domenica 26 gennaio 2025

Poeti dimenticati: Guglielmo Felice Damiani

 Nacque a Morbegno, in provincia di Sondrio, nel 1875; morì a Napoli nel 1904, a causa di una grave malattia infettiva. Dopo aver frequentato il liceo a Como, si laureò a Pavia nel 1898. Iniziò quindi ad insegnare letteratura in varie località, tra cui Napoli; qui si dedicò anche al giornalismo e alla critica letteraria. Nella sua breve vita riuscì a pubblicare solamente due libri di versi; la sua opera poetica completa uscì postuma in due volumi, grazie all'interessamento del corregionale e poeta Giovanni Bertacchi. Influenzata dai poeti italiani del secondo Ottocento, la migliore lirica di Damiani è quella in cui si avverte una sincera nostalgia - velata anche di malinconia - nei confronti della vita trascorsa in età infantile e giovanile, nel suo paese montano.


Guglielmo Felice Damiani



Opere poetiche


"Le due fontane", Sandron, Milano-Palermo 1899.

"La casa paterna", Sandron, Milano 1903.

"Lira spezzata" (2 volumi), Zanichelli, Bologna 1912.



Presenze in antologie


"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1292).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 280-281).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 194-200).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 287-295).



Testi


TRAMONTO D'OTTOBRE


Amica, non vedi che porpora

divampa su l'erte montane

e accende le nubi che sfumano

ardendo pel cielo lontane?


È un vespro d'ottobre su l'intimo

silenzio del borgo natio:

ché tace a quest'ora la garrula

contrada e discende l'oblio;


discende con l'ombre che smorzano

l'usato romor delle genti,

ma sogni infiniti risvegliano

nel cuore dei cuori dolenti...


Amica! Io so che s'approssima

il giorno del mesto saluto,

Io sento il rimpianto nostalgico

per ogni fuggente minuto;


si velano gli occhi, ché l'anima

mi trema nel seno commossa,

nel cuore l'angoscia mi penetra

un fuoco mi corre per l'ossa...


Son l'ultime sere! dileguano

le nubi col passo dei venti,

e intanto nel cuore mi straziano

i colpi dell'ore fuggenti;


gli sprazzi di sole mi sembrano

fantastici roghi lontani,

e i tristi nel cuor mi consumano

presagi d'un triste domani!


(da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912, primo volume, pp. 163-164)





LO SPECCHIO


Era di luna quel pallor giallastro

che tra le nubi m'apparia di fronte

quando levai gli sguardi all'orizzonte

cercando invano il palpitar d'un astro;


ed a' miei piedi nell'orror verdastro

d'un'acqua silenziosa orba di fonte,

me stesso io vidi e con il tetro monte

la luna dietro nubi d'alabastro.


Tu pur nel fiume pigro della vita

ognor ti specchi, o passegger che vai

dietro un tuo sogno e non ti fermi mai;


ed esso altro non dà che la smarrita

ombra del vagar tuo, con le pietose

forme riflesse delle tristi cose.


(da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912, secondo volume, p. 68)

domenica 19 gennaio 2025

Le voci in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Voci di persone care, che già da tanti anni non ci sono più. Voci che, quando eri un bambino, ti chiamavano dolcemente per nome (ti sembra ancora di udirle). Voci di amici, compagni di scuola o di lavoro, più o meno piacevoli da ricordare. E poi voci femminili, bellissime, associate a volti altrettanto belli: erano talmente suadenti che ti sono rimaste impresse nella mente come nel cuore, e non te le dimentichi dopo anni ed anni (le senti ancora, mentre ti dicono parole che nella realtà non pronunciarono mai). Voci di personaggi popolari: attori, attrici, doppiatori, cantanti, presentatori della tv e speaker radiofonici. Voci misteriose, non identificabili e forse soltanto immaginarie, che solamente certi poeti riescono a captare. E poi tante altre voci che, nel bene e nel male, fanno parte dei ricordi, della tua (nostra) vita passata e presente…  



LE VOCI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



LA SUA VOCE

di Angelo Barile (1888-1967)


Restar solo con te, col vivo azzurro

del cielo dove l'anima si avventa

come fuggente rondine in tempesta;


e sentir mentre palpita il sussurro

dei nostri morti un alito una lenta

voce - o padre! - passar su la mia testa.


