domenica 22 ottobre 2023

La poesia di Marino Moretti

 

La storia poetica di Marino Moretti (Cesenatico 1885 – ivi 1979) possiede delle caratteristiche tali da farla somigliare moltissimo a quella dell’amico e coetaneo Aldo Palazzeschi (1885-1974): entrambi, infatti, iniziarono a scrivere versi che erano giovanissimi, ed entrambi abbandonarono temporaneamente la poesia intorno ai trent’anni, per dedicarsi completamente alla prosa. Sia Moretti che Palazzeschi, tornarono a scrivere dei versi in età senile, ovvero quando decisero di chiudere con la prosa (che pure aveva dato ai due soddisfazioni enormi di critica e di pubblico). Ma bisogna distinguere le due fasi poetiche dello scrittore cesenaticense: la prima, che va dal debutto a soli diciotto anni, alla raccolta Il giardino dei frutti, pubblicata nel 1916, è di gran lunga più importante della seconda, e va inserita all’interno della migliore poesia “crepuscolare”. In particolare, la raccolta Poesie scritte col lapis, del 1910, rappresenta una svolta decisiva per Moretti, che con questi versi diventa il massimo rappresentante di quelle atmosfere malinconiche, quei luoghi chiusi e squallidi e quei personaggi dimessi, tipici del crepuscolarismo; se è vero che, per alcuni caratteristici tratti, da questo punto di vista Moretti era stato anticipato da Corrado Govoni e Sergio Corazzini, non ci sono dubbi che sia lui a versificare in modo ineccepibile i pensieri, le situazioni e le vicende personali più identificabili nella poesia crepuscolare. Ecco a tal proposito, cosa scrisse Antonio Quatela nel suo volume intitolato Invito a conoscere il Crepuscolarismo:

 

[…] anche Moretti fa uso abbondante del campionario tematico crepuscolare, dai luoghi (la provincia sonnacchiosa, lo spleen della domenica, gli interni squallidi, i cortili e i giardinetti tristi, una atmosfera domestica ed ancillare depressa), ai colori (il grigio dominante, i toni smorzati), agli stati d’animo (l’ossessione minimalista, la mediocrità ostentata, la tristezza, la malinconia, la dolorosa nostalgia).

 Ed anche lui, come tutti i poeti crepuscolari, evidenzia un netto rifiuto per determinati aspetti tipici della poesia di D’Annunzio, mostrando invece simpatia per il Pascoli e per i poeti franco-belgi del tardo simbolismo (Maeterlinck, Lafourge, Rodenbach e Jammes).¹

 

La seconda fase poetica di Moretti, sebbene sia stata pubblicata quando lo scrittore romagnolo aveva superato già gli ottant’anni, iniziò ben prima, ed ha delle peculiarità differenti solo in parte rispetto alla prima, come afferma Geno Pampaloni nell’introduzione al volume che, nel 1966, raccoglieva tutta la produzione poetica di Moretti, comprendente la sezione finale, intitolata Diario senza le date, che, sebbene parzialmente, rappresenta proprio questa fase; eccone, a tal proposito, un frammento:

 

[…] Si direbbe che ora il poeta cerchi una nuova, più virile definizione di se stesso: e cozzi contro un’ultima impotenza, contro una incapacità senza rimedio a staccarsi del tutto dalle sue morbide ambivalenze. La sua poesia è sempre sull’orlo della resa, sul filo di una definitiva rinuncia: e sempre sollecitata a esprimersi, a rigerminare in parole un sentimento irrinunciabile.²

 

Complessivamente, l’opera poetica di Moretti è stata ed è ritenuta tra le migliori del Novecento italiano; sta a dimostrare questa affermazione, il fatto inconfutabile che il suo nome figuri in tutte o quasi le antologie più rilevanti della poesia italiana del XX secolo. Per quanto riguarda poi il crepuscolarismo, il poeta romagnolo ne è senz’altro, insieme a Gozzano, Corazzini e Govoni, uno dei massimi esponenti. Ecco infine, dopo l’elenco delle opera in versi, quattro poesie di Moretti: le prime due rappresentano la fase giovanile, mentre le ultime fanno parte del periodo della vecchiaia.

