Dice il vocabolario
Palazzi alla voce "Misantropo": chi
odia gli uomini in generale; oppure: chi
vive molto ritirato. Sinonimi: solitario,
insocievole, orso, selvaggio. Le dieci poesie che seguono non parlano certo
di odio verso l'umanità, ma di una forte tendenza all'asocialità, di un
profondo desiderio di ritirarsi in luoghi lontani e solitari. A volte, come nel
caso del Leopardi, c'è anche una sorta di rammarico per il proprio
comportamento, con la consapevolezza che tale modo di vivere non porterà alcun
beneficio in futuro, anzi... Però l'istinto prevale: questi dieci poeti
esternano la loro voglia di solitudine, che è anche, in molti casi, voglia di
tranquillità, di pace.
IL PASSERO SOLITARIO
di Giacomo Leopardi
(1798-1837)
D'in su la vetta
della torre antica,
Passero solitario,
alla campagna
Cantando vai finché
non more il giorno;
Ed erra l'armonia per
questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e
per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla
intenerisce il core.
Odi greggi belar,
muggire armenti;
Gli altri augelli
contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel
fan mille giri,
Pur festeggiando il
lor tempo migliore:
Tu pensoso in
disparte il tutto miri;
Non compagni, non
voli,
Non ti cal
d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così
trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il
mio! Sollazzo e riso,
Della novella età
dolce famiglia,
E te german di
giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti
giorni,
Non curo, io non so
come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e
strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio
la primavera.
Questo giorno ch'omai
cede alla sera,
Festeggiar si costuma
al nostro borgo.
Odi per lo sereno un
suon di squilla,
Odi spesso un tonar
di ferree canne,
Che rimbomba lontan
di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per
le vie si spande;
E mira ed è mirata, e
in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla
campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro
tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria
aprica
Mi fere il Sol che
tra lontani monti,
Dopo il giorno
sereno,
Cadendo si dilegua, e
par che dica
Che la beata gioventù
vien meno.
Tu, solingo augellin,
venuto a sera
Del viver che daranno
a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di
natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di
vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi
occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il
mondo, e il dì futuro
Del dì presente più
noioso e tetro,
Che parrà di tal
voglia?
Che di quest'anni
miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e
spesso,
Ma sconsolato,
volgerommi indietro.
(Da
"Canti", Le Monnier, Firenze 1860)
RIPOSO
di Domenico Gnoli
(1838-1915)
Se avessi una casetta
sul declivio d'un
monte,
e una fosca selvetta,
e una gelida fonte!
Da le gole rimote,
le fuggitive ruote
di ferro un mormorio
mandassero, un
ronzio,
nel silenzio
profondo,
come da un altro
mondo.
Fuggiam, che l'arpa
umana
manda una voce
strana,
e con fragor discorde
si spezzano le corde.
Fuggiam su la
montagna
ne la bruna selvetta
che un rivoletto
bagna.
Solo, co la diletta
mia famigliola, solo.
Dai sonni molli e
queti
ci sveglieranno i
lieti
canti dell'usignolo.
Pace, pace, riposo!
Voglio vivere ascoso,
immemore, obliato
come non fossi nato.
E se mai pellegrino
smarrito nel cammino
salisse a' regni
miei,
— Che fan, gli
chiederei
porgendogli da bere,
giù nell'umane bolge?
Che nova idea li volge?
Da' rami del sapere
colgono allegri
frutti?
Non son meglio le
pere?
Pigliatene. E ancor
tutti
usan fraternamente
nell'altrui carne il
dente?
Che bei giorni ho
vissuto
laggiù basso! Un
saluto
a quella brava gente!
—
Ma il vespero è
soave!
Come fiammante nave
per l'aerea marina
il sole al basso
inchina
loco dove si posa.
Brucia un color di
rosa
nell'aria: si
raccoglie
il passer tra le
foglie
con un lungo
schiamazzo.
Oh Dio com'ero pazzo!