(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, p. 141)





LE VOCI ODO DEI MORTI

di Arnaldo Beccaria (1904-1972)


Le voci odo dei morti,

le voci loro, mute, che mi chiamano.

«Prossimo ormai tu sei

alla fine del ponte» mi bisbigliano;

«e che dunque ci porti?». «Di quel poco

che i miei occhi han potuto

e saputo raccogliere» rispondo

«tutto sfuggiva alla mia ragione,

e nulla n'è rimasto.

Poco ho veduto; ancor meno ho compreso.

Molto, molto ho sofferto».

«Pur se molto hai sofferto» mi rispondono,

«qui il dolore, come la gioia, più

non hanno peso.

La pagina qui torna bianca. Morte

è indifferenza».

Questo dicono i morti, e hanno un sorriso:

il sorriso enigmatico dei morti.


(da "Sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966, p. 223)





VOCE

di Libero Bigiaretti (1905-1993)


Da questa stanza raggia

ancora la tua voce;

alza il cielo, incoraggia

a insistere la luce


che già appassisce. I moti

del tuo canto richiamano

i ricordi remoti

che dal tuo volto sciamano


verso il mio cuore. Sperde

l'inutile ronzio

delle strade il tuo verde

canto. Si desta il brio


domestico dei lumi

e respinge ai balconi

l'ombra mentre tra i fumi

di prima sera i suoni


operosi inabissa

(e s'inquieta la vela

d'una tenda prolissa

che inutilmente cela


la caduta del giorno).

Già penso alla mia foce,

al passato non torno:

resisto alla tua voce.


(da «Maestrale», gennaio 1942)





LA TUA VOCE

di Raffaele Carrieri (1905-1984)


Ovunque mi conduce la tua voce 

Pascoli trovo e fuochi per l'inverno.

Ritorna abete la porta chiusa

Passano fiumi sopra le ore

Cadono muri senza rumore

Quando vado con la tua voce.


(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 85)





LE CARE VOCI

di Gian Carlo Conti (1928-1983)


È il più quieto pomeriggio; tutti

sono andati lontano.

La nostra casa rosa e celeste

appena vediamo tra la siepe

eppur così vicina la presenza.

Chi apre le finestre, chi chiama

e chi si muove dal passo conosciamo

e stesi sotto l'albero in un intimo

colloquio le care voci

in noi risuonano ancora.


(da "Non si ricordano più. Le poesie", Guanda, Parma 1991, p. 33)





UNA VOCE AL TELEFONO

di Donata Doni (Santina Maccarrone, 1913-1972)


Una voce amica al telefono.

L'intervallo di tanti chilometri

riporta un moto dell'anima,

un accento gentile.

Lunghe strade dividono

i nostri cammini.

Prati, colli, monti

si frappongono inesorabili.

Eppure la voce giunge

dalla città del mio cuore,

nitida, inalterata.

È come una carezza

tepida sopra il volto,

è come una rugiada

sopra un fiore stanco.

È un richiamo ai giorni

della mia giovinezza,

è un ritrovarsi dell'anima.

Voce amica parlami ancora,

oltre lo spazio, oltre il tempo.

Sarò ancora la dolce compagna

degli anni degli incantesimi.


                                                           Roma 21 gennaio 1972


(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, p. 152-153)





LA VOCE

di Ada Negri (1870-1945)


Ero sul punto in cui son chiusi ancora

gli occhi, ma la memoria a noi ritorna,

quando una voce mi chiamò nel sonno.

Voce di spazio; e pur parea venire

da una bocca vicina alla mia bocca,

e mover l'aria presso il mio respiro.

Diceva: «Ada», «Ada», soltanto, in due

note d'irresistibile dolcezza.

