domenica 29 dicembre 2024

"Notte di neve"

 Pace! grida la campana,

ma lontana, fioca. Là


un marmoreo cimitero

sorge, su cui l'ombra tace:

e ne sfuma al cielo nero

un chiarore ampio e fugace.

Pace! pace! pace! pace!

nella bianca oscurità.





COMMENTO

Notte di neve è il titolo di una poesia di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), facente parte della raccolta più famosa del poeta romagnolo: Myricae. Questi versi entrarono a far parte della raccolta citata a partire dal marzo del 1894: mese in cui uscì la 3° edizione del volumetto, arricchito da diverse, nuove poesie. Io l'ho trascritta dal volume Poesie, edito da Garzanti in Milano, nel 1992 (p. 140).

Negli otto versi di Notte di neve, viene descritta una notte invernale e nevosa, che, grazie alla fantasia del poeta, si trasforma in una sorta di ammonimento per l'intera umanità. La campana di una chiesa che si trova nei pressi di un cimitero, suona nel pieno della notte; il rumore metallico si avverte appena, eppure si ha l'impressione che i tocchi si trasformino in voce umana; una voce che in lontananza invoca la pace sulla terra, poiché non ha alcun senso fare qualsiasi tipo di guerra. Dopo il più sanguinoso dei conflitti, gran parte dei vincitori e degli sconfitti periscono, e vengono sotterrati nei camposanti; nello stesso luogo finiranno anche tutti gli altri combattenti, perché il destino di ogni uomo è segnato dalla morte. Ecco perché è insensato qualsiasi tipo di odio o di violenza che, col tempo, si trasformi in un conflitto bellico. La pace va sempre e comunque posta come elemento fondamentale per vivere nel migliore dei modi.

La campana è "fioca", perché il suo suono giunge assai attenuato dalla neve che sta cadendo in quel preciso momento. Il cimitero appare "marmoreo", ovvero simile al colore del marmo, per via della neve caduta sul terreno; l'ombra che "tace", è quella del mistero che caratterizza la vita sul nostro pianeta, mentre il "chiarore" che si vede nel cielo nero, simbolizza la voglia d'illudersi degli esseri umani, che non accettano la realtà nuda e cruda e pensano che esista qualcosa oltre la morte. La "bianca oscurità", infine, è un effetto ottico tipico dei paesaggi notturni e innevati: grazie alla presenza della bianchezza della neve in terra, la notte appare meno scura, e crea una visione paesaggistica particolarissima e altamente suggestiva.

domenica 22 dicembre 2024

La nebbia in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 La nebbia è un fenomeno meteorologico che caratterizza gran parte della stagione autunnale e di quella invernale. Nei versi dei poeti italiani del XX secolo la nebbia è ben presente, ed è descritta in modi assai diversi, ma quasi tutti riconducibili a sentimenti di tristezza e di malinconia. Si parla di paesaggi sfocati, confusi, in cui domina un misto di sonnolenza e immobilità; tutto è spento, desolato, vuoto, e il silenzio domina incontrastato. La nebbia, quando avvolge i luoghi in cui gli esseri umani si ritrovano abitualmente, sembra portatrice di una sorta d'incantesimo, capace di paralizzare qualsiasi attività. Eppure anche la nebbia ha un suo particolarissimo fascino, perché dove arriva lei, tutto ciò che esisteva in precedenza si dissolve, e nasce un mondo quasi invisibile, favoloso e misterioso; per questo motivo sono molti i poeti che amano la nebbia.



LA NEBBIA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



LE CANDIDE NEBBIE

di Antonio Chiarelotto (1908-1996)


Le candide nebbie ora salgono

e s'affondano lenti i casolari.


Da logge,

su abissi di lucide notti,

gemme cadono

e rugiade di luna.


Tra rocce e declivi

lunghe vele tessono i pini.


Nei sentieri sepolti

si spengono le fontane.


Sta la tristezza dei crocifissi.


[da "Poesie (1937-1985)", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1986, p. 33]





NEBBIA BASSA

di Carlo Chiaves (1882-1919)


Su la pianura e sovra i colli è scesa

la nebbia del mattino, e li ha sepolti:

posan deserti entro la nube avvolti

i campi in lunga e placida distesa.


L'occhio non squarcia il vel: solo la Chiesa

del cimitero si distingue: e, sciolti

fuori dal bigio mar, diritti e folti

spuntano i pioppi, con la chioma accesa,


Però che il sole è sorto, e già le alture

somme ed i campanili, esili, eccelsi,

col primo lume de' suoi raggi, indora.


