Il secolo XIX è
probabilmente il primo che, in poesia o in prosa, pone seriamente l'attenzione
sul lavoro e sui lavoratori; in particolare su coloro che allora facevano i
mestieri considerati decisamente faticosi. Questo è anche il secolo in cui
nasce il socialismo, con tutte le nuove proposte che intende realizzare per
rendere la vita dei lavoratori migliore. In questo secolo, poi, cominciano ad
approcciarsi ai più diversi mestieri molte donne prima tagliate fuori dal
contesto lavorativo. Nei sottostanti dieci componimenti poetici, quasi sempre sono
protagonisti i lavoratori che maggiormente soffrono, poiché svolgono dei
mestieri usuranti, in certi casi disumani. Qualche volta invece si nota un
patriottismo sincero (la nazione italiana nacque nel cuore dell'Ottocento) che
percepisce, come fulcro della nascente patria, il lavoro e i lavoratori. Si
noterà che la maggior parte delle poesie appartengono all'ultima fase del
secolo; ciò si spiega col fatto che è proprio quel periodo il più ricco di
fermenti, di mutamenti e di conquiste sociali che coinvolgono i lavoratori in toto (non a caso l'ultima lirica
parla di uno sciopero); strada complicatissima che è iniziata lì ed è
proseguita con successo nel secolo seguente: gli anni '60 e '70 insegnano.
IL CANTO
DELL'ARROTINO
di Cesare Correnti
(1815-1888)
La ruggine annosa, -
la sozza guaina
M'han guasta e
corrosa - la lama strafina;
Pur vedi, brillante -
già il filo si fa...
Figliuolo, un
istante! - la ruota la va.
Ve' il manico d'oro -
com'era infardato!
Sì ricco lavoro -
sciuparlo è peccato:
Fattura lombarda -
che pari non ha...
Figliuolo, ti guarda!
- la ruota la va.
Scolpito sul pomo -
mi scifra il suggello.
Ma il ferro è già
caldo - favilla già dà...
Figliuolo, tien
saldo! - la ruota la va.
La guardia, il
Cellini - l'ha forse foggiata:
Di ninfe e puttini -
festosa brigata
S'affaccia ai
frastagli - e occhieggia di là
La lama a due
tagli... - La ruota la va.
Ma qui dove doccia -
la stilla dall'alto,
Di sangue una goccia
- s'aggruma allo smalto.
Ricordo che il brando
- non sente pietà...
Attenti al comando! -
La ruota la va.
(Da "Il nipote
del Vestaverde", Vallardi, milano 1858)
IL RITORNO DAL LAVORO
di Antonio Fogazzaro
(1842-1911)
Occupan l'alto lago
Densi vapori, e
piove.
Lontan lontano move
Per la nebbia
profonda
Di miste voci un'onda
Dolce, tranquilla e
grave.
Sol cupe acque
deserte
L'intento sguardo
vede.
Continua procede,
S'appressa via via
L'ignota melodia
Dolce, tranquilla e
grave,
Come se naviganti
D'un pelago infinito,
Lunge dal natio lito,
Al cader de la sera
La semplice preghiera
Levassero al Signore.
Ed ecco tra i vapori
Mostran lor punta
bruna,
Escono ad una ad una,
Qua e là s'affannan
carene
Le picciolette barche
De la gente che
canta.
Vengono e vanno i
remi,
Vengono e vanno i
canti
Tra' cumuli fragranti
Del fien raccolto
allora;
Si rizza su la prora
Capretta impaziente.
Tornan dai solitari
Campi de l'altro lido
Gli agricoltori al
fido
Tetto, a' vecchi
parenti,
A' bamboli innocenti,
A la notturna pace.
Così vi si conceda,
Fornita l'opra e
pieni
I vostri dì, sereni
Drizzar di messe
carche
Le picciolette barche
Ai lidi del mistero.
Vi attende un tetto
fido,
E coi vecchi parenti
Coi bamboli innocenti
Cui vi porranno
appresso
Un salutar sommesso;
Poi, del Signor la
pace.
(Da
"Valsolda", Brigola, Milano 1876)
IL CANTO DEI
MIETITORI
di Mario Rapisardi
(1844-1912)
La falange noi siam
de’ mietitori
E falciamo le messi a
lor signori.
Ben venga il Sol
cocente il Sol di giugno,
Che ci arde il sangue
e ci annerisce il grugno,
E ci arroventa la
falce nel pugno,
Quando falciam le
messi a lor signori.
Noi siam venuti di
molto lontano
Scalzi, cenciosi, con
la canna in mano,
Ammalati da l’aria
del pantano
Per falciare le messi
a lor signori.
I nostri figlioletti
non han pane,
E chi sa? forse
moriran domane
Invidïando il pranzo
al vostro cane...
E noi falciam le
messi a lor signori.
Ebbro di sole ognun
di noi barcolla;
Acqua ed aceto, un
tozzo e una cipolla
Ci disseta, ci
allena, ci satolla.
Falciam, falciam le
messi a quei signori.