Bambine mie, cogliete
fior selvaggi,
tessete
con essi una corona
per la mamma: è sì
buona!
Fatele intorno festa,
ponetegliela in
testa.
Sia il desco
apparecchiato
là, sotto al
pergolato.
Dopo vedrem le stelle
nel cielo, e pel
viale
vagar qua e là
sull'ale
altre vive fiammelle.
Poi di lontan
sull'aia
udremo il can che
abbaia,
poi dormiremo, al
trillo
fantastico del
grillo.
(Da "Odi
tiberine", Loescher, Torino 1879)
IL FIGLIO D'UN RE
di Aldo Palazzeschi
(1885-1974)
È lungo il viale
che ai fianchi
adombran cipressi.
Il sole là dentro non
penetra mai.
Nel fondo la piccola
casa di legno
è alta sei spanne.
È solo abitata da un
giovine bianco
che vive passando
nell'ombra dei lunghi cipressi.
La gente si ferma a
guardarlo.
Ei lento va e viene
pel lungo viale
soltanto talvolta a
la piccola casa
si sosta un istante:
è il figlio d'un Re.
(Da "I cavalli
bianchi", Blanc, Firenze 1905)
IL MIO ROMITAGGIO
di Arturo Graf
(1848-1913)
Su questo monte
selvaggio,
Vicino a questa
sorgente,
Vorrei, da buon
penitente,
Avere il mio
romitaggio.
Oh, poca cosa! una
coppia
Di camerette piccine,
Un uscio e due
finestrine,
Sotto un tettuccio di
stoppia.
Accanto, un po’
d’orticello,
Pien di legumi e di
fiori,
Fiori di tutti i
colori,
Con qualche verde
arboscello.
Ancora, su un
davanzale,
All’aria, al sole, un
modesto
Vaso, o vogliam dire
un testo,
Di maggiorana
nostrale.
Ancora, in luogo di
musa,
Un micio peso e
poltrone,
Da carezzargli il
groppone
E fargli fare le
fusa.
E basta. Che c’è
bisogno
D’altro? Io, quando
mi vedo
In mezzo a troppo
corredo,
Io, che ho da dir? mi
vergogno.
Mi sembra d’essere
allora,
Non il padrone, ma il
servo,
E m’avvilisco e mi
snervo
Dove più d’un si
ristora.
Starei quassù tutto
l’anno,
Come un asceta
giocondo
Ch’abbia detto addio
al mondo
E a quei che dentro
vi stanno.
Come un Padre del
Deserto,
Che appaia sereno in
volto,
Dopo aver vissuto
molto,
Dopo aver molto
sofferto.
Questi uccelletti
folletti
Mi sveglierebber col
canto,
E io, da povero
santo,
Benedirei gli
uccelletti.
L’acqua berrei della
fonte;
Piluccherei con piacere
Le bacche rosse, le
nere,
E andrei a spasso pel
monte.
Andrei moltissimo a
spasso,
Lavorerei poco o
nulla,
Essendoché dalla
culla
Alla tomba è un breve
passo.
E se un ricordo
importuno
Mi succhiellasse il
cervello,
Ne lo trarrei via bel
bello,
Come si fa con un
pruno.
E se un malvagio
appetito
Venisse a pungermi in
letto,
Lo schiaccerei con un
dito,
Come si schiaccia un
insetto.
Non aprirei mai un
libro;
E metterei da una
banda
Ogni pensiero e
dimanda
Di troppo grosso
calibro;
Sapendo il male che
fece,
Ab antico, alle brigate
La troppa scïenza.
Invece,
Starei le mezze
giornate
Ad ascoltare il
susurro
Del vecchio bosco, a
guardare
L’erbe, i fiori,
l’acque chiare,
Le nuvole, il cielo
azzurro. —
Bipede di polpe e
d’essa
(Assai più ossa che
polpe),
Commisi anch’io le
mie colpe,
E alcuna forse un po’
grossa.