Oh, non del mondo. Oh, non v'è piú nessuno

che mi chiami, nel mondo. Una celeste

serenità rideva in quella voce

così mutata di quand'era in terra

a parlarmi d'amore. E nel mio sonno

io non la riconobbi; e non risposi.


Ma tornerà. Venuta era per dirmi

(più vi ripenso e più lo credo, in cuore)

che l'ora viene: ch'io sia pronta; e nulla

porti con me, fuor che l'ardore antico.

Io sono pronta. E sol per la certezza

di risentir da quella voce il mio

nome, or vivo; e seguirla. Il corpo resti,

che tanto pianse; e lo raccolga l'alba.


(da "Vespertina. Il dono", Mondadori, Milano 1943, pp. 86-87)





LA VOCE DELL'ORO

di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)


Sono alti i cipressi che formano il cerchio,

nel basso le siepi di spine  's'intrecciano terribilmente.

Al centro del cerchio è il pozzo profondo

ch'ha in fondo, 

lo dice la gente, 

il tesoro.

Sono alte le siepi di spine,

raggiungon la chioma degli alti cipressi,

terribili intreccian le braccia fra loro.

Da secoli e secoli tanti

nessuno tagliò quella macchia paurosa,

la gente, da secoli tanti,

non passa vicino a quel cerchio.

Soltanto la sera al calare del sole

ognuno sta attento in orecchi,

dal centro del cerchio, 

dal fondo del pozzo profondo, 

vien fuori un lamento: «la voce dell'oro».


(da "Poesie", Preda, Milano 1930. pp. 66-67)





VOCE UMILE E PERENNE

di Lucio Piccolo (1901-1969)


Voce umile e perenne

sommesso cantico

del dolore nei tempi,

che ovunque ci giungi

e ovunque ci tocchi,

la nostra musica è vana

troppo grave, la spezzi;

per te solo vorremmo

il balsamo ignoto, le bende…

ma sono inchiodate

dinnanzi al tuo pianto le braccia

non possiamo che darti

la preghiera e l’angoscia.


(da "Plumelia, La seta Il raggio verde", Scheiwiller, Milano 2001, p. 76)





TUTTE LE COSE SONO QUIETE

di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)


In attesa della Tua voce

Che tiene gli astri sono io.

La Tua voce nasce nel vento

E l’alba preme sul petto.

Si rovescia al colore

La foglia, Ti annunzia

E passa a farmi rumore.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2020, p. 29)



Gerald Moira, "The Silent Voice"
(da questa pagina web)


domenica 12 gennaio 2025

"Dal fondo delle campagne" di Mario Luzi

 Dal fondo delle campagne è il titolo di una raccolta poetica di Mario Luzi (Sesto Fiorentino 1914 - Firenze 2005). Fu pubblicata dalla casa editrice Einaudi di Torino nel 1965. Il poeta toscano, fin dalla prima edizione, in un breve frammento che si può leggere sul retro del libro, precisò che le poesie di qui presenti, cronologicamente precedono Nel magma - raccolta di Luzi uscita nel 1963 -, essendo state scritte tra il 1956 ed il 1960. Personalmente ritengo che Dal fondo delle campagne, insieme a Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957), rappresenti la fase più significativa della carriera poetica di Luzi. A supporto di questa tesi, riporto un frammento del critico Pier Vincenzo Mengaldo, estratto dall’antologia Poeti italiani del Novecento:

 

[…] Nel secondo e centrale momento della sua carriera, che comprende grosso modo le tre raccolte Primizie del deserto, Onore del vero e Dal fondo delle campagne, Luzi tocca certamente i suoi risultati più alti. Ciò che prima era soprattutto atteggiamento letterario, qui diventa davvero esperienza esistenziale, e l’autore (già con Quaderno gotico) inizia a farsi storico di se stesso. Attraverso il Montale delle Occasioni Luzi passa sotto il patronato, ideologicamente più congruo, di Eliot, in parallelo al quale egli approfondisce la metafisica, tra cristiana e platonica, della identità e reciproca reversibilità, o meglio perpetua oscillazione, di divenire ed essere, mutamento e identità, tempo ed eternità e così via (…). È una poesia che, dalla vacillazione fra presenza e assenza che la caratterizza, si sviluppa a referto, per usare termini luziani, del «transito» e della «vicissitudine sospesa», spiati dalla «feritoia dei sensi» […].¹