 

 


 

 

Opere poetiche

 

“L'autunno della vergine”, Ducci, Firenze 1903.

“Il poema di un'armonia”, Ducci, Firenze 1903.

“La sorgente della pace”, Ducci, Firenze 1903.

“Fraternità”, Sandron, Palermo 1905.

“La serenata delle zanzare”, Streglio, Torino 1908.

“Poesie scritte col lapis”, Ricciardi, Napoli 1910.

“Poesie di tutti i giorni”,  Ricciardi, Napoli 1911.

“Poemetti di Marino”, Tipografia Editrice Nazionale, Roma 1913.

“Il giardino dei frutti”, Ricciardi, Napoli 1916.

“Poesie (1905-1914)”, Treves, Milano 1919.

“Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 1966.

“L’ultima estate (1965-1968)”, Mondadori, Milano 1969.

“Tre anni e un giorno (1967-1969)”, Mondadori, Milano 1971.

“Le poverazze (1968-1972)”, Mondadori, Milano 1973.

“Diario senza le date”, Mondadori, Milano 1974.

“In verso e in prosa”, Mondadori, Milano 1979 (1987²).

 

 

 

 

Testi

 

 

NESSUNO T'ASCOLTA

 

Piangi? Nessuno t'ascolta.

E chi dovrebbe, se mai?

Chi guarda i vecchi rosai

quando han fiorito una volta?

 

Chiedi pure lungo il giorno

un bicchier d'acqua, un tozzo

di pane: va', cerca un pozzo,

va', cerca l'uscio d'un forno.

 

Hai tu molta sete, hai tu molta

fame? Vuoi acqua, pan bruno?

Qua non t'ascolta nessuno,

più giù nessuno t'ascolta.

 

O nulla vuoi? Vuoi soltanto

parlare d'una tua pena

che t'apra a un tratto la vena

più salutare del pianto?

 

A chi? Nessuno t'ascolta

se parli d'anni e di guai.

Chi guarda i vecchi rosai

quando han fiorito una volta?

 

«Buon giorno, qual è la via

che conduce nella valle?»

Ma l'uomo ha alzato le spalle

continuando la sua via.

 

Ecco. Nessuno t'ascolta.

E chi dovrebbe, se mai?

L'ultima rosa da assai

tempo, o straniero, fu colta.

 

(da Poesie scritte col lapis, Mondadori, Milano 1970, pp. 25-26)

 


 

 

DAL BARBIERE

 

Chi mi darà le piccole mezz'ore

buttate via così tacitamente

nella bottega lustra e risplendente

come una giostra del barbitonsore?

 

Tutti occupati avanti le specchiere

i seggioloni comodi e io mi metto

a seder sul divano e aspetto: aspetto

che sia libero un posto e un parrucchiere.

 

Si parla. Ascolto. Una cadenza austera

è in certe voci, un tono misurato.

E guardo. Guardo un volto insaponato

che mi sorride là dalla specchiera.

 

Un tale che ha già un mezzo volto raso

socchiude gli occhi dolci tratto tratto.

Un altro si rimira insoddisfatto

e attediato raggrinzando il naso.

 

Un terzo legge il foglio. E i parrucchieri

girano intorno al proprio paziente

parlando un po' di tutto blandamente,

a voce bassa, placidi e leggeri.

 

«Un fracasso le dico, un finimondo...»

«Giunse il marito in quel momento stesso...»

«Non c'è che dire, è stato un bel successo...»

«Parla bene, convince, però in fondo...»

 

               *

 

Dove son io? Perché son qui? Mi pare

che i miei sogni, il mio cuore

cadano coi i capelli del signore

là dirimpetto che si fa tosare;

 

ed è come se il mio stesso cervello,

i miei pensieri, tutto mi sia tolto

s'io guardo un gesto o una parola ascolto,

s'io vedo ancora l'ombra d'un capello.

