È una visita ad un
piccolo camposanto, lontano, ombroso, solitario, senza lacrime e senza fiori,
dove riposano da tempo pressoché immemorabile i miei parenti ed amici! Quasi
tutti morirono giovani o toccata appena l'età matura; e rileggendo sulle lapidi
i loro nomi, mi vien fatto di ricercare sopra alcuna di esse anche il mio, come
quello di una persona morta già da gran tempo insieme co' miei più cari; e mi
par quasi ch'essi si meraviglino e mi facciano rimprovero che io, compagno
dell'attività e della vita, sia sfuggito al loro riposo, per cacciarmi innanzi
tra le file di nuove generazioni.
[Da "I Poeti
della Scuola romana (1850-1870)", a cura di Domenico Gnoli, Laterza, Bari
1913)
LA MORTE
di Giovanni Torlonia
(Roma 1831 - ivi 1858)
La morte è gioia: è
un ritornare ai liti
Di quella patria
donde siam partiti.
La morte, o Amico, è
un vivere novello
Che più libero fa
l'uman pensiero,
L'ali gli rende, e lo
solleva al Vero:
Per lei si rompe quel
fatal suggello
Che della vita a noi
chiude l'arcano,
Per lei si mostra il
mondo al guardo umano
Senza confini, e più
lucente e bello;
Per lei vediamo
limpido e svelato
Ogni affetto, ogni
idea dell'alme elette
Che abbiamo in terra
ardentemente amato,
E ritroviamo in ciel
sante e perfette.
Quell'Ideal, che
raggia i suoi splendori
In questa parte più,
in altra meno,
Allor tutto ci appare
e più sereno
In quell'Amor «che
s'apre in nove Amori.»
E quel che noi godiam
velato in parte
Nelle bellezze di
Natura e d'Arte,
Allor si schiude
all'avido desio
Raccolto intero nel
pensier di Dio.
(Da
"Poesie", Le Monnier, Firenze 1856)
CI SON FANCIULLE CHE
PAIONO FIORI
di Paolo Emilio
Castagnola (Roma 1825 - ivi 1898)
Ci son fanciulle che
paiono fiori;
Che far se ne
potrebbe un bel giardino
Tutto smaltato di
vari colori.
C’è chi somiglia al
bianco gelsomino,
C’è chi la
chiamereste una viola,
C’è la rosa superba e
il fior di spino.
E tutti questi fiori
hanno parola;
Olezzano valore e
cortesia
E ’n quel giardino
Amor ci tiene scuola.
E pure io non so dir
che cosa sia
Che in fra tanti non
v’è fior di bellezza
Che vaglia a serenar
l’anima mia
Tutta raccolta ne la
sua tristezza.
(Da
"Poesie", Le Monnier, Firenze 1857)
La cosiddetta
"Scuola romana" è una cosa dimenticata, di cui non rimane vestigio
che nella memoria mia e di pochi altri, un oggetto dei nonni rimasto in fondo
ad un vecchio armadio. Benedetto Croce accennava alla «non gloriosa scuola romana, una scuola
poetica inferiore perfino alla napoletana dello stesso periodo, e non superiore
a quella siciliana». Io non sono in grado di far quei confronti, ma noto solo
che della produzione romana sparsa in raccolte e volumetti, parte dei quali non
sono forse mai usciti di Roma e quasi introvabili, non è facile dar sicuro
giudizio con piena cognizione di causa.
[Da "I Poeti
della Scuola romana (1850-1870)"]
LA NOTTE
di Giuseppe Maccari
(Frosinone 1840 - Roma 1867)
Or tutto tace nella
stanza e fuori.
Scorsa è la sera, e
appena un' aura allevia
L'aér pesante
dell'agosto. Io seggo,
Seggo, ed invan su le
dilette carte
I pensier vaghi e le
pupille accolgo.
Il braccio stendo
sovra i libri e appoggio
Ne fo alla guancia, e
di rincontro al cielo
Per l'aperto balcon
gli occhi sollevo,
Mentre la luna
leggiermente passa
Su i nugoletti, ed or
s'asconde or torna:
E sì mirando
lungamente, ho pace.
(Da "Poesie e
lettere", Barbèra, Firenze 1867)
A DOMENICO GNOLI
di Giambattista
Maccari (Frosinone 1832 - Roma 1868)
Ogni cosa s’invecchia; nella mente
S’invecchiano i
pensieri, ed i più cari
Affetti dentro al
core, e non son gli anni
Che recan la
vecchiezza: ancor nel verde
Di giovinezza l’animo
s’invecchia.
I mali, o Gnoli mio,
fiaccano il core,
I tristi mali, e v’è
chi da fanciullo
Piange, e venuto
giovine, non vede
Di giovinezza mai
spuntar le rose.
Questi giovine è
vecchio, e una mestizia
Gli viene dalle
lagrime, che tutta
Gli accompagna la
vita; alcuna volta
Il dolore fa l’anima
gagliarda,
Ma rado avviene; ché
il continuo affanno
Più spesso ci fa
debili, ed allora
Ogni cosa le lagrime
ci cava.
(Da "Nuove
poesie", Galeati, Imola 1869)
La prosa non era per
noi. Se anche ci fosse stato permesso, data la indeterminatezza delle idee e la
incompiutezza delle cognizioni per difetto d'ogni sussidio, che cosa avremmo
avuto da dire? Esclusi da ogni campo d'azione, non addestrati al lavoro
intellettuale e all'indagine critica, la nostra vita era tutta di sentimento:
amori e sdegni. Soli con noi stessi, non ci restava che esalare nel verso gli
affetti e le aspirazioni dell'anima, in quella forma che ci indicava non la
vita presente, muta intorno a noi, ma la voce veneranda dei padri. Una
tristezza stanca pareva velare quasi tutta quella poesia, espressione della
forzata inerzia delle energie giovanili.