 

Dal fondo delle champagne si compone di 25 poesie, suddivise nelle seguenti sezioni: Altre voci; Questione di vita o di morte; Morte Cristiana; Tre note; Dal fondo delle champagne; Quanta vita. Per finire, trascrivo da questa "plaquette" (così la definì lo stesso Luzi), una delle migliori poesie.

 

 

 


 

 

AUGURIO

 

Camera dopo camera la donna

inseguita dalla mattina canta,

quanto dura le lena

strofina i pavimenti,

spande cera. Si leva, canto tumido

di nuova maritata

che genera e governa,

e interrotto da colpi

di spazzole, di panni

penetra tutto l’alveare, introna

l’aria già di primavera.

 

Ora che tutt’intorno, a ogni balcone,

la donna compie riti

di fecondità e di morte,

versa acqua nei vasi, immerge fiori,

ravvia le lunghe foglie, schianta

i seccumi, libera i buttoni

per il meglio della pioggia,

per il più caldo del sole,

o miei giovani e forti,

miei vecchi un po’ svaniti,

dico, prego: sia grazia essere qui,

grazia anche l’implorare a mani giunte,

stare a labbra serrate, ad occhi bassi

come chi aspetta la sentenza.

Sia grazia essere qui,

nel giusto della vita,

nell’opera del mondo. Sia così.

 

(da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965, p. 28)

 

 

NOTE

1)     Da Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1991, pp. 650-651

 

lunedì 6 gennaio 2025

La poesia di Fausto Maria Martini

 Fausto Maria Martini (Roma 1886 - ivi 1931) è sempre stato considerato dai critici letterari come uno dei principali esponenti del crepuscolarismo, ed in particolare di quello romano, che si sostanziava in un cenacolo ispirato e guidato da Sergio Corazzini, ovvero il poeta più talentuoso dell'intera scuola nata e sviluppatasi nei primissimi anni del XX secolo. Se è vero che il Martini non fu solamente poeta (pubblicò romanzi e drammi teatrali; svolse una costante attività di giornalista e di critico in diversi giornali), è altrettanto vero che la sua fama si deve al giovanile periodo in cui, insieme ad alcuni amici poeti, pose le basi del crepuscolarismo. Il suo nome è ricordato spesso per le qualità che ebbe nelle vesti di animatore e di organizzatore: fu il socio fondatore del cenacolo corazziniano e mise a disposizione la sua abitazione per le riunioni e per la stesura dei lavori riguardanti, per l'appunto, l'attività poetica degli amici romani; contribuì alla fondazione della rivista Cronache latine; dopo la morte di Corazzini partì per New York insieme a Sergio Tarchiani e Gino Calza Bini, non soltanto per evadere dal vuoto lasciato dalla scomparsa del poeta romano, poiché fu proprio nella città statunitense che nacque il suo romanzo più famoso: Si sbarca a New York, in cui il Martini rievoca i "tempi migliori": quelli trascorsi con i sodali a parlare di poesia e a comporre versi con una passionalità particolarmente intensa. Pubblicò solamente tre raccolte, tra il 1906 e il 1910, in cui, da un iniziale apprendistato che mostra molte derivazioni pascoliane e dannunziane, giunge alle Poesie provinciali: la sua ultima e più matura raccolta, in cui si dimostra poeta crepuscolare sì, ma anche originale, soprattutto per la capacità di creare un catalogo femminile di personaggi dimessi, legati in qualche modo ad una sua biografia sentimentale (erano amanti, amiche o semplici conoscenti). Dopo il 1910 il Martini diradò alquanto la sua attività poetica, dedicandosi ad altro. Partecipò come soldato alla Grande Guerra, riportando gravi ferite che compromisero la sua salute e il suo stato fisico. Continuò comunque a lavorare in diversi giornali e pubblicò ulteriori romanzi e novelle, fino alla morte causata da un edema polmonare, a soli 45 anni. Chiudo riportando l'elenco delle opere poetiche di Martini, a cui seguono i testi di tre poesie dello stesso.