Ma non perciò mi
sgomento;
A tutto ci si
rimedia;
E se un rimorso
t’assedia,
Basta tu dica: Mi
pento!
Eh sì, mi pento e
prometto
Di non cascarci mai
più,
E d’esser anzi
perfetto
(O quasi) in ogni
virtù.
Ogni mia mala azïone
Confesserei a me
stesso;
Poi, col mio bravo
permesso,
Mi darei
l’assoluzione.
Ché uomo ben
confessato,
E debitamente
assolto,
Gli è come, per non
dir molto,
Se non avesse
peccato.
Sarebbe la mia
preghiera,
Non latina, ma
toscana,
Senz’arzigogoli,
piana,
E soprattutto
sincera.
Uscendo da un core
sazio,
Non chiederebbe
nïente;
Assai direbbe
umilmente:
Signore Iddio, vi
ringrazio.
Sì, vi ringrazio, e
vi prego
D’usarmi un po’
d’indulgenza,
Quando alla vostra
presenza
Verrò, finito
l’impiego.
L’impiego (povere
spalle!
Con quel peso andare
attorno!)
L’impiego di
perdigiorno
In hac lacrimarum valle. —
Verrebbe al mio uscio
un cane,
Oppure il buon
poverello,
E io gli direi:
Fratello,
Eccoti un pezzo di
pane.
Verrebbe un corvo
alla mia
Finestrina, avido e
torvo;
E io gli direi: Tu,
corvo,
Sei nero e brutto: va
via!
Capiterebbe il
demonio
In forma di bella
donna,
Con rialzata la
gonna,
A offrirmisi in
matrimonio.
E io gli direi: Mio caro,
Trova chi n’abbia
ancor voglia;
Io... ho mangiato la
foglia: —
E sai che il tempo è
denaro.
(Da "Le rime
della selva", Treves, Milano 1906)
ALCUNI DESIDERI
di Carlo Vallini
(1885-1920)
Non chiedo la grazia
divina
del sogno, né la
scintilla
del genio: una vita
tranquilla
mi basta, una vita
meschina.
Per questa manía
solitaria
m'occorrerebbe
un'onesta
casa, assai vecchia e
modesta,
con molta luce e
buon'aria,
con alberi verdi e da
frutti
d'intorno, sepolta
tra un folto
di pergole ombrose;
ma molto,
ma molto lontana da
tutti.
Un'assai vecchia
dimora,
linda, ospitale ed
ammodo,
un po' rozza e
semplice al modo
delle massaie
d'allora;
e in questo rifugio
all'antica,
vorrei, nell'oblío
secolare,
illudermi di riposare
da un'immaginaria
fatica.
Che sonni, che sonni
tranquilli
da bimbo nella sua
cuna,
le notti col lume di
luna,
le notti col canto
dei grilli!
Vorrei pure scrivere,
senza
fatica, dei versi: ma
sparsi
a spizzico, da
giudicarsi
con una bonaria
indulgenza:
dei versi bizzarri,
rimati
secondo la mia
prosodía,
con molta malinconía
e quasi niente
grammatica:
e il lusso da
milionario
vorrei per un mese,
d'avere
a nolo per cameriere
un dottore
universitario
per mettere in bella
copia
le mie bislacche
parole
e dirmi dove ci vuole
la lettera semplice o
doppia.
O gioia di essere
solo!
non l'ombra d'un
conosciuto
vicino, toltone il
muto
dottore che avrei
preso a nolo.
Non ascolterei che la
sola
Natura, l'unica
amica;
non compirei piú la
fatica
di dire una mezza
parola.
Avrei con me qualche
rado
libro, assai fuori di
mano;
andrei per i campi
pian piano
senza saper dove
vado;
nella mia testa i
pensieri
andrebbero com'io li
lascio
andare, tutti a
rifascio,
i piú pazzi con i piú
seri:
e a sera,
sull'imbrunire,
un letto fresco e
profondo
mi smemorerebbe del
mondo
con la voluttà di
dormire.
