Confrontando queste
dieci poesie novecentesche dedicate ai lavoratori, con quelle del secolo
precedente, si noterà che alcuni mestieri ritornano (l'operaia, il fabbro, il
minatore, l'arrotino), forse perché vedere una donna in fabbrica o in un
laboratorio che lavorava esattamente come fosse un uomo, molti anni fa ancora
destava una certa impressione ed anche un po' di meraviglia; ma anche perché
alcuni lavoratori (come gli arrotini) era facile incontrarli nelle strade di
paese e di città, o addirittura vederli, sotto la propria casa, esercitare un
mestiere misero e che dava ben poche soddisfazioni. Ancora una volta, in questi
versi si parla quasi esclusivamente di lavori umili e gravosi, a volte
stagionali, che, fortunatamente, oggi non sono più quali erano alcuni anni or
sono (qualcuno è completamente scomparso). Il motivo si spiega col fatto che,
grazie alle lotte avvenute attraverso vari decenni del Novecento, un po' tutte
le categorie lavorative più svantaggiate hanno conquistato dei diritti
fondamentali. Ma oggi, la mia impressione è che si stia, lentamente e
impercettibilmente, tornando indietro: si riscontra infatti una involuzione del
mondo del lavoro, con conseguente perdita graduale di alcuni diritti basilari
(si pensi all'abolizione del tanto discusso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), che mi porta a prevedere, in questo specifico campo e non solo, un futuro sicuramente non
roseo.
OPERAIA
di Emilio Girardini (1858-1946)
Nel turbinoso
strepito del vasto
laboratorio, intenta
al tuo telaio,
donzelletta strappata
ai campi, il gaio
stornel, solo
conforto, t'è rimasto.
Non come un tempo più
si ripercuote
lieto di balza in
balza, né si perde
in onde sempre più
lievi nel verde
piano, ma tra l'ansar
di ordigni e ruote.
Ed or risenti, nel
suo ritmo stanco,
le dolci sere in cui
con le compagne
tornavi dopo il sol
da le cmapagne,
la ronca appesa sul
crescente fianco;
or con eco piangente
la caduta
rosa anzi tempo del
tuo volto accusa,
poi che a notte
dormir ti si ricusa,
o intenta al tuo
telaio ombra sparuta.
(Da "Ruri",
Treves, Milano 1903)
IL FABBRO
di Sebastiano Satta
(1867-1914)
Ah tu semini stelle
con la mano!
Arde l’ultima fiamma,
ecco, su Monte
Atha e tu picchi
ancora, o buon titano,
Dall’alba! I
carratori volti al mare
Vedon rider
nell’ombra, fin dal ponte,
Quel tuo stambugio
come un focolare.
A quel sonìo la
sedula massaia
Si desta per la casa
e dice ai figli:
— O figli, è l’ora:
Già sulla giogaia
Trema il Grappolo, e
i cieli son vermigli. —
Vengono a te i
garzoni e dicon: — Zio,
Tu maestro del ferro,
eccoti il vecchio
Ferro, e tu facci un
vomere. — Con pio
Vigor tu batti ed
ecco dalle mani
Ti esce il vomere. E
quello come specchio
Ben poi risplende
quando gli anzïani
Spargon pregando la
semente, e i solchi
Fumigan sciolti, e
ascoltano tra snelle
Selve il brusìo degli
orzi alti i bifolchi.
Ed ecco pur, battuti
in quel tuo roggio
Antro, falcetti e
industriose falci.
O bel cantare del
ricolto! Il poggio
Tutto ne suona tra le
messi e i tralci.
Ed al ricolto, premio
al tuo lavoro,
Ecco grappoli
azzurri, ecco mannelle
Di spighe d’oro, una
corona d’oro!
(Da "Canti
barbaricini", La Vita Letteraria, Roma 1910)
AL MINATORE
di Augusto Garsia
(1889-1956)
O minatore che sogni
di sole
e ricordi d'azzurra
fanciullezza
dolci così, com'è
dolce carezza
di figli a madre e di
madre a la prole,
porti con te dentro
l'occulta mole
che vai scavando con
tenace ebbrezza,
mentre l'aere nero
con asprezza
punge lo sforzo che
ostinato vuole,
oh potessero i sogni
e i tuoi ricordi
penetrare con l'ansia
del piccone,
onde il cuor delle
rocce ignoto mordi,
ne le inferne
sostanze a farle buone!
Bontà gli uomini
avrebbero dai concordi
metalli, sotto gli
astri, e dal carbone!
(Da "Voci del
mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927)
IL MURATORE
di Manlio Dazzi
(1891-1968)
Il muratore ha strade
sopra i tetti
per andare fra i nidi
a piedi scalzi,
ha le armature per
guardarsi il cielo.
La vertigine lascia
ai viandanti
e porta sù, con
l'arte, l'allegria.