Fausto Maria Martini



Opere poetiche


"Le piccole morte", Streglio, Genova-Torino-Milano 1906.

"Panem nostrum...", Cromo-tipografia Commerciale, Roma 1907.

"Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910.

"Rapsodia satanica" (con lo pseud. di Alfa), Cines, Roma 1915.

"Tutte le poesie", IPL, Milano 1969.




Testi


SAN SABA


                                                                            per Sergio Corazzini

Sergio, e dicevi: «Ella ti vuole morto,

ti stringe ella in un suo gorgo soave...

tu non potrai, fratello, nel risorto

giorno, gridare al sol nascente l’Ave...»


Sergio, dicevi... Or io, nella pazzia

notturna, scaccio la mia mamma santa

come un’immonda... perché non imprechi,

gonfia di mute lagrime, la mia

mamma si parte. Solo con l’affranta

anima, resto: ed ecco, in fondo ai biechi

cipressi brancolanti come ciechi,

tempio al suicida, con le cave grotte

d’ombra, San Saba, immensa nella notte...


Sergio, e dicevi: «Ella ti vuole morto...»


(da "Le piccole morte", Streglio, Genova-Torino-Milano 1906, p. 18)





SERENITÀ

                                                                 per Claudio Spetia

Vieni tu che pregavi ed accendevi 

la tua piccola lampada a Maria, 

e nelle pause dell’Ave, temevi 

ch’io ti morissi per la nostalgia,


ascoltami parlare e tu vedrai

ch’ho disperso le nubi in un baleno: 

se guardi bene, tu sorprenderai 

in fondo al cuore, un bell’arcobaleno!


(da "Panem nostrum...", Cromo-Tipografia commerciale, Roma 1907, p. 39)





UN VIAGGIO CON TE...


Un viaggio con te! Sull'alba, tanto

di buon'ora, che certo gli occhi avresti

tutti pieni di sonno, e stanchi, e mesti

come se nella notte avessi pianto,


sull'alba ce n'andremmo… E dove, e come?

Soli, senza perché! Perché ci prese

la voglia: ce n'andremmo in un paese

ignoto e molto caro a noi pel nome…


Ti metteresti un bell'abito rosa,

un po' stridente col tuo gesto grave,

e metteresti pure le tue brave

boccole rosse, boccole da sposa,


e tanto provinciale tu saresti,

che qualcuno direbbe, giunti là:

«È quella una signora di città...»

e accennerebbe a un' altra le tue vesti…


(da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910, p. 35)


domenica 29 dicembre 2024

"Notte di neve"

 Pace! grida la campana,

ma lontana, fioca. Là


un marmoreo cimitero

sorge, su cui l'ombra tace:

e ne sfuma al cielo nero

un chiarore ampio e fugace.

Pace! pace! pace! pace!

nella bianca oscurità.





COMMENTO

Notte di neve è il titolo di una poesia di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), facente parte della raccolta più famosa del poeta romagnolo: Myricae. Questi versi entrarono a far parte della raccolta citata a partire dal marzo del 1894: mese in cui uscì la 3° edizione del volumetto, arricchito da diverse, nuove poesie. Io l'ho trascritta dal volume Poesie, edito da Garzanti in Milano, nel 1992 (p. 140).

