domenica 18 aprile 2021

La noia nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Certamente quello della noia è uno degli argomenti preferiti dei poeti decadenti e simbolisti, collegandosi facilmente con lo spleen, ovvero con quell'umor nero e quella malinconia descritti in modo ineccepibile da Charles Baudelaire e da altri poeti francesi della seconda metà dell'Ottocento. Nei poeti italiani la noia viene cantata in modi assai diversi: a volte diviene materia, come l'edera che sale sui muri e invade le stanze di un vecchio palazzo in stato di abbandono (Gualdo) o come un albergo senza ospiti, che si ritrova in un perenne letargo (Mannoni); a volte equivale al "Nulla" ovvero all'inutilità (Donati Pétteni, Oxilia e Vallini); altre volte ancora si evidenzia in un paesaggio nebbioso, statico e angoscioso (De Maria, Govoni e Palazzeschi). Ma la noia può nascere anche guardando un semplice oggetto come l'orologio, il quale scandisce un tempo che si annuncia vuoto di avvenimenti (Venditti); oppure, proprio perché sprona la mente, fa nascere una serie di fantasie che a volte si tramutano in veri e propri sogni ad occhi aperti (Adobati, Guido da Verona e Marcellusi). Immancabile è la presenza della morte, ricercata dal poeta in questi momenti, specialmente se a lungo andare la noia si trasforma in una disperazione senza scampo (Spiritini).

 

 

 

Poesie sull'argomento

 

Mario Adobati: "Il tedio sul fiume" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Francesco Cazzamini Mussi: "Alla Noia" in "Le amare voluttà" (1910).

Guido Da Verona: "Ballata crepuscolare" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).

Federico De Maria: "Paesaggio d'angoscia" in "La Leggenda della Vita" (1909).

Giuliano Donati Pétteni: "Più nulla" in "Intimità" (1926).

Luigi Fallacara: "Noia" in «Lacerba», dicembre 1914.

Corrado Govoni: "Noia" in "Le fiale" (1903).

Corrado Govoni: "È un pomeriggio livido" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Corrado Govoni: "Noia" in "Poesie elettriche" (1911).

Luigi Gualdo: "Gioia passata" in "Le Nostalgie" (1883).

Amalia Guglielminetti: "Tediata" in "Le vergini folli" (1907).

Remo Mannoni: "L'albergo della noia" in "Fermento" (1931).

Enzo Marcellusi: "Nausea" in "I canti violetti" (1912).

Tito Marrone: "Attimo" in «Matelda», settembre 1908.

Angiolo Orvieto: "Al Tedio" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Da quale attimo nacque questa noia..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Il pastello del tedio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Masimo Spiritini: "Quando il tedio mi afferra..." in "In Olanda" (1904).

Carlo Vallini: "La noia" in "Un giorno" (1907).

Mario Venditti, "L'orologio in castigo" in "Il cuore al trapezio" (1921).

Giuseppe Zucca: "Qualche cosa" in "Io" (1921).

 

 

 

 

Testi

 

 

 

BALLATA CREPUSCOLARE

di Guido da Verona

 

  Nell'alte bufere di polvere

che solleva uno stormo di cavalli

nel furioso galoppo,

i corvi gridando ammulìnano

su da l'immenso pianoro

verso la Città che splende orlata di nuvole d'oro.

 

  Avvampa un rogo per i culmini

dall'alta muraglia ove convergono

i fuochi vertiginosi del tramonto

e i corvi, neri come la tormenta,

feltrati calanti come l'ala della notte,

a migliaia sopra, gridando, vi strapiombano a migliaia,

come per stendere un lenzuolo funebre

sopra il delirio della sera.

 

  Perché tanto gridano i corvi

calando sui rami degli alberi

al sopravvenire della notte?

Son forse richiami d'amore che il maschio a voi manda,

o femmine calde, raccolte nell'ala piegata

sul ramo che manda profumo

di notte stellata?

 

  Ma io che sto sola e m'annoio

nella deserta mia casa dove nessuno mi chiama,

non odo la voce lontana

dell'uomo ignoto che mi ama,

e quasi di tristezza muoio...

 

  Io faccio scorrer la spola

e fo' girar l'arcolaio

per compiere questo ricamo

di seta che ho sul telaio.

 

  I corvi si addensan come nuvole

su gli alberi del mio giardino,

e manda un profumo che m'inebbria

il fiore pallido Gelsomino.

 

  Ma i corvi ora s'addormentano,

ed il pavone s'è appollaiato...