Il Sol ci cuoce, il
sudore ci bagna,
Suona la cornamusa e
ci accompagna,
Finchè cadiamo a
l’aperta campagna.
Falciam, falciam le
messi a quei signori.
Allegri, o mietitori,
o mietitrici,
Noi siamo, è vero,
laceri e mendici,
Ma quei signori son
tanto felici!
Falciam, falciam le
messi a quei signori.
Che volete? Noi siam
povera plebe,
Noi siamo nati a
viver come zebe,
Ed a morir per
ingrassar le glebe.
Falciam, falciam le
messi a quei signori.
O benigni signori, o
pingui eroi,
Vengano un po’ dove
falciamo noi;
Balleremo il trescon,
la ridda, e poi...
Poi falcerem le teste
a lor signori.
(Da
"Giustizia", Giannotta, Catania 1883)
IL GENIO DEL LAVORO
di Domenico Carbone
(1823-1883)
Viva Italia! Uno
Spirto gagliardo
Corre il mar, corre
il pian, corre il monte;
Incallite ha le mani,
e la fronte
Ha cospersa di sacro
sudor.
Egli batte le reni
del tardo,
Con flagello di fiori
e di spini.
Libertà, ne' tuoi
campi divini
Quegli spini fur colti
e que' fior.
Viva Italia! Le
stridule lime,
L'aspre seghe, i
martelli sonanti,
Del colono e del
milite i canti.
Delle spole l'alterno
volar
Sono un inno che
monta sublime,
Son preghiera al
Signor più gradita
Che lo squillo di
torre romita,
Che l'incenso di
lucido aitar.
Viva Italia! Una
terra d'ignavi
È palude che putrida
stagna;
È simile alla mesta
campagna,
Dove i morti hanno
requie fatal.
Ma la gente che
s'agita in gravi
Studi, e d'opre
sudate si pasce,
Mai non muore, o
morendo rinasce,
Come tallo da ceppo
vital.
(Da
"Poesie", Barbera, Firenze 1885)
IL CANTO DEI
LAVORATORI
di Filippo Turati
(1857-1932)
Su fratelli, su
compagne,
su, venite in fitta
schiera:
sulla libera bandiera
splende il sol
dell'avvenir.
Nelle pene e
nell'insulto
ci stringemmo in
mutuo patto,
la gran causa del
riscatto
niun di noi vorrà
tradir.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
La risaia e la
miniera
ci han fiaccati ad
ogni stento
come i bruti d'un
armento
siam sfruttati dai
signor.
I signor per cui
pugnammo
ci han rubato il
nostro pane,
ci han promessa una
dimane:
la diman si aspetta
ancor.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
L'esecrato capitale
nelle macchine ci
schiaccia,
l'altrui solco queste
braccia
son dannate a
fecondar.
Lo strumento del
lavoro
nelle mani dei
redenti
spenga gli odii e fra
le genti
chiami il dritto a
trionfar.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
Se divisi siam
canaglia,
stretti in fascio
siam potenti;
sono il nerbo delle
genti
quei che han braccio
e che han cor.
Ogni cosa è sudor
nostro,
noi disfar, rifar
possiamo;
la consegna sia:
sorgiamo
troppo lungo fu il
dolor.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
Maledetto chi gavazza
nell'ebbrezza e nei
festini,
fin che i giorni un
uom trascini
senza pane e senza
amor.
Maledetto chi non
geme
dello scempio dei
fratelli,
chi di pace ne
favelli
sotto il pie
dell'oppressor.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
I confini scellerati
cancelliam dagli
emisferi;
i nemici, gli
stranieri
non son lungi ma son
qui.
Guerra al regno della
Guerra,
morte al regno della
morte;
contro il diritto del più forte,
forza amici, è giunto
il dì.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
O sorelle di fatica
o consorti negli
affanni
che ai negrieri, che
ai tiranni
deste il sangue e la
beltà.
Agli imbelli, ai
proni al giogo
mai non splenda il
vostro riso:
un esercito diviso
la vittoria non
corrà.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
Se eguaglianza non è
frode,
fratellanza
un'ironia,
se pugnar non fu
follia
per la santa libertà;
Su fratelli, su
compagne,
tutti i poveri son
servi:
cogli ignavi e coi
protervi
il transigere è
viltà.
Il riscatto del
lavoro
dei suoi figli opra
sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
(Dalla rivista «Il
Fascio Operaio», marzo 1886)
IL MINATORE
di Guido Mazzoni
(1859-1943)
Passano senza
mutamento l'ore,
e picchia col piccone
il minatore.
Quant'anni sono ch'ei
discende il pozzo?
buio d'inferno è per
la galleria:
da l'afa trista il
respiro gli è mozzo,
non sa più dove sia
né chi egli sia.
Ma pur convien che
col piccone dia,
e picchia col piccone
il minatore.
Una volta lassù nel
sol giocondo
vide candidi mandorli
fioriti
e danzar giovinette a
tondo a tondo
e chiamarlo ridendo e
fargli inviti.