Fa la casa, ch'è
buona e chiara e grande
sulle piccole teste
dei mortali;
squassa la calce del
vestito e canta.
Si può avvilire giù
nella valletta,
coscia con coscia con
il triste mulo
e le nere patùrnie,
un muratore?
Nella trincea c'è il
sole e l'ombra e il vento,
come sull'armatura. E
se si cade,
è come allora: un
tonfo, ecco, nel vuoto.
(Da
"Stagioni", Neri Pozza, Venezia 1933)
CANTO DELL'ARROTINO
di Nicola Ghiglione
(1915-1990)
Arranco - arranco -
sono l'arrotino
la finestra del mio
studio è il baldacchino
con l'acqua per la
ruota e picchio l'intestino
sulla pedana (mi
lustro pelle e ossa)
sporco di danza come
un teatrino -
mi vengono intorno
lucertole e bambini
e balliamo insieme -
fame - fame - fame.
(Da "Canti
civili", Uomo, Milano 1945)
COMPAGNO ZOLFATARO
di Mario Farinella
(1922-1993)
Quanta Sicilia dolora
nei tuoi occhi,
ora che nel giorno
sbiadisce il sole
freddo e giallo che
scavasti
nel buio della terra:
zolfo sole morto
sull'erba saziata di
caldo e calpestata.
Tu non sai il sole,
compagno zolfataro,
e le cose della vita
che portano calura e
hanno voce.
Solo la lampada che
tieni nel ritorno
illumina il tuo
mondo:
un passo dopo l'altro
prima della notte
e due scarpe aperte
nel breve cerchio
della luce
che macchia il nero
della strada.
La ruota del carretto
sullo stradone
è sempre il cuore che
batte
senza memoria
nella notte di
Sicilia.
Ma quanto pane
sognano i tuoi figli,
compagno zolfataro.
(Da "Tabacco
nero e Terra di Sicilia", Flaccovio, Palermo 1951)
IL GREGARIO
di Gianni Rodari
(1920-1980)
Filastrocca del
gregario
corridore proletario,
che ai campioni di
mestiere
deve far da
cameriere,
e sul piatto, senza
gloria,
serve loro la
vittoria.
Al traguardo, quando
arriva,
non ha applausi, non
evviva.
Col salario che si
piglia
fa campare la
famiglia
e da vecchio poi si
acquista
un negozio da
ciclista
o un baretto, anche
più spesso,
con la macchina per
l'espresso.
(Da
"Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)
GLI SPALATORI
di Raffaele Carrieri
(1905-1984)
Chiedono neve gli
spalatori.
La sognano l'inverno
Come il pane dei
poveri
Che viene dal cielo.
(Da "La giornata
è finita", Mondadori, Milano 1963)
IL GEOMETRA
di Arnaldo Beccaria
(?-?)
E un uomo piccolo
cammina
con una bolla d'aria,
ed un'asta
a scacchi bianchi e
rossi.
È colui che scandisce
sull'unità di misura
appezzamenti di
terra.
È colui che munito
di un filo a piombo
innalza muri.
Egli è colui che
sacrifica il mattino
coi suoi semplici,
puri
strumenti di misura.
Il metro,
la squadra,
il filo a piombo,
la livella,
la balina,
la stadia.
O Misura: respiro
della terra.
E l'Ordine: sua
suprema lindura.
(Da "Sull'orlo
del cratere", Mondadori, Milano 1966)
GLI IMBIANCHINI SONO
PITTORI
di Attilio Bertolucci
(1911-2000)
Arrivò prima il
figlio, in quell’ora
lucente dopo il pasto
il sole e il vino,
eppure silenziosa,
tanto che
si sentiva il
pennello sul muro
distendere il
celeste. Non guardava
fuori, la sua
giovinezza
e salute gli bastava,
attento
alla precisione dei
bordi turchini
entro cui asciugando
già l’azzurro
scoloriva com’era
giusto. Allora
venne il padre che
recava uno stampo,
il verde il rosso e
il rosa,
e la stanchezza degli
anni e il pallore.
Doveva su quel cielo
preparato
con cura far fiorire
le rose,
ma il verde
stemperato per le foglie
non gli andava, non
era un verde quale
ai suoi occhi deboli
brillava all’esterno
con disperata
intensità appressandosi
la sera che si porta
via i colori.
Le corolle vermiglie
ombrate in rosa
fiorirono più tardi
la stanza,
una qua una là,
accordate
alle ultime
dell’orto, e il buio,
fuori e dentro, compì
un giorno
non inutile che
lascia a chi verrà,
e dormirà e si
sveglierà fra questi
muri, la gioia delle
rose e del cielo.
(Da "Viaggio
d'inverno", Garzanti, Milano 1971)
Pellizza da Volpedo, "Il Quarto Stato" |
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