Ma in lunghe file, gelide ed oscure

come la plebe ignara, i bassi gelsi

stan fra le nebbie, sonnecchiando ancora.


(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, p. 205)





ORA DI NEBBIA

di Alda Cortella (1924-1954)


                                                          a Giorgio

Ogni canzone è muta.

La nebbia dona alle mie ciglia

perle di spazi infiniti,

echi di cieli lontani,

sofferte ombre d'amore

fatte d'immenso.


Io dormo:

le forme sospese dei rami

si sciolgono in pietre sommerse.


La nebbia si nutre

di larve di sogni:

e tu

hai il viso bagnato.


(da "Poesie edite e inedite", Rebellato, Verona 1983, p. 58)





EFFETTO DI NEBBIA

di Corrado Govoni (1884-1965)


Sono sempre ubbriaco della pioggia

marcia del natio Po

in cui le foglie morte

dei pioppi sono state in infusione;

e la grappa infuocata della nebbia

che sommerge in autunno il mio paese

mi vien fuori dagli occhi di turchese.


(da "Preghiera al trifoglio", Casini, Roma 1953, p. 148)





COLTRE D'UMIDA NEBBIA

di Margherita Guidacci (1921-1992)


Coltre d’umida nebbia, di muschio e di silenzio. 

Il colchico prorompe dal cuore dei morti. 

La stagione ha compiuto il suo arco e noi con essa. 

Come un grande perdono che a nessuno si nega 

sarà l’ultimo sonno.


(da "Le poesie", Le Lettere", Firenze 1999, p. 168)





NEBBIA E SOLE

di Mario Rivosecchi (1894-1981)


Il rombo del mare senza luce

s'accorda al cielo, privo di sole.

Ogni ridente aspetto d'alberi e case,

avvolto nella nebbia, tace.

    Quando un raggio vince la foschia,

e torna vivo il sentiero di sole e d'ombra,

in petto a me l'atteso palpito rischiara,

vince la mestizia dell'ora.

    Di quanta paziente attesa,

mi siete maestre, piante amiche.


(da "Tutte le poesie e le prose poetiche", Fast Edit, Acquaviva Picena 2008, p. 281)





TRA GLI ALBERI

di Lalla Romano (Graziella Romano, 1906-2001)


Tra gli alberi

tu ti allontani

ti volgi ogni tanto

e rispondi

al cenno della mia mano


Io sento

pulsare il sangue

e nel mio capo il rombo

crescere

fin che una nebbia scende

sugli occhi e sul paese intorno


Alto

fanno gli uccelli e disperato strido


(da "Poesie", Einaudi, Torino 2001, p. 33)





STRACCI DI NEBBIA LENTI

di Camillo Sbarbaro (1888-1967)


Stracci di nebbia lenti

e cenere d'ulivi.

Quasi a credere stenti

che vivi. 


È la pioggia una ninna‐

nanna di triste fanciulla;

al corpo che giace

la terra, una culla.


Romano di Ezzelino, 1918


(da "L'opera in versi e in prosa", Garzanti, Milano 1985, p. 123)





LA NEBBIA

di Enrico Thovez (1869-1925)


Nebbia argentina d'agosto, tenue fantasma d'autunno!

Fluttua leggera sui prati, fuma negli alberi foschi

e mi ricinge da torno di un impalpabile velo.

Ne sento l'umido abbraccio, il vago brivido dolce,

sento l'odor dell'autunno! La vasta pace serena

cui sorge incontro col vento dai prati verdi e dai boschi,

e il caro tempo ineffabile risorge a un tratto nell'anima.

Le vigne brune di grappoli, l'acuto odore del mosto

dai tini colmi, i richiami miti e sommessi dei tordi,

e i lunghi gridi ed i mesti cori dei vendemmiatori!

E lo svanito profumo dei sogni spenti, e lo stanco

desio di sogni più dolci, e il tardo incredulo ardore,

e la serena dolcezza dispensatrice d'oblìo.


(da «Nuova Antologia», 1° maggio 1903)





LA NEBBIA

di Cesare Vivaldi (1925-1999)


Oh l'apparenza incerta

delle cose! La via

annebbiata, e quest'erta


scala dell'osteria

dove chiedo un caffè!