Oh il buon odore che tramandano

i fiori del pomo granato!

 

  Traverso la porpora d'oro

che infiamma d'aurore notturne le mura serene,

che filtra per le griglie verdi ove s'inerpica e trema

il fiore pallido Gelsomino,

mi giunge lieve una ballata crepuscolare, che m'incanta:

e mentre il delirio della sera

per la imporporata ombra sale,

un'ebbra voglia di vivere,

frammista in me con il pensiero

della morte infinita, m'assale.

 

  O stendardi di porpora!...

gonfie bandiere scintillanti come fontane d'oro!...

ali recise, cadenti nella fiamma,

supreme ali di sole!...

portate a me solitaria un simile grido d'amore,

un simile grido, e mi giunga

soffocato, nel delirio della sera!

 

  Bufere, bufere... La spola

si ferma; il telaio s'inclina;

più vasta l'ombra s'accoglie

nella mia faccia china.

  Ahimè, come sono felici

i corvi, sui rami odorati

che dolce profumo che mandano

i fiori dei pomi granati!...

 

  Mentr'io camminerò senza lampada

nel raggio verde pallidissimo della luna verde che non dà pace,

verso la mia coltre deserta,

verso il giaciglio tormentoso

dove non fui che l'amante inane del mio sogno voluttuoso.

 

  Dove talvolta, mentre le stelle,

simili ad un volo innumerevole di farfalle d'oro,

infurian come bufere di luce

nel quadrato azzurro della finestra,

e par che ogni atomo dello spazio

più miriadi ne chiuda,

non oso nemmeno spogliarmi

per la paura d'esser nuda,

e sto con la gola scoverta

guardando le stelle infuriare nella finestra aperta.

 

  Allor talvolta nell'incantesimo

della notte, che fila

i fili d'oro della sua conocchia,

mi par che un'ombra m'allacci

subitamente le ginocchia,

subitamente mi stringa la gola turgida, inquieta,

e che una mano mi stracci

la bella mia veste di seta.

 

(da "Il libro del mio sogno errante")

 

 

 

 

DA QUALE ATTIMO NACQUE QUESTA NOIA CHE OPPRIME

di Nino Oxilia

 

Da quale attimo nacque questa noia che opprime,

questa lotta che sfibra?

 

Che cosa sono e bene e male se non parole

vane che noi creammo?

 

Alla sua turpe scuola il despoto: l'inganno

ci tiene ebeti, avvinti.

 

Ogni baleno è falso, ogni dolore scompare

nel silenzio dell'Io.

 

Dalle mille ferite che ostentiamo piangendo

altrui, che non si cura,

 

non sorte sangue - Delle pozzanghere il limo

ci scorre nelle vene.

 

(da "Canti brevi")


Gustave Courbet, "Young Ladies on the bank of the Seine – fragment of a painting (Woman with Flowers on Her Hat)"
(da questa pagina web)


domenica 11 aprile 2021

La poesia di Raffaele Carrieri


 


Tra i miei poeti prediletti, non vi è dubbio che ci sia anche Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984); un altro dei tantissimi poeti che non ha trovato né trova abbastanza considerazione dalla critica, dal pubblico e dall'editoria (anche di lui non esiste ancora un libro che ne raccolga l'intera opera poetica). A proposito di Carrieri poeta - fu anche valente prosatore e critico d'arte - si potrebbe parlare all'infinito, perché i suoi versi rappresentano qualcosa di veramente eccezionale nell'ambito della poesia novecentesca italiana ed europea; si dovrebbe comunque cominciare parlando della sua avventurosa vita: trascorsa in numerosissime località dell'Europa, già dall'adolescenza. Questo continuo viaggiare è un elemento fondamentale, facilmente riscontrabile in molte delle sue poesie, che accennano a luoghi, mestieri, persone e usanze ben conosciuti dal poeta attraverso i molti anni di vita da bohémien. Ma la caratteristica più importante della poesia di Carrieri consiste nella sua inoppugnabile unicità, e nella conseguente difficoltà che trova chiunque voglia paragonarla o avvicinarla a qualunque grande poeta italiano o straniero. Un'altra peculiarità dei suoi versi è una evidente tendenza a scrivere degli epigrammi che hanno come argomento principale la sua visione del mondo, e che affascinano per la tangibile sincerità e per l'indubbia capacità di esprimere, in poche e profonde parole, dei concetti apparentemente inconfutabili. Ma Carrieri, nelle sue numerosissime, brevi poesie, sa trattare un po' tutti gli argomenti; ecco allora comparire donne, animali, piante, città o semplicissimi oggetti che entrano a far parte di un mondo favoloso, creato magistralmente da un poeta che mette in moto la sua infinita fantasia e lascia letteralmente incantato il lettore. Carrieri cominciò a scrivere e pubblicare i suoi versi in età già avanzata, tant'è vero che nell'anno in cui uscì la sua prima raccolta poetica era quasi un quarantenne; ma, da lì in avanti, si può ben dire che la sua ottima produzione non si fermò più, fino alla vecchiaia (il suo ultimo libro lo pubblicò a 75 anni). Per chiudere riporto tutti i titoli delle raccolte poetiche di Raffaele Carrieri, e cinque autentici gioielli che una volta di più mettono in evidenza l'immenso talento di un poeta - lo ripeto ancora una volta - ingiustamente trascurato.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Poemetto a Campigli", Ed. del Cavallino, Venezia 1942.