Negli otto versi di Notte di neve, viene descritta una notte invernale e nevosa, che, grazie alla fantasia del poeta, si trasforma in una sorta di ammonimento per l'intera umanità. La campana di una chiesa che si trova nei pressi di un cimitero, suona nel pieno della notte; il rumore metallico si avverte appena, eppure si ha l'impressione che i tocchi si trasformino in voce umana; una voce che in lontananza invoca la pace sulla terra, poiché non ha alcun senso fare qualsiasi tipo di guerra. Dopo il più sanguinoso dei conflitti, gran parte dei vincitori e degli sconfitti periscono, e vengono sotterrati nei camposanti; nello stesso luogo finiranno anche tutti gli altri combattenti, perché il destino di ogni uomo è segnato dalla morte. Ecco perché è insensato qualsiasi tipo di odio o di violenza che, col tempo, si trasformi in un conflitto bellico. La pace va sempre e comunque posta come elemento fondamentale per vivere nel migliore dei modi.

La campana è "fioca", perché il suo suono giunge assai attenuato dalla neve che sta cadendo in quel preciso momento. Il cimitero appare "marmoreo", ovvero simile al colore del marmo, per via della neve caduta sul terreno; l'ombra che "tace", è quella del mistero che caratterizza la vita sul nostro pianeta, mentre il "chiarore" che si vede nel cielo nero, simbolizza la voglia d'illudersi degli esseri umani, che non accettano la realtà nuda e cruda e pensano che esista qualcosa oltre la morte. La "bianca oscurità", infine, è un effetto ottico tipico dei paesaggi notturni e innevati: grazie alla presenza della bianchezza della neve in terra, la notte appare meno scura, e crea una visione paesaggistica particolarissima e altamente suggestiva.

domenica 22 dicembre 2024

La nebbia in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 La nebbia è un fenomeno meteorologico che caratterizza gran parte della stagione autunnale e di quella invernale. Nei versi dei poeti italiani del XX secolo la nebbia è ben presente, ed è descritta in modi assai diversi, ma quasi tutti riconducibili a sentimenti di tristezza e di malinconia. Si parla di paesaggi sfocati, confusi, in cui domina un misto di sonnolenza e immobilità; tutto è spento, desolato, vuoto, e il silenzio domina incontrastato. La nebbia, quando avvolge i luoghi in cui gli esseri umani si ritrovano abitualmente, sembra portatrice di una sorta d'incantesimo, capace di paralizzare qualsiasi attività. Eppure anche la nebbia ha un suo particolarissimo fascino, perché dove arriva lei, tutto ciò che esisteva in precedenza si dissolve, e nasce un mondo quasi invisibile, favoloso e misterioso; per questo motivo sono molti i poeti che amano la nebbia.



LA NEBBIA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



LE CANDIDE NEBBIE

di Antonio Chiarelotto (1908-1996)


Le candide nebbie ora salgono

e s'affondano lenti i casolari.


Da logge,

su abissi di lucide notti,

gemme cadono

e rugiade di luna.


Tra rocce e declivi

lunghe vele tessono i pini.


Nei sentieri sepolti

si spengono le fontane.


Sta la tristezza dei crocifissi.


[da "Poesie (1937-1985)", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1986, p. 33]





NEBBIA BASSA

di Carlo Chiaves (1882-1919)


Su la pianura e sovra i colli è scesa

la nebbia del mattino, e li ha sepolti:

posan deserti entro la nube avvolti

i campi in lunga e placida distesa.


L'occhio non squarcia il vel: solo la Chiesa

del cimitero si distingue: e, sciolti

fuori dal bigio mar, diritti e folti

spuntano i pioppi, con la chioma accesa,


Però che il sole è sorto, e già le alture

somme ed i campanili, esili, eccelsi,

col primo lume de' suoi raggi, indora.


Ma in lunghe file, gelide ed oscure

come la plebe ignara, i bassi gelsi

stan fra le nebbie, sonnecchiando ancora.


(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, p. 205)





ORA DI NEBBIA

di Alda Cortella (1924-1954)


                                                          a Giorgio

Ogni canzone è muta.

La nebbia dona alle mie ciglia

perle di spazi infiniti,

echi di cieli lontani,

sofferte ombre d'amore

fatte d'immenso.