Se un semplice regime
uguale
bastasse a guarirmi
dal tedio!
Ma in simile caso il
rimedio
sarebbe peggiore del
male.
Non guarirei, ne son
certo,
da tutte queste
torture
imaginarie, neppure
se andassi in mezzo
al deserto;
il male, purtroppo,
non sta
di fuori, ma nel mio
interno,
ed è un prodotto
moderno
come l'elettricità:
è come un tarlo che
roda
addentro, senza mai
posa,
ed era in addietro
una posa
ormai passata di
moda.
Oh come darei le
parole
inutili e l'opere
vane
dell'uomo, per essere
un cane
che dorma placido al
sole!
Per esser la foglia o
l'insetto
o l'albero o il gufo
o il leone,
per non aver la
ragione,
per non aver
l'intelletto,
per essere (questo
conforto
concedi, o Natura, a
chi è stanco
già troppo), per
esser pur anco
un uomo, ma essere
morto!
(Da "Un
giorno", Streglio, Torino 1907)
SEMPRE ASSORTO IN ME
STESSO...
di Camillo Sbarbaro
(1888-1967)
Sempre assorto in me
stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli
uomini mi muovo.
Di chi m'urta col braccio
non m'accorgo,
e se ogni cosa guardo
acutamente
quasi sempre non vedo
ciò che guardo.
Stizza mi prende
contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni
voce m'importuna.
Amo solo la voce
delle cose.
M'irrita tutto ciò
che è necessario
e consueto, tutto ciò
che è vita,
com'irrita il
fuscello la lumaca
e com'essa in me
stesso mi ritiro.
Ché la vita che basta
agli altri uomini
non basterebbe a me.
E veramente
se un altro mondo non
avessi, mio,
nel quale dalla vita
rifugiarmi,
se oltre le miserie e
le tristezze
e le necessità e le
consuetudini
a me stesso non
rimanessi io stesso,
oh come non esistere
vorrei!
Ma un'impressione
strana m'accompagna
sempre in ogni mio
passo e mi conforta:
mi pare di passar
come per caso
da questo mondo...
(Da
"Pianissimo", «La Voce», Firenze 1914)
NATALE
di Giuseppe Ungaretti
(1888-1970)
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
(Da "Allegria di
naufragi", Vallecchi, Firenze 1919)
MISANTROPIA
di Paolo Buzzi
(1874-1956)
Non amo gli uomini.
Nessun male profondo
mi fecero
ché nessun male, pur
lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia
mia è di sfuggirli.
Pagherò questo
capriccio da sultano.
Morrò senza due righe
di commento alle gazzette
assai simile
all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno
delle meraviglie,
io che veramente avrò
vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di
musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi
nei cantoni. Il buio
in solitudine mai
m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte,
ai testi. Per ciò
credo alla futura e
eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella
bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli
uomini dimenticati.
(Da "Il poema
dei quarant'anni", Edizioni di «Poesia», Milano 1922)
CHE SI FA?
di Francesco
Pastonchi (1874-1953)
Povera terribile
gente
che è tanto paurosa
di restar sola con la
propria vita!
e vuol essere
divertita
e sempre rotolar qua
e là,
e si chiede a ogni
posa
«e ora che si fa?»
Ci si uccide,
finalmente.
(Da "I
versetti", Mondadori, Milano 1931)
CON LA MIA GROMMA DI
MISANTROPIA
di Giorgio Vigolo (1894-1983)
Con la mia gromma di
misantropia
fatta più ombrosa e
schiva
ora che sulla china
dell'età la vertigine
mi strangola
dei mali estremi che
la fine agognano,
mischiate d'ira e
annuvolate in pianto
l'ore mie vivo forse
ultime, ed evito
di traboccare
solo finché mi tiene
per la mano
una pietosa Antigone.
(Da "La fame
degli occhi", Florida, Roma 1982)
Frank Bramley, "Delicious Solitude" |
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