Nella malinconia


dell'alba penso a te,

e il cuore mi si strappa

dal petto. Fino a che


la nebbia non s'aggrappa

ai più chiari pensieri,

con un gusto di grappa


dentro spessi bicchieri.


(da "Poesie 1952/1992", Newton Compton, Roma 1993, p. 10)


Charles Monet, "The_Houses_of_Parliament" (Effect_of_Fog)
(da questa pagina web)


domenica 15 dicembre 2024

Riviste: "Prospettive"

 Prospettive è il titolo di una rivista mensile di letteratura ed arte che fu fondata e diretta da Curzio Malaparte a Firenze, nel 1936. Nei primi tre anni di vita, Prospettive si mantenne su una linea prudente, trattando temi cari al regime fascista. Quindi cambiò nettamente il suo programma, e, partendo da una piattaforma ermetica, tentò di inserirsi sulla scia delle avanguardie europee. Tra i temi maggiormente trattati nel periodo più significativo dalla rivista che aveva cambiato anche sede (da Firenze si trasferì a Roma), ci sono quelli del surrealismo - con il tentativo di creare una corrente tutta italiana del movimento ideato da André Breton - e una rivalutazione del romanzo, contrapposto alla prosa d'arte. Tra i collaboratori di Prospettive, si ricordano i nomi di Carlo Bo, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alberto Moravia, Gianfranco Contini e Alessandro Parronchi. Prospettive cessò le sue pubblicazioni nel 1943. Ecco infine tre poesie pubblicate per la prima volta sulla rivista diretta da Curzio Malaparte.





PAUSA

di Filippo De Pisis (Luigi Filippo Tibertelli, 1896-1956)


Nel folto diradato, luce improvvisa,

ombre di antichi fantasmi

sul terreno grigio prezioso.

Ozioso il cuore va in cerca della grazia.

La piccola tavolozza impugnata

il pennello nella mano volante

il rosa magico di rose vive

davanti, un po' lontane

fissavo, cantando piangendo

beato e stonavo.

Dalla camera accanto

la vecchia cantante

à ripreso il motivo

con dolce stanchezza nostalgica.

Ho taciuto vergognoso:

Cocò l'à rifatta

con variazioni strane.

Di là dai vetri chiusi

(croce di Malta il telaio)

una piccola stella è comparsa

assetata, disperata a guardarmi.


(da «Prospettive», 15 gennaio 1941)





PIAZZA

di Guido Hess (1909-1990)


Svegliarsi di mattina.


Percorrere le stese

che azzurri marinai

hanno sempre percorso

carichi di stelle marine

e di pesci dalle squame

argentee


che poi verranno sepolti in ceste

sotto un'ampia foglia verde.


E presto il sole apparirà

dietro la collina

bagnando la piazza

rossa di oleandri.


Noi attraverseremo la piazza

e scivolando dalla banchina

cadremo in mare.


Qualcuno seguiterà il canto.


Un giorno persino le formiche

canteranno. O assisteremo

allo sterminio compiuto

da giganti dinosauri

scheletri risorgenti

dalla superfice del mare.


Un altro giorno la grigia

dentatura di un teschio

d'animale vomiterà

cuori vegetali.


Vivremo in un paese d'alghe

e di spugne, (tra mille sorprese)

d'alberi e di reti.


Svegliarsi di mattina.


Di notte riposare

con sotto la nuca

il muschio soffice.


(da «Prospettive», 15 febbraio - 15 marzo 1941)





NATALE 1941

di Luigi Capelli (1914-2002)


Andrò verso la noia,

poi che non so dove andare.


Fischia il treno invisibile

di là ancora dell'ansa, già l'attesa

lo misura al fragore

che l'aria così dolce porta come

voce da sempre vana a decifrare.


Andrò verso la noia,

siamo io e lei ad andare.


Città grande e lontana,

tento sempre la prova,

non cerco la tua gioia

folta e subito vana.

E che mai cerco? È questo,

o solitaria immensa,

che il mio core ritenta

così piccolo e solo d'imparare.


Andrò verso la noia,

poi che non so dove andare.


(da «Prospettive», 15 agosto - 15 settembre 1941)


giovedì 12 dicembre 2024

Alcuni versi indimenticabili di Guido Gozzano

 Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatta la seconda

classe, t'han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...

Mi piaci. Mi faresti più felice

d'un'intellettuale gemebonda…


Tu ignori questo male che s'apprende

in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,

tutta beata nelle tue faccende.

