte di Tantalo" in «Vita Letteraria», giugno 1907.
Luigi Crociato:
"Il messaggio de la Morte" in "Canta il selvaggio" (1912).
Italo Dalmatico:
"Ecco, e la Morte bussa..." e "Solo il pensiero della morte
resta" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio:
"La visitazione" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Guglielmo Felice
Damiani: "Nel senso della morte" in "Lira spezzata" (1912).
Federico De Maria:
"La Morte" e "Colgocz" in "Voci" (1903).
Luigi Fallacara:
"La morte" in "Illuminazioni" (1925).
Aldo Fumagalli:
"I nove tocchi" in "Arcate" (1913).
Ugo Ghiron: "La
fuga folle" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Giulio Gianelli:
"Alla bellezza della morte" in "Intimi vangeli" (1908).
Giulio Gianelli:
"Dopo la morte" in "Tutte le poesie" (1973).
Cosimo Giorgieri
Contri: "Al di là" in "La donna del velo" (1905).
Corrado Govoni:
"La fine" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Guido Gozzano:
"La falce" in "Il Venerdì della Contessa", 1904.
Guido Gozzano: "Suprema
quies" in "Poesie e prose" (1961).
Arturo Graf:
"Pallida Mors" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf:
"L'incontro" in "Le Danaidi" (1897).
Virgilio La Scola:
"L'ineluttabile" in "La Via che attende" (1908).
Gian Pietro Lucini:
"La Morte" e "La Morte bacchica" in "Il Libro delle
Imagini terrene" (1898).
Gian Pietro Lucini:
"Il Rondò della Morte" in "Per una vecchia Croce di ferro"
(1899).
Olindo Malagodi:
"Vette di neve" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)"
(1928).
Enzo Marcellusi:
"I dialoghi dei morti" in "I canti violetti" (1912).
Marino Marin:
"Benigna è Morte..." in "Sonetti secolari" (1896).
Tito Marrone:
"Lettera a una morta" in "Liriche" (1904).
Tito Marrone:
"Le bare" in «La Riviera Ligure», novembre 1905.
Pietro Mastri:
"Terrore notturno" e "La gran falce" in "Lo specchio e
la falce" (1907).
Marino Moretti:
"Impazienza" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Angiolo Orvieto:
"Morte" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli:
"Scalpitio" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli:
"Il brivido" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Francesco Pastonchi:
"Il velo" in "Il pilota dorme" (1913).
Giacinto Ricci
Signorini: "Era la sera, il sole dietro il fiume..." in "Poesie
e prose" (1903).
Antonio Rubino:
"Io mors!" in "Versi e disegni" (1911).
Agostino John
Sinadinò: "La morte del poeta" in "Le presenze invisibili"
(1898).
Giovanni Tecchio:
"Suspiria extrema" in "Mysterium" (1894).
Carlo Vallini: "Il teschio fiorito" e "La morte" in "Un giorno" (1907).
SCIVOLÒ TACITA
UN'ORMA
di Giovanni Alfredo
Cesareo
Scivolò tacita
un'orma
Lunga, prudente, di
fiera
Obliqua: ombra più
che forma:
La Fanciulla nera.
Il dolce corpo si
tolse
Nelle flebili
braccia,
L'oscura chioma
disciolse
Su l'esangue faccia,
E se n'andò, come
venne,
Muta e veloce. La
casa,
Indi a quel dì, da
perenne
Stupore è pervasa.
(da "I canti di
Pan")
IL TESCHIO FIORITO
di Carlo Vallini
E mi ricondussi al
pensiero
l’immagine d’un
cimitero
abbandonato e romito,
cinto di voli e di
stridi
a primavera: ov’io
vidi
un teschio umano
fiorito.
Da molto tempo, da
molto,
nessuno era stato
sepolto
di là dalla soglia
deserta:
la triste soglia era
aperta
sul campo invaso dal
folto
dell’erba, da un
bosco di erba
selvaggia, da un mare
di fiori
campestri, da un mare
d’odori
primaverili, da
sciami
d’api, da tutta la
vita
che non visibili dita
sanno agitare per
entro
la terra, da tutta la
vita
che nasce e muore in
silenzio.
Era quell’eremo
pregno
di succhi e d’odori:
tra i lacci
dell’erba emergevano
bracci
di rade croci di
legno.
Ed io procedendo e
affondando
in quella selva
vivente
ero detestabilmente
poetico e lirico:
quando
fra un gruppo d’edere
spesse,
aggrovigliate ad un
branco
di spine acutissime e
nere,
vidi o credei di
vedere
un qualche cosa di
bianco
che sembrava che
m’irridesse.
Un teschio umano era
quello
che m’irrideva:
ripieno
tutto oramai di
terreno
dov’era stato il
cervello:
e come da un vaso di
fiori,
a render piú tragico
e buffo
quel misero avanzo,
un gran ciuffo
d’erba ne usciva di
fuori
con tal furore, che
mosso
parea da quei resti
carnosi
per compiere
l’apoteosi
pazzesca d’un
paradosso.
In quel sorriso
supremo
di scherno eterno ben
era
visibile quasi la
vera
parola che mai non
sapremo!
Ch’io creda alla
favola trista
del vivere e del
morire,
se il Tutto, dato che
esista,
si può chiamar
Divenire?
Tutto è la grande
parola
che sbalordisce e
consola
l’anima sciocca e
fanciulla.
Tutto vuol dire anche
Nulla.
Tutto vuol dire
l’immenso
precipitare dei mondi
celesti verso
l’ignoto.
Tutto è materia ed è
vuoto.
Tutto è rinchiuso nel
senso
dell’essere: è quello
che vedi
e che non vedi, che
credi
e che non credi: è
pur quello
che già ti tese un
tranello
col farti nascere: e
appare
l’eterno
mistificatore
nel fare crescere un
fiore
e nel far muovere il
mare.
Quale sarà la mia
sorte
novella dopo la
morte?
In quali forme
viventi
d’insetti o di
chicchi di grano,
o d’altro che viva o
non viva,
si trasformerà la
passiva
carcassa dell’essere
umano?
O forse accadrà ch’io
diventi,
se il caso mi toglie
all’oblío,
la cosa che soffre ed
ha un io,
quella piú vana che
esista
nell’Universo, la
trista
cosa che chiede
perdono,
la cosa umana ch’io
sono?
Destino! La libertà
con cui ci deprimi e
bistratti
prova che tu non ci
tratti
in abito di società!
Tu vedi: ho appena
vent’anni
e il mondo non mi
diverte,
sebbene non posi da
Werther
ucciso dai
disinganni;
ho una discreta
memoria
e quasi sempre
appetito:
non mi tortura il
prurito
di un’inafferrabile
gloria.
Che cosa, dunque, di
meglio
per rendere un uomo
felice?
Eppur qualche cosa mi
dice
che potrei stare
assai meglio.
Ho il benedettissimo
vizio
di non creder ciò che
si vede:
idea questa, come si
vede,
da uomo di poco
giudizio.
Aggiungi che a volte
non posso
capir le piú semplici
cose,
né credere che le
cose
basti pensarle
all’ingrosso.
Queste stranezze
m’han fatto
un posatore ed un
orso,
che non sa fare un
discorso
e finge d’esser
distratto.
«Se non sei nemmeno
giocondo
prima dell’esperienza
-
m’han detto - a che
la presenza
della tua faccia nel
mondo?»
O Terra, a te
m’abbandono
dopo la morte: di me
fa’ ciò che credi,
fuorché
rifarmi quello che
sono.
(da "Un giorno")
Hugo Simberg, "Death and the Peasant" (da questa pagina Web) |
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