 

Gli specchi alle pareti

mi sogghignano in faccia allegramente

il travaglio di tutta questa gente

che ha forse ancor dei sogni e dei segreti.

 

Perché son qui? che attendo?

perché rimango immoto

a guardar nello specchio un altro ignoto

(sei tu! non ti conosci?), un viso orrendo

che mi guarda impassibile, attendendo?

 

(son io col viso bianco e il cuore vuoto...)

 

(da Poesie scritte col lapis, Mondadori, Milano 1970, pp. 127-128)

 

 

 

 

L'ASSENZA

 

Estroso, un po' arrogante,

talvolta mi son detto:

«Se scrivi con diletto

non sei un dilettante?»

Sì, certo, un dilettante,

altro non sono. Voglio

restare col mio orgoglio,

più che estraneo, distante.

 

Scrivo per mio diletto,

scrivo come per gioco

e m'importa ben poco

se sono o non son letto.

Eccomi acre, imprudente

come quando ero a scuola

e una sola parola

mi definiva: «Assente».

 

(da In verso e in prosa, Mondadori, Milano 1987, p. 63)

 

 

 

 

OGGI NON ESCO

 

Non c'è più passatempo

per me se il tempo passa.

Tempo della grancassa,

trame, insidie del tempo.

Questo poi che il destino

m'assegnò lo detesto.

E non l'accetto. Resto

solo in casa o in giardino.

 

Non esco perché sento

uno strano rumore

dentro di me. Un fruscìo

peggio, uno scricchiolìo

come d'ammonimento.

Indi quasi un fragore.

Una chiamata. È il mio

caro tempo che muore.

 

(da In verso e in prosa, Mondadori, Milano 1987, p. 81)

 

 

 

 

 

NOTE

 

1)     Da: Antonio Quatela, Invito a conoscere il Crepuscolarismo, Mursia, Milano 1988, p. 129.

2)     Dall’Introduzione di Geno Pampaloni al volume: Marino Moretti, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1966, p. XXIV.

 

domenica 15 ottobre 2023

"Ieri"

 

Ieri è il titolo di una poesia di Fernando Bandini (Vicenza 1931 – ivi 2013), che fa parte della raccolta Santi di Dicembre (Garzanti, Milano 1994); più precisamente, è la quarta poesia della settima ed ultima sezione intitolata Quello che resta dei tuoni.

Già dal titolo, s’intuisce che questi versi del poeta veneto parlano del passato; in particolare, parlano del popolo vicentino: le persone che vivevano nella sua città natale: Vicenza. Non viene precisato il periodo che più resta nel cuore di Bandini, perché partecipe e consapevole di un sentimento di fraternità ormai del tutto scomparso; probabilmente erano gli anni della sua adolescenza e della sua prima giovinezza, e potrebbero quindi coincidere con l’immediato secondo dopoguerra del XX secolo. Ma, a pochi anni dalla fine del Novecento, il poeta si rende ben conto che la sua città è completamente cambiata, e non trova più, tra la sua gente, quei buoni sentimenti che lo confortavano e lo inorgoglivano. Il presente, secondo Bandini, è caratterizzato da tutt’altri modi di agire e di pensare, direi opposti a quelli del passato; per rendere ancor più chiaro il suo pensiero, scrive il nome della città natale al contrario, come se la leggesse davanti ad uno specchio; quest’ultimo, simbolicamente, viene identificato come “stagno del cuore”.

 

 

 

 


 

 

 

IERI

 

Tutto adesso è passato.

Ma non ho visto mai simile urgenza

di baci, tanta ingordigia d'amore

come dentro i tuoi occhi, mia città.

Così violenta la felicità

da far mancare il fiato.

 

Eri ancora Vicenza,

non ti eri ancora capovolta (Aznèciv

ora il tuo nome a specchio dello stagno del cuore).