Mi piace. Penso che leggendo questi

miei versi tuoi, non mi comprenderesti,

ed a me piace chi non mi comprende.




COMMENTO

In questi versi di Guido Gozzano, che fanno parte del celebre poemetto intitolato "La signorina Felicità ovvero la Felicità", il poeta piemontese descrive intellettualmente una giovane donna che conosceva e alla cui casa soggiornava spesso. Leggendo i primi versi si potrebbe intuire che Gozzano quasi disprezzi questa figura femminile per nulla istruita, dedita esclusivamente ai lavori ed alle faccende di casa. Ma proseguendo nella lettura ci si accorge invece che il poeta loda l'ignoranza della donna, perché è proprio la mancanza d'istruzione e di conoscenza che la rende affascinante e, soprattutto, autentica. Credo che questa tipologia di figura femminile sia sempre esistita ed esista ancora: vi sono tante donne (e ciò vale anche per gli uomini) che, pur avendo studiato poco, grazie agli insegnamenti dei padri e delle madri, hanno acquisito una bonarietà, una gentilezza ed una generosità che oggi sono rarissime. Insomma, si può affermare che gli studi sono importanti, ma per saper vivere, per essere sé stessi e per ottenere la stima altrui, occorrono ben altre cose.

domenica 8 dicembre 2024

I rifiuti nella poesia italiana decadente e simbolista

 Il rifiuto, parlando del termine inteso come negazione in modo generico, può subentrare nella vita di un essere umano per diverse motivazioni che si ricollegano a particolari stati psichici e fisici; si può rifiutare qualcosa o qualcuno per timore, per sconforto, per stanchezza, per pigrizia o per principio. Ognuna di queste particolari cause che determinano dei rifiuti sono presenti nei versi di alcuni poeti italiani rientranti nella sfera dei decadenti e dei simbolisti. Tra quelle che di seguito ho elencato, Apologia di Sem Benelli (e in parte a questa poesia si potrebbero associare I cavalieri di Gloriana di Gian Pietro Lucini e Sonetto nero di Corrado Govoni) parla di un rifiuto intellettuale, se vogliamo superbo, di un uomo che decide di non offrire la sua mente al piacere offertogli da una donna particolarmente avvenente, ma priva di moralità. Ma si può rifiutare anche un amore puro e sincero, come avviene nei versi di Diego Angeli e di Enrico Panzacchi; nei primi, il poeta è costretto alla rinuncia per decisione di lei, mentre nella poesia di Panzacchi è il poeta stesso che, per ragioni d’incompatibilità e non solo, pone fine ad ogni possibilità di instaurare un rapporto con un ragazza. Corazzini, in Bando, svende le sue geniali idee, perché desidera solamente una vita oziosa e spensierata, simile a quella dei gatti. Nella lirica di Italo Dalmatico, si dichiara una rinuncia alla vita, perché la si vede quale è, in tutta la sua vacuità; per questo il protagonista aspira soltanto alla morte: unica consolatrice di coloro che non si fanno più illusioni. Ne Il cancello di Pietro Mastri, il poeta è costretto a rinunciare ad un aldilà magnificamente descritto e concretamente prefigurato, a causa di un simbolico cancello che impedisce l’uscita dalla vita. Nella poesia Il pappagallo di Palazzeschi è un animale il protagonista di un rifiuto testardo: per l’appunto un pappagallo, declina costantemente i continui incitamenti della “gente” affinché emetta un minimo suono; il suo unico comportamento è un mutismo ostinato, unito ad un “guardare” silenzioso tutti coloro che lo importunano con instancabili inviti alla parola. Ne La cena degli infelici, un gruppo di misteriosi commensali rifiuta caparbiamente qualsiasi cibo che arrivi alla loro tavola. Infine, si può dire che la causa di molti rifiuti alla vita (intesa come gioia di essere al mondo), nella maggioranza dei casi, nasce da una serie di esperienze negative vissute attraverso gli anni: drammi, tragedie, tradimenti, disillusioni; quest’ultima tipologia è ben presente nei versi di Sandro Baganzani, il quale, con la sua compagna decide di rimanere chiuso in casa proprio quando la natura, nella stagione primaverile, si mostra nei suoi aspetti più attrattivi.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Diego Angeli: "Ricordo del Redentore" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Sandro Baganzani: "Attimo" in "Senzanome" (1924).

Sem Benelli: "Apologia" in «Poesia», marzo 1905.