[Da "I Poeti
della Scuola romana (1850-1870)"]
ALLA
LUNA
di Augusto Caroselli
(Roma 1853 - ivi 1899)
Io vo' lodarti, o
Luna
Però che lingua
alcuna
Di poeta non tace
I pregi tuoi. Mi
piace
Lo spuntar che tu fai
D'oltre i colli; né
mai
La sera ne radduce
Questa candida luce,
Ch'io non prenda
diletto
Nel cangiarsi
d'aspetto
I boschi e l'ampie
valli:
Pe' rischiarati calli
La gente
s'accompagna,
E la bella campagna
Suona di risa e
canti;
Trionfano gli amanti,
Ché il tuo raggio
discreto
Non tradisce il
segreto,
Ma d'un vago languore
Pinge ogni atto
d'amore.
Poca, breve è la
gioia;
Il dolore e la noia
Signoreggiano intera
La vita, e sola vera
Dolcezza è
nell'oblio:
Luna pietosa, il mio
Letto ne spargi e
schiara
Placidi sogni; cara
T'avrò; né lode
alcuna
Fia che ti mandi, o
Luna.
(Da
"Versi", Galeati, Imola 1870)
ALLA VERGINE NEL MESE
DI MAGGIO
di Luigi Celli (Roma
1825 - ivi 1870)
Fra l’innocente
ragionar d’amore
E di terra natia,
Quest’inno giovinetto
a te s’invia,
O Madre del Signore.
Non egli è il dolce
tempo? E la vaghezza
Non è questa
dell’anno?
Quale in maggio
odorato, e d’amor sanno
I fiori in giovinezza.
Cittadina a la
mistica Sionne,
E la tua bella stola
Tu quaggiuso
vestisti: oh fra le donne
Prima non pur, ma
sola!
Santissimo, e tu il
sai,
È di patria il
desio, chi ben l'estima:
Gentil più ch’altri
mai,
Di tutte gentilezze
tien la cima.
E tu, Vergine pura,
Se delle forme tue si
configura
Un vergine sembiante,
Fai santo il raggio
di due luci sante.
Torna il maggio
odorato: di vaghezza
Novella i bei fior
sanno;
Ride a noi l’animosa
giovinezza
Dopo il
vigesim’anno.
Deh, l’inno che
s’invia
Fra l’innocente
ragionar d’amore
E di terra natia,
Degna d’un guardo, o
madre del Signore.
(Da
"Versi", Galeati, Imola 1870)
I nostri ideali erano
semplici: la morale austera; la religione fuori delle faccende terrene e
purificata nel lavacro delle sue origini; con Dante, col Petrarca, col Leopardi
gemevamo sull'avvilimento della patria, senza alcuna determinatezza per l'avvenire;
l'amore era, con Dante e col Petrarca, un affanno gentile, incontaminato,
purificatore. È lontano, non è vero, quel tempo?
[Da "I Poeti
della Scuola romana (1850-1870)"]
VENT’ANNI
di Domenico Gnoli
(Roma 1838 - ivi 1915)
Io vado su pel mare
ondoleggiante
Entro una barca lieve
come vento.
Sta sulla poppa un
giovine di foco,
Alato, snello e si
chiama Desio:
Ha incontro una
divina giovinetta,
E tutto pende da le
sue pupille
Che sol da quelle
pende la sua vita.
Lei dicono Speranza;
è tutto riso.
Vanno remando; l’onde
ventilate
Baciano la felice
navicella.
Nello specchio del
mare il sol s’addoppia,
Un’aura dolce mi
dilata il petto,
M’agita il crine, mi
carezza il viso.
È un affanno, un
affanno di dolcezza!
(Da "Versi di
Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871)
FOCO FATUO
di Pietro Cossa (Roma
1830 - Livorno 1881)
Giulia, hai tu mai
veduto
Nell'ore dolci d'una
notte estiva,
Allor che tace il
vento
O la luce degli astri
arde più viva,
Hai veduto talor dal
firmamento
Staccarsi un guizzo
di cadente foco.
Pari a una stella che
tramuti loco?
E là dove si dorme
Sotto povera croce
Sonno duro, uniforme,
Non consolato più da
larve care.
Dimmi, Giulia, hai
veduto una fiammella
Che tremola, e
scompare
Come lampo di stella
Sopra la terra smossa
De la recente fossa?
Graziose follie son
de la luce,
E un amor le conduce
Come le idee d'un'anima
gentile
Che fatuo chiama il
mondo e tiene a vile.
Così vive il poeta:
Luce corta e
inquieta,
trascorra vistosa
l'emisfero,
solitaria appaia
entro a lo stretto
Cerchio d'un
cemetero.
(Da "Poesie
liriche", Libreria Editrice, Milano 1876)
SOMIGLIANZA
di Ignazio Ciampi
(Roma 1824 - ivi 1880)
Se vedo la vecchietta
per la via
M'intenerisco tutto e
la sogguardo
Con occhio quasi
innamorato. Ed ella,
Se s'accorge di me,
mi guarda anch'ella
Un po' riconoscente e
un po' stupita.
Perché stupisce la
vecchietta mia?
Non indovina che ne'
suoi sembianti
Ricordo i tratti di
mia madre estinta,
E che mi piacerebbe
in sulla fronte
Stamparle il bacio
che fa bene al core?
(Da
"Poesie", Galeati, Imola 1880)
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