Io dormo:

le forme sospese dei rami

si sciolgono in pietre sommerse.


La nebbia si nutre

di larve di sogni:

e tu

hai il viso bagnato.


(da "Poesie edite e inedite", Rebellato, Verona 1983, p. 58)





EFFETTO DI NEBBIA

di Corrado Govoni (1884-1965)


Sono sempre ubbriaco della pioggia

marcia del natio Po

in cui le foglie morte

dei pioppi sono state in infusione;

e la grappa infuocata della nebbia

che sommerge in autunno il mio paese

mi vien fuori dagli occhi di turchese.


(da "Preghiera al trifoglio", Casini, Roma 1953, p. 148)





COLTRE D'UMIDA NEBBIA

di Margherita Guidacci (1921-1992)


Coltre d’umida nebbia, di muschio e di silenzio. 

Il colchico prorompe dal cuore dei morti. 

La stagione ha compiuto il suo arco e noi con essa. 

Come un grande perdono che a nessuno si nega 

sarà l’ultimo sonno.


(da "Le poesie", Le Lettere", Firenze 1999, p. 168)





NEBBIA E SOLE

di Mario Rivosecchi (1894-1981)


Il rombo del mare senza luce

s'accorda al cielo, privo di sole.

Ogni ridente aspetto d'alberi e case,

avvolto nella nebbia, tace.

    Quando un raggio vince la foschia,

e torna vivo il sentiero di sole e d'ombra,

in petto a me l'atteso palpito rischiara,

vince la mestizia dell'ora.

    Di quanta paziente attesa,

mi siete maestre, piante amiche.


(da "Tutte le poesie e le prose poetiche", Fast Edit, Acquaviva Picena 2008, p. 281)





TRA GLI ALBERI

di Lalla Romano (Graziella Romano, 1906-2001)


Tra gli alberi

tu ti allontani

ti volgi ogni tanto

e rispondi

al cenno della mia mano


Io sento

pulsare il sangue

e nel mio capo il rombo

crescere

fin che una nebbia scende

sugli occhi e sul paese intorno


Alto

fanno gli uccelli e disperato strido


(da "Poesie", Einaudi, Torino 2001, p. 33)





STRACCI DI NEBBIA LENTI

di Camillo Sbarbaro (1888-1967)


Stracci di nebbia lenti

e cenere d'ulivi.

Quasi a credere stenti

che vivi. 


È la pioggia una ninna‐

nanna di triste fanciulla;

al corpo che giace

la terra, una culla.


Romano di Ezzelino, 1918


(da "L'opera in versi e in prosa", Garzanti, Milano 1985, p. 123)





LA NEBBIA

di Enrico Thovez (1869-1925)


Nebbia argentina d'agosto, tenue fantasma d'autunno!

Fluttua leggera sui prati, fuma negli alberi foschi

e mi ricinge da torno di un impalpabile velo.

Ne sento l'umido abbraccio, il vago brivido dolce,

sento l'odor dell'autunno! La vasta pace serena

cui sorge incontro col vento dai prati verdi e dai boschi,

e il caro tempo ineffabile risorge a un tratto nell'anima.

Le vigne brune di grappoli, l'acuto odore del mosto

dai tini colmi, i richiami miti e sommessi dei tordi,

e i lunghi gridi ed i mesti cori dei vendemmiatori!

E lo svanito profumo dei sogni spenti, e lo stanco

desio di sogni più dolci, e il tardo incredulo ardore,

e la serena dolcezza dispensatrice d'oblìo.


(da «Nuova Antologia», 1° maggio 1903)





LA NEBBIA

di Cesare Vivaldi (1925-1999)


Oh l'apparenza incerta

delle cose! La via

annebbiata, e quest'erta


scala dell'osteria

dove chiedo un caffè!

Nella malinconia


dell'alba penso a te,

e il cuore mi si strappa

dal petto. Fino a che


la nebbia non s'aggrappa

ai più chiari pensieri,

con un gusto di grappa


dentro spessi bicchieri.