Carlo Chiaves: "L'impeto vano" in "Sogno e ironia" (1910).

Carlo Chiaves: "I profani e il sogno" in «La Donna», gennaio 1914.

Sergio Corazzini: "Bando" in "Libro per la sera della domenica" (1906).

Italo Dalmatico: "Taci. Noi siamo in tenebra fanciulli" in "Juvenilia" (1903).

Corrado Govoni: "Sonetto nero" in "Gli aborti" (1907).

Gian Pietro Lucini: "I Cavalieri di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Pietro Mastri: "Il cancello" in "La fronda oscillante" (1923).

Marino Moretti: "Rinunzia" in "Poesie scritte col lapis" (1910).

Nino Oxilia: "Dopo il rifiuto" in "Gli orti" (1918).

Aldo Palazzeschi: "Il pappagallo" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "La cena degli infelici" in "Poemi" (1909).

Enrico Panzacchi: "Che vuoi da me?" in "Poesie" (1908).

Guido Ruberti: "I suicidi" in "Le Evocazioni" (1909).

Giuseppe Villaroel: "Rassegnazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 Testi

 

RINUNZIA

di Marino Moretti (1885-1979)

 

Dolce la sera rimaner qui soli

nella penombra della stanza, presso

i vetri, e non parlar, neppur sommesso,

e non guardar neppur gli ultimi voli!

 

Immobili restare al proprio posto

dopo una lunga disputa, e dal cuore

sentir vanire l'ultimo rancore

e il rancore più vecchio e più nascosto.

 

Sentirci presi da una tenerezza

che non à baci e che non à parole,

ma che è tepida e dolce come il sole

primaverile, e come una carezza!

 

Mamma, ti vedo. Io vedo un po' di bianco

nell'ombra muta, il bianco del tuo viso,

e v'indovino il fior del tuo sorriso,

fiore appassito di sorriso stanco!

 

Passar così tutta la vita! È sera:

l'ombra.... il silenzio.... il tedio.... Più nulla,

Che importa? È così vana e così brulla

la vita per un po' di primavera!

 

Viviamola nell'ombra: è forse meglio,

e forse, mamma, ci si vuol più bene

se un desiderio vigile ci tiene

di non pensare al prossimo risveglio!

 

Roseo di peschi, bianco di susini,

cielo lucente.... Non ricordi tu?

Non ti par che il ricordo ne sia più

tepido di quei tepidi mattini?

 

Occhi mortali illusi da un colore

primaverile su uno sfondo azzurro!

Cuori mortali illusi da un susurro

di fuchi d'oro, d'incognito cuore!

 

Nulla. Noi nella nostra ombra romita

sentiam che tutto è inutilmente come

se fosse solo una parola, o un nome

breve, di quattro lettere, la vita...

 

(da “Poesie scritte col lapis”, Palomar, Bari 1992, pp. 150-151)

 

 

 

 

RASSEGNAZIONE

di Giuseppe Villaroel (1889-1965)

 

Sorella, tu sei venuta a vedermi, con l'anima sgombra

d'ogni sospetto, ignara che il male m'avesse sfinito.

Ed io ho avuto paura che tutto sarebbe finito

quando avresti trovato non l'uomo che amavi; ma l'ombra.

 

L'ultimo giorno ci siamo lasciati con una promessa negli occhi,

una promessa dolce come la carezza della tua mano,

La sera tingeva d'oro le vette degli alberi lontano

e la chiesa del monastero batteva i suoi lenti rintocchi.

 

E fu vana la dolce promessa. E torna grave l'addio

nel mio ricordo, ora che assisto alle fatale rovina

di tutte le cose più care attorno alia vita che declina.

Oh, come tramonta triste con me tutto ciò che fu mio!

 

Il mio occhio è diventato più grande, più buono, più chiaro

e l'anima ancora vi splende; ma tutto il mio corpo è disfatto.

Tu guardi queste mani di scheletro, questo volto scarno e contratto

e vuoi celarmi il ribrezzo con un sorriso pietoso e pur così mesto ed amaro!

 

Io penso che tu più non m'ami perché non si può più amare

una misera larva che giace come una pianta sfiorita.

Io penso che tu più non m'ami perché s'ama la forza e la vita

e io sono un uomo finito che s'ostina ancora a restare.

 

Ah, non sorridermi. Io sento lo sforzo della tua dolcezza

e vedo che gli occhi tuoi non hanno più quell'ardore.