Ohimé, que' giorni come
son finiti!
e picchia col piccone
il minatore.
Una volta lassù nel
lume d'oro
(come splendea quella
sera la luna!)
si mise, e ardeagli
il cuore, in mezzo a loro,
e danzò tutta la sera
con una.
Maledetta la morte e
la fortuna!
e picchia col piccone
il minatore.
Com'era bello il
bimbo entro la cuna!
vennero i preti, lo
portaron via.
Maledetta la morte e
la fortuna!
ma così esser deve, e
così sia.
Convien convien che
col piccone dia,
e picchia col piccone
il minatore.
(Da "Voci della
vita", Zanichelli, Bologna 1893)
CARRETTIERE
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
O carrettiere che dai
neri monti
vieni tranquillo, e
fosti nella notte
sotto ardue rupi,
sopra aerei ponti;
che mai diceva il
querulo aquilone
che muggia nelle
forre e fra le grotte?
Ma tu dormivi sopra
il tuo carbone.
A mano a mano lungo
lo stradale
venìa fischiando un
soffio di procella:
ma tu sognavi ch’era
di natale;
udivi i suoni d’una
cennamella.
(Da
"Myricae", Giusti, Livorno 1894)
MADRE OPERAIA
di Ada Negri
(1870-1945)
Nel lanificio dove
aspro clamore
Cupamente la vôlta
ampia percote,
E fra stridenti rôte
Di mille donne
sfruttasi il vigore,
Già da tre lustri
ella affatica. — Lesta
Corre a la spola la
sua man nervosa,
Nè l’alta e fragorosa
Voce la scote de la
gran tempesta
Che le scoppia
dattorno. — Ell’è sì stanca
Qualche volta; oh, sì
stanca e affievolita!..
Ma la fronte patita
Spiana e rialza, con
fermezza franca:
E par che dica:
Avanti ancora!... — Oh, guai,
Oh, guai se inferma
ella cadesse un giorno,
E al suo posto ritorno
Far non potesse, o
sventurata, mai!... —
Non lo deve; nol può.
— Suo figlio, il solo,
L’immenso orgoglio de
la sua miseria,
Cui ne la vasta e seria
Fronte del genio essa
divina il volo,
Suo figlio studia. —
Ed essa all’opificio
A stilla a stilla
lascierà la vita,
E affranta, rifinita.
Offrirà di sè stessa
il sacrificio;
E la tremante e
gelida vecchiaia
Offrirà, come un dì
la giovinezza,
E salute, e dolcezza
Di riposo offrirà, santa
operaia,
Ma il figlio
studierà. — Temuto e grande
Lo vedrà l’avvenire;
ed a la bruna
Sua testa la fortuna
D’oro e di lauro
tesserà ghirlande!...
(Da
"Fatalità", Treves, Milano 1895)
IL FABBRO
di Emilio De Marchi
(1851-1901)
Tra i muti casolari
odi frequente
il suono che rimbalza
sull'incude:
è Bellincion, che
colle braccia nude
batte il ferro rovente.
Ei sta fosco Vulcan
da mane a sera
al mantice, al
martel, alla tenaglia:
batte, inchioda,
arroventa, il ferro scaglia
rosso nell'acqua nera.
Copron serrami e
toppe aspre e ferraglie
l'affumicata volta
della muda:
ansa la vampa sulla
carne ignuda
le sue stridente scaglie.
Grida al compagno e
cade in una dura
danza la solfa delle
salde braccia:
tuona il martel, che
rompere minaccia
le costole a natura.
Se il vino canta e
scalda il sentimento,
piomban sì giusti i
colpi del martello,
che la torre merlata
del castello
balla sul fondamento.
Quindi egli siede ai
caldi occhi del sole
sull'uscio e in così
grasse risa il pane
accompagna che
fuggono lontane
le donne alle sue fole.
Oppur si piglia in
braccio o sui ginocchi
un suo vezzoso
bambinel di latte:
e le morbide incudini
gli batte,
soffiandogli negli occhi.
Dell'uom barbuto e
nero il picciol fiore
mitiga i sensi e le
parole audaci:
scendon spesse
carezze e scendon baci
che fan rovente il
cuore.
(Da "Vecchie
cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899)
SCIOPERO IN RISAIA
di Olindo Guerrini
(1845-1916)
Sull'argine fangoso e
desolato,
sotto il ciel che
s'oscura,
come ingiunto gli fu
veglia il soldato
e guarda la pianura.
Non un canto lontan,
non un susurro
dai muti casolari;
non un allegro fil di
fumo azzurro
s'alza dai focolari.
Sol di bimbi affamati
un gemer lento
sembra morir
lontano....
La fame, la miseria e
lo spavento
pesan sul triste
piano!
Pensa il soldato: –
«Ahimè, lacrime umane,
noi vi freniam con
l'armi!
Oggi, se a casa mia
non c'è più pane
ci saranno i
gendarmi!»
(Da "Le Rime di
Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)
Pierre Auguste Renoir, "I mietitori" |
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