(da "Poesie 1952/1992", Newton Compton, Roma 1993, p. 10)


Charles Monet, "The_Houses_of_Parliament" (Effect_of_Fog)
(da questa pagina web)


domenica 15 dicembre 2024

Riviste: "Prospettive"

 Prospettive è il titolo di una rivista mensile di letteratura ed arte che fu fondata e diretta da Curzio Malaparte a Firenze, nel 1936. Nei primi tre anni di vita, Prospettive si mantenne su una linea prudente, trattando temi cari al regime fascista. Quindi cambiò nettamente il suo programma, e, partendo da una piattaforma ermetica, tentò di inserirsi sulla scia delle avanguardie europee. Tra i temi maggiormente trattati nel periodo più significativo dalla rivista che aveva cambiato anche sede (da Firenze si trasferì a Roma), ci sono quelli del surrealismo - con il tentativo di creare una corrente tutta italiana del movimento ideato da André Breton - e una rivalutazione del romanzo, contrapposto alla prosa d'arte. Tra i collaboratori di Prospettive, si ricordano i nomi di Carlo Bo, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alberto Moravia, Gianfranco Contini e Alessandro Parronchi. Prospettive cessò le sue pubblicazioni nel 1943. Ecco infine tre poesie pubblicate per la prima volta sulla rivista diretta da Curzio Malaparte.





PAUSA

di Filippo De Pisis (Luigi Filippo Tibertelli, 1896-1956)


Nel folto diradato, luce improvvisa,

ombre di antichi fantasmi

sul terreno grigio prezioso.

Ozioso il cuore va in cerca della grazia.

La piccola tavolozza impugnata

il pennello nella mano volante

il rosa magico di rose vive

davanti, un po' lontane

fissavo, cantando piangendo

beato e stonavo.

Dalla camera accanto

la vecchia cantante

à ripreso il motivo

con dolce stanchezza nostalgica.

Ho taciuto vergognoso:

Cocò l'à rifatta

con variazioni strane.

Di là dai vetri chiusi

(croce di Malta il telaio)

una piccola stella è comparsa

assetata, disperata a guardarmi.


(da «Prospettive», 15 gennaio 1941)





PIAZZA

di Guido Hess (1909-1990)


Svegliarsi di mattina.


Percorrere le stese

che azzurri marinai

hanno sempre percorso

carichi di stelle marine

e di pesci dalle squame

argentee


che poi verranno sepolti in ceste

sotto un'ampia foglia verde.


E presto il sole apparirà

dietro la collina

bagnando la piazza

rossa di oleandri.


Noi attraverseremo la piazza

e scivolando dalla banchina

cadremo in mare.


Qualcuno seguiterà il canto.


Un giorno persino le formiche

canteranno. O assisteremo

allo sterminio compiuto

da giganti dinosauri

scheletri risorgenti

dalla superfice del mare.


Un altro giorno la grigia

dentatura di un teschio

d'animale vomiterà

cuori vegetali.


Vivremo in un paese d'alghe

e di spugne, (tra mille sorprese)

d'alberi e di reti.


Svegliarsi di mattina.


Di notte riposare

con sotto la nuca

il muschio soffice.


(da «Prospettive», 15 febbraio - 15 marzo 1941)





NATALE 1941

di Luigi Capelli (1914-2002)


Andrò verso la noia,

poi che non so dove andare.


Fischia il treno invisibile

di là ancora dell'ansa, già l'attesa

lo misura al fragore

che l'aria così dolce porta come

voce da sempre vana a decifrare.


Andrò verso la noia,

siamo io e lei ad andare.


Città grande e lontana,

tento sempre la prova,

non cerco la tua gioia

folta e subito vana.

E che mai cerco? È questo,

o solitaria immensa,

che il mio core ritenta

così piccolo e solo d'imparare.


Andrò verso la noia,

poi che non so dove andare.


(da «Prospettive», 15 agosto - 15 settembre 1941)