Ah, non illudermi. È triste sentirsi ingannati dal cuore

a cui s'affidò la vita che un poco ogni giorno si spezza.

 

No, dolce sorella. È vana la tua lusinga pietosa.

Non vedi che io sono rassegnato come un cieco al suo destino?

che ho fatto rinunzia di tutto e non sono altro che un bambino

senza amore e senza conforto: una povera piccola cosa?

 

Ogni mattina mi adagiano su questa sedia a bracciuoli

presso la finestra aperta su lo sfondo di topazio

e resto a guardare il veleggio delle nubi nello spazio

o i lunghi pennacchi neri sulle bocche dei fumaioli.

 

E tutto il mio mondo e la mia vita è in questa gioia breve,

unica e pura gioia fatta di silenzio e di cielo.

E il sogno nella mia anima muore come lo stelo

pallido e freddo d'un flore sbocciato sopra la neve.

 

(da "La tavolozza e l'oboe", Taddei, Ferrara 1918, pp. 14-16)

 

Edvard Munch, "Melancholy"
(da questa pagina web)


domenica 1 dicembre 2024

Antologie: "Le poesie che amo"

 Quest'antologia poetica nacque a seguito del successo che ebbe una trasmissione televisiva pomeridiana in onda sulla Rai tra il 1996 ed il 2002. Tale trasmissione, concepita e diretta da Paolo Limiti (1940-2017), dedicava un piccolo spazio alla poesia; tale spazio era gestito dallo scrittore Alessandro Gennari (Mantova 1949 - ivi 2000), che in maniera concisa presentava al pubblico un poeta più o meno famoso, per poi recitarne una poesia. Anch'io seguivo assiduamente questo programma di varietà (si occupava per lo più di canzoni del passato), ed attendevo proprio il momento in cui il conduttore si sarebbe seduto sulla poltroncina accanto a quella di Gennari, per parlare di un altro poeta. Ricordo anche l'indubbia bravura dello scrittore mantovano nella recitazione dei versi, a cui va aggiunta quella di cantare alcune canzoni popolari di Fabrizio De André, come La guerra di Piero. Nel libro di cui parlo in questo post, sono presenti gran parte delle poesie che Gennari introdusse e recitò nella trasmissione diretta da Limiti. Alla fine dell'antologia figurano anche due testi dello scrittore mantovano, preceduti da un commento sagace e ironico, che dà l'idea della popolarità avuta in quel breve periodo di tempo; ne riporto soltanto la prima parte:


Da un recente sondaggio è emerso che sono il poeta più popolare d'Italia. Del resto da due anni, ogni giorno, di fronte a un vasto pubblico Paolo Limiti mi interpella dicendo: «Passiamo ora al nostro poeta», «Sentiamo che cosa ha da dire il poeta». Centinaia di lettere mi giungono ogni mese, indirizzate «al poeta», con o senza aggettivi. Questo titolo, che più volte mi è stato attribuito dai giornali e anche da un telegiornale della sera, mi lusinga e mi onora; devo però precisare ancora una volta che non ho mai pubblicato poesie, nemmeno una sola. È vero che di poesia mi sono sempre occupato, con passione ed entusiasmo, organizzando convegni e pubblicando riviste, ma ho sempre preferito tenere nel cassetto i miei versi e credo che questo, mantenendomi sopra le parti, abbia giovato alle mie relazioni con i poeti.


Chiarito tutto ciò, Gennari prosegue la sua presentazione parlando di come, accidentalmente, fu scambiato per poeta "autentico"; infine dedica poche parole alle due poesie inedite da lui stesso scritte, che chiudono il volume.

Ecco, infine, i nomi di tutti i poeti presenti in Le poesie che amo.





LE POESIE CHE AMO


Vincente Aleixandre, Manuel Altolaguirre, Angelo Barile, Gustavo Adolfo Béquer, Umberto Bellintani, Bertolt Brecht, George Gordon Byron, Lorenzo Calogero, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Giosue Carducci, Giorgio Celli, Luis Cernuda, Guelfo Civinini, Sergio Corazzini, Gabriele D'Annunzio, Dante, Rubén Darìo, Edmondo De Amicis, Emily Dickinson, Gerardo Diego, Ugo Foscolo, Robert Frost, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Arturo Graf, José Hierro, Langston Hughes, Juan Ramon Jiménez, Rudyard Kipling, Giacomo Leopardi, Antonio Machado, Katherine Mansfield, Marco Valerio Marziale, Edgar Lee Masters, Eugenio Montale, Vinicius de Moraes, Marino Moretti, Alvaro Mutis, Ada Negri, Arturo Onofri, Giovanni Pascoli, Boris Pasternak, Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, William Shakespeare, Percy Bysshe Shelley, Wallace Stevens, Johann Ludwig Tieck, Niccolò Tommaseo, David Maria Turoldo, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Paul Verlaine, Walt Whitman, William Butler Yeats, Alessandro Gennari.  