 

(da: Fernando Bandini, Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994, p. 113)

 

 

 

giovedì 12 ottobre 2023

Da "Ottobre a Venezia" di Diego Valeri

 Nella 1° edizione del volume Poesie vecchie e nuove (Mondadori, Milano 1932), il poeta Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), nella sezione intitolata Secondo Tempo (1920-1930) inserì sei liriche divise da un semplice asterisco, che portano il titolo complessivo di Ottobre a Venezia; tali poesie descrivono determinati punti della città lagunare in precisi periodi del giorno; sembrano brevi impressioni o a volte scatti fotografici, che si concentrano su degli aspetti assai affascinanti che ha Venezia in autunno, e in particolare durante il mese di ottobre. Tra le sei, io ho scelto di trascrivere la prima, tenendo in considerazione però, una successiva edizione del volume citato, di venti anni dopo. Queste tre quartine delineano Venezia come fosse un essere vivente; in una giornata nebbiosa d'inizio autunno, dove ovunque si guardi prevalgono le sfumature di grigio, si respira un'aria stanca, languida, quasi soffocante, dovuta alla presenza dello scirocco: vento caldo e fastidioso proveniente da sud-est. Venezia, in questo contesto stagionale, sembra una figura femminile esausta, senza forza alcuna, che ha soltanto voglia di dormire; e quando un raggio di sole riesce a penetrare chissà come la fitta nebbia, battendo insistentemente sul volto della città, essa ha l'identico atteggiamento che si riscontra in una gatta che sta dormendo, appena infastidita da un rumore o da una luce intensa: socchiude appena i suoi occhi, scruta nei pressi donde venga quel piccolo disturbo, e poi li richiude lentamente.






Da "OTTOBRE A VENEZIA"


Questi grigi di perla, e grigirosa,

e grigiverdi, in cui l'acqua ed il cielo

sembran vanire, come dietro un velo

d'eguale lontananza favolosa...


Giunge dal mare il fiato sonnolento

dello scirocco. Stancamente dondola

presso la riva l'ombra d'una gondola.

L'onda ha un singulto soffocato dentro.


Venezia giace languida e disfatta.

E se un raggio di sol, rompendo il folto

delle nebbie, le palpita sul volto,

socchiude appena i gialli occhi di gatta.

(da: Diego Valeri, "Poesie vecchie e nuove", Mondadori, Milano 1952, p. 104)

I gattini: qualche considerazione e una poesia di Claudio Damiani

 Come sono belli i cuccioli dei gatti! Non credo che vi siano, al mondo, animaletti della stessa età così deliziosi. Io ne ebbi soltanto uno, in tenera età, ben quaranta anni or sono; eppure lo ricordo ancora abbastanza bene: la sua illimitata voglia di giocare, il miagolio tenue e stridulo che emetteva, gli occhi di un azzurro intenso che mi guardavano curiosi... Altri gattini vidi chissà quante volte, in giro, per le strade della mia città; l'ultimo mi è successo di vederlo ieri sera: se ne stava lì, accucciato dietro una rete metallica che delimitava il giardino di una casa, timoroso, coi suoi piccoli occhi sempre pronti a scrutare un pericolo... Non c'era la mamma, che comunque non penso fosse lontana. Ecco, infine, una bella poesia che vede protagonista un gattino, scritta da Claudio Damiani. 



Il piccolo gattino, oh quanto è caro!

Lo bacio e bacio, lo stringo vicino

tanto, lo tengo, lo guardo star muto

sopra il ghiaino. I suoi moti veloci

quasi non so seguire, a ogni mio gioco

risponde. E intanto altri mille pensieri

veloci lo colpiscono: e gli studi

delle cose che vede (i fiori gli alberi

la macchina gl'insetti) o il bombo stupido

e nuovo d'una moto e le altre cose

della strada, i rumori. Io penso (mentre

lo guardo scuotersi dalla paura

del bombo): forse già impari che queste

non sono cose che devi temere

(infatti non son cani che ti vogliono

mangiare o mostri o che ne so) ma cose

che devi sopportare, e abituartici...