"Lamento del gabelliere", Toninelli, 1945.

"Souvenir caporal", Mondadori, Milano 1946.

"La civetta", Mondadori, Milano 1949.

"Il trovatore", Mondadori, Milano 1953.

"Canzoniere amoroso", Mondadori, Milano 1958.

"La giornata è finita", Mondadori, Milano 1963.

"Io che sono la cicala", Mondadori, Milano 1967.

"Stellacuore, 1945-1969", Mondadori, Milano 1970.

"Le ombre dispettose", Mondadori, Milano 1974.

"Fughe provvisorie", Mondadori, Milano 1978.

"La ricchezza del niente", Mondadori, Milano 1980.

 

 

 

 

Testi

 


FINE DI GIORNATA

 

A ogni fine di giornata

quando il cielo muore

con la gola tagliata

come la gallina nera

resto solo sul prato

con gli odori della sera

e il sacco di cenciaiolo

dove raccolgo la cenere

delle mie ore terrene.

 

(da "Stellacuore", Mondadori, Milano, p. 20)

 

 

 

 

 

CHI MI CAMMINA DENTRO

 

Chi mi cammina dentro

e orma lascia di fuga?

Chi rimuove l'antica collera,

chi brucia, chi mi fruga?

Chi si serve del mio piede

e attraversa la strada

non mia?

Chi l'amico percuote

con la mia buona mano?

Frammenti d'altre vite,

memorie di peccati

antichi io mi porto.

 

(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 37-38)

 

 

 

 

SOLO

 

Ora che sono solo

Per amici ho

Gli uccelli d’inverno.

Piumaggio di poco conto:

Canto scialbo,

Canto solitario.

Ora che sono vuoto

Quante stanze alle spalle,

Quante porte.

Alla vista del merlo

Forte batte il mio cuore.

 

(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 282-283)

 

 

 

 

UNA BURRASCA DURA DI PIÙ

 

Gesù come passano gli anni,

Una burrasca dura di più!

Mi restano gli affanni

Come viscidi sudari.

E il rumore lontano

Che fa il vento

Sui rami di vetro.

 

(da "Le ombre dispettose", Mondadori, Milano, p. 69)

 

 

 

 

PER UN VINCITORE

 

Tu che stimavi il potere

Più dell'amore,

Devi far presto a scegliere

Fra trecento scarpe

Le più leggere:

Non dovendo più salire

Né scendere.

 

Tu che ti reputavi il vincitore

Sei più immobile d'un cartone

Di sartoria proiettato

Nella vetrina.

Non riconosceresti le tue mani

Nei rigidi guanti

Che fecero fallire gli arsenali.

 

Nel vestirti ridevano i domestici

Per l'ampiezza dei vestiti

Che nessuno dei presenti

Avrebbe potuto indossare.

Cosa serve comandare

Se il vincente deve entrare

Cadavere in un doppio petto?

 

Tu che apprezzavi il danaro

Più dell'onore

Avresti certamente orrore

Nel riconoscere

I tuoi occhi di leone

Come lo spento ottone

Nei mobili degli usurai.

 

Tu che scacciavi la morte

Dalle banche che gestivi

Ed eri laconico negli ordini,

Ora sei assente:

Senz'oro

Senza voce,

Perdente per sempre!