domenica 24 novembre 2024

Poeti dimenticati: Bruna

 Clementina Laura Majocchi, in arte Bruna, nacque a Cento nel 1866 ed ivi morì nel 1945. Sorella della più nota Jolanda (Maria Majocchi), Bruna si dedicò sia alla musica che alla letteratura. In quest'ultima disciplina privilegiò decisamente la poesia; ne fanno fede i numerosissimi versi pubblicati in volumi o in riviste nell'arco di un trentennio. Le sue liriche mostrano un deciso carattere intimistico, ponendo in primo piano i sentimenti, gli stati d'animo, le emozioni e l'amore per la natura. 



Opere poetiche


"Petali e lagrime", Cappelli, Bologna 1894.

"In solitudine", Cappelli, Rocca San Casciano 1898.

"Canti di capinera", Cappelli, Rocca San Casciano 1901.

"Il poema della casa", Tip. Scienza e Diletto, Cerignola 1901.

"L'Ermo sentiero", Cappelli, Rocca San Casciano 1906.

"L'intima fiamma", Cappelli, Rocca San Casciano 1910.

"L'Eterna chimera", Casa Editrice "La Fiorita", Teramo 1913.

"Ansia di luce", Cappelli, Bologna-Rocca S. Casciano, 1921.






Testi


GELO


Cadde a fiocchi la neve

nella nottata silenziosa; e lieve

ha ricoperto i prati

sterili, abbandonati.

Or dove siete, voi, dolci Napee?

ove togliete i fiori

per adornare il vostro crin lucente?

Liete ninfe campestri,

nei rigori del verno ove fuggite?

coi fior forse dormite?

Oh! voi felici cui la neve bianca 

le luci mai non stanca;

e mentre le campagne desolate

spiran tristezza all'alme,

voi sorridenti e calme

lo zeffiro d'aprile vi sognale.


(da «Cordelia», 24 novembre 1889)





UNA MARMOREA TOMBA


Una marmorea tomba, sempre adorna di fiori,

era tutta la fede, tutta la pace mia;

or non è che rimpianto. Più non vo' per la via

che adduce a quella tomba, recando freschi fiori.


Il sentiero che solca le pianure stellate

di turgide ninfee, nel sogno sol rivedo;

quasi ogni notte in sogno, lenta e tranquilla, incedo

pel tacito sentiero, per le valli infiorate.


E ancora i crisantemi siccome un giorno reco

e una blanda mestizia ne l'anima dilaga.

Impaziente il ciglio, come a quel tempo, indaga

se spuntano i cipressi laggiù. Nessuno è meco.


Alfine su la gelida tomba la bocca ardente

un lungo bacio imprime che santo fa la morte,

e l'anima accasciata, stretta a le chiuse porte,

la parola di vita dolce sonare sente.


Ma non è più che sogno. L'aurora ci divide,

tomba negletta, mio rimorso, mio dolore!

Lasciai le tue ghirlande strappare fior per fiore…

Pallida, muta, guardo chi s'allontana e ride.


(da "L'Ermo Sentiero", Cappelli, Rocca S. Casciano 1906, pp. 78-79)





DOLCEZZA ESTREMA


Autunno, ben conosco i tuoi languori

stemperati né cieli sonnolenti,

e l'urlo angoscioso de' tuoi venti

onde sfrondato ne l'inverno muori.


Ma oggi ancora vivi e fiamme, ed ori

hanno i viali a dispogliarsi lenti

e un trepido sorriso par che tenti

anche il giardino con gli ultimi fiori.


Oh benedetta questa luminosa

ora che versa la dolcezza estrema!

Cogliamo le corolle che domani


correbbe il verno con sue fredde mani.

E il cuore non abbrividi, non tema.

Il rosaio non muor se muor la rosa.


(da "L'Eterna chimera", "La Fiorita", Teramo 1913, p. 22)