 

(da "La ricchezza del niente", Mondadori, Milano 1980, pp. 63-64)

 

domenica 4 aprile 2021

Antologie: "Pascoli, Gozzano e i crepuscolari"


 



Ecco un altro volume della collana Letteratura italiana Laterza, che è per metà saggio critico, e per metà antologia di testi. Il titolo è: Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, pubblicato per la prima volta nel 1976 (quella che posseggo è la 2° edizione del 1988); gli autori, o, meglio, i curatori, sono Mario Tropea e Giuseppe Savoca. Bisogna dire, prima di tutto, che in questo libro Giovanni Pascoli la fa da padrone rispetto agli altri poeti che pure sono citati nel titolo: al poeta emiliano, infatti, sono state dedicate ben 94 pagine delle 136 totali (escludendo la tavola delle abbreviazioni e gl'indici ovviamente). C'è quindi da aggiungere che Guido Gozzano, presente nella seconda sezione del volume, malgrado l'apparente distinzione, viene inserito in un discorso generale, che comprende anche i cosiddetti poeti crepuscolari. A mio parere, il volume poteva essere ampliato, inserendo Gabriele D'Annunzio e Arturo Graf: due poeti che, insieme al Pascoli, influenzarono in modo netto i versi di Gozzano e dei poeti crepuscolari; inoltre, il poeta torinese meritava decisamente maggiore spazio, insieme a Sergio Corazzini, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi. Il saggio antologico, risulta quindi strutturato in maniera disomogenea, mostrando delle evidenti lacune in quanto alla attribuzione d'importanza dei protagonisti che vi compaiono. Per il resto, nulla da eccepire sulla parte meramente saggistica, così come per quella antologica riservata al Pascoli. Tutti gli altri, relegati in poche pagine e sbrigativamente trattati, per forza di cose risultano penalizzati e sviliti. 

domenica 28 marzo 2021

"Poesie scritte col lapis" di Marino Moretti

 

Poesie scritte col lapis, pubblicata dall'editore Ricciardi di Napoli nel 1910, è la raccolta di versi più famosa di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979). Il poeta romagnolo, in virtù di quest'opera, ottenne una buona notorietà, grazie anche ad un famoso articolo di Giuseppe Antonio Borgese, uscito lo stesso anno sul quotidiano La Stampa, in cui il Moretti, accomunato ad altri due poeti: Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves, fu definito per la prima volta "poeta crepuscolare". Anch'io penso che questa raccolta sia la migliore di Marino Moretti, soprattutto perché fa da spartiacque rispetto al suo modo di comporre versi; le prime due opere poetiche - che precedono Poesie scritte col lapis - rappresentarono per l'autore una sorta di apprendistato; le due successive, rappresentarono invece una "ripetizione con varianti" della citata e giustamente celebrata raccolta del 1910. Successivamente Moretti abbandonò la poesia per dedicarsi in modo assiduo alla prosa narrativa; soltanto negli anni della vecchiaia tornò a pubblicare altre raccolte di versi, che certamente non posseggono le attrattive delle precedenti.

Poesie scritte col lapis comprende in tutto 68 componimenti poetici, suddivisi nelle seguenti sezioni: Il mondo; Le domeniche; Signorine di provincia; Nostalgia; Hortulus animulae; Alcune poesie scritte con la penna. Nella prima di queste, il titolo spiega solo parzialmente il contenuto; nei versi qui presenti, infatti, viene descritto un mondo del tutto soggettivo, immerso nel grigiore di una quotidianità senza alcuna attrattiva, dove la noia, la sensazione della propria inutilità e di una evidentemente percepita inadeguatezza al vivere, dominano su tutto il resto. Il discorso non cambia nella seconda sezione, dedicata alle domeniche: tema così caro a certi poeti simbolisti e decadenti come Georges Rodenbach e Jules Lafourge; qui si trovano alcune tra le poesie più antologizzate di Moretti, come La domenica della signora Lalla, in cui il poeta ricorda con struggente malinconia la sua maestra di scuola. Nella terza sezione divengono protagoniste le "signorine di provincia": giovani donne che il poeta ha conosciuto e a cui, in qualche modo, ancora si sente parecchio legato. In Nostalgia, si trovano i versi più malinconici, pregni di ricordi lontani (per lo più dell'infanzia) e felici; Moretti aguzza la memoria e sciorina una serie di personaggi, oggetti e luoghi che gli sono rimasti impressi; è un mondo favoloso, in cui il poeta riesce ancora ad immedesimarsi, rivivendo la sua fanciullezza tramite la scrittura. Nella sezione intitolata Hortulus animulae, sono presenti poesie di vario genere: alcune, come Suor Benedetta, decisamente tragiche, ed altre, come Il mondo e mia sorella o Riderella, scherzose e allegre; qui si trova anche il poema Il giorno dei morti, che ricorda molto l'omonimo componimento del Pascoli: poeta fondamentale per Moretti, sia in questa raccolta che nelle precedenti e successive. Chiude il libro la sezione Alcune poesie scritte con la penna, dove si nota la presenza di sonetti e quartine che mostrano una maggiore seriosità rispetto al resto della raccolta.

A titolo di riassunto, si possono identificare alcuni temi portanti delle Poesie scritte col lapis: la noia, le domeniche, la provincia, la famiglia. In un mondo provinciale chiuso, grigio e noioso, dove anche i giorni di festa trascorrono senza impeto e gioia, il poeta trova scampo al suo malessere cronico grazie a specifiche evasioni intellettuali, che si indirizzano verso i ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza; ma ha la sua importanza anche l'ambiente famigliare, poiché soltanto qui egli ritrova gli affetti veri e insostituibili, che gli garantiscono quel minimo di serenità e gli consentono di proseguire il tormentato percorso esistenziale senza cadere nella disperazione. Grazie a questo volume, Moretti diverrà il poeta crepuscolare per eccellenza, avendo rielaborato in modo sintetico e ineccepibile, i temi dei poeti - sodali o amici - che lo avevano preceduto: Govoni, Corazzini e Gozzano.

Dopo l'edizione del 1910, a quanto ne so, è stata pubblicata solamente un'altra che si può definire perfettamente fedele all'originale; da essa, ho estratto due tra le poesie più ricordate e più antologizzate del poeta romagnolo.

 

 


 

CHE VALE?

 

Chinar la testa che vale,

che vale fissare il sole

e unir parole a parole

se la vita è sempre uguale?

 

Si discorre d'avvenire?

Si rammemora il passato?

Chi è vivo deve morire,

chi è morto è bell'e spacciato!

 

Poeti, dolci fratelli,

perché far tanto susurro

se un lembo di cielo è azzurro,

se son biondi dei capelli?

 

Un po' d'azzurro (che vale?)

ed un po' d'oro, un riflesso

d'oro... Ma il mondo è lo stesso,

ma la vita è sempre uguale!

 

Non c'è né duolo, né gioia,

non c'è né odio, né amore:

nulla! Non c'è che un colore:

il grigio, e un tarlo: la noia.

 

Chinar la testa che vale?

Che vale fissare il sole?

Ciò che vorresti non vuole

quei ch'è più forte, o mortale!

 

Non c'è né duolo, né gioia,

non ci son luci, né ombre:

il grigio, il grigio che incombe

sui cuori, e il tarlo: la noia!

 

Questa è la strada del bene,

questa è la strada del male:

star troppo a sceglier che vale?

Peuh! Quella che viene, viene!

 

(da "Poesie scritte col lapis", Palomar, Bari 1992, pp. 20-21)

 

 

 

 

LA DOMENICA

 

Chinar la testa che vale?

E che vai nova fermezza?

Io sento in me la stanchezza

del giorno domenicale;

 

del giorno in cui non si fa nulla

fuorché il triste cuore sperso,

e in cima alla mente un verso

troppo noto che ci culla;

 

del giorno in cui, spento ogni

rumore, la casa è vuota,

in cui la pupilla immota

non intravede più sogni.

 

Chinar la testa che vale?

Vive meglio col suo niente

il buon uomo che si sente

di non poter fare il male,

 

e non sente l'infinita

ampiezza dell'irreale,

e vive senza ideale

come un servo della vita!

 

La suora che nel convento

perdoni e salvezze implora

pensa alla vita d'allora

con improvviso sgomento;

 

la madre che à lungi il figlio

e che non sa dove sia,

pensa ch'ei sia su la via

del male, senza giaciglio;

 

l'amante, pieno di ardore,

che attese presso una chiesa

si logorò nell'attesa

tutto il suo giovane cuore,

 

ma il malato, a cui concesso

fu di stare nel cortile,

sente che l'autunno è aprile,

si consola da sé stesso;

 

il malato a cui è tanto

caro l'umile fil d'erba

ed a cui l'autunno serba

un primaverile incanto,

 

una dolcezza novella

fatta di gialle corolle,

una soavità molle,

un'indistinta favella!...

 

Chinar la testa che vale?

e che vai nova fermezza?

Io sento in me la tristezza

del giorno domenicale,

 

che declina in un vapore

grigio nella lontananza

senza che alcuna speranza

doni al mio povero cuore.

 

(da "Poesie scritte col lapis", Palomar, Bari 1992, pp. 47-49)