(da "La miniera", Fazi Editore, Roma 1997, p. 20)

mercoledì 11 ottobre 2023

Un frammento poetico di Riccardo Bacchelli

 La prolifica produzione letteraria di Riccardo Bacchelli (Bologna, 19 aprile 1891 – Monza, 8 ottobre 1985), ha fatto sì che venisse trascurata la parte poetica, che in effetti non è quantitativamente paragonabile ad altri generi cui lo scrittore bolognese si dedicò più assiduamente. Eppure anch'essa ha un valore non trascurabile, soprattutto se si va ad analizzare la sua raccolta d'esordio: Poemi lirici (1914). Questo fu anche il primo libro in assoluto pubblicato da Bacchelli, che si dimostrò fortemente innovativo nel comporre versi i quali, almeno nel periodo in cui videro la luce, non possono essere comparati con altri. Se c'è un poeta da cui forse Bacchelli attinse, almeno per quel che concerne lo stile e la metrica, questi è l'americano Walt Withman (1819-1892); somiglianze parziali si riscontrano anche con i versi di Poema dell'adolescenza (1901) del piemontese Enrico Thovez (1869-1925); meno azzeccate, a mio avviso, sono le affermazioni di alcuni critici che trovano diverse analogie con la poesia del più o meno coetaneo Piero Jahier (1884-1966). Difficile comprendere il motivo per cui Bacchelli, quando ottantenne decise di radunare in tre volumi la sua intera opera in versi, ripudiò i Poemi lirici.

Da un volume: Memorie del tempo presente (Rizzoli, Milano 1953), che invece include i Poemi lirici e che voleva essere il primo tassello di una "Opera omnia" che, a quanto ne so, non fu mai portata a termine dallo scrittore emiliano, ho trascritto la prima parte della prima poesia inserita nella sezione intitolata Paesaggi. (la seconda parte parla di un momento e di una stagione differenti). Il poeta, condotto dalla "fantasia", in una giornata soleggiata d'ottobre s'incammina lungo le strade lunghe e diritte del Bolognese, e osserva il paesaggio circostante che, nella campagna autunnale, pullula di vita e di sensazioni forti. Il poeta è visivamente attirato da tutto ciò che lo circonda: le case con le persiane verdi, il fiume Reno che scende dai monti per allargarsi nella pianura adiacente, gli alberi dei frutteti che, pur perdendo le foglie, possiedono dei colori bellissimi, le terre che sembrano riposarsi al sole. Ma anche il senso dell'olfatto trova soddisfazione, nel sentire il forte odore del vino fermentato nelle cantine situate nei pressi della strada. C'è anche qualche presenza umana: un contadino che va a controllare se "il fosso non scola", ovvero se l'acqua piovana - in genere abbondante nel periodo autunnale - non venga correttamente drenata. Poi le ultime considerazioni sul momento stagionale, che grazie alla presenza temporanea del sole, vive una pausa, una parentesi di tranquillità; di tale situazione favorevole godono le terre, gli uomini e i paesi fortunati che si trovano nelle adiacenze del Reno. Non altrettanto gli uccelli, che stanno lì soltanto di passaggio, e sono già pronti per ripartire verso altre mete.





 PAESAGGI


1.

Improvvisa, la fantasia m'ha condotto per le strade

rettilinee del Bolognese, bordate di rami

freddolosi, toccati dall'ottobre , con prospettive

di persiane verdi allineate sulle facciate.

Il Reno si stacca dai monti con incantevoli

indugi e prende spazio in pianura, alberi

e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,

riposano al sole le terre. È il tempo

adesso che le cantine odorano di fermentazione

e il contadino esce senz'arnesi a guardare

forse se qualche fosso non scola. Le terre,

gli uomini il paese fortunato nelle adiacenze

del fiume; godono questo sole breve.

Gli uccelli son di passo.


[...]


(da: Riccardo Bacchelli, "Memorie del tempo presente", Rizzoli, Milano 1953, p. 19)

martedì 10 ottobre 2023

"Lettera scritta di sera"

 Malgrado il suo nome non compaia praticamente mai nelle antologie più o meno note, Francesco Tentori (Roma, 18 marzo 1924 – Roma, 15 marzo 1995)  è stato un ottimo poeta italiano del XX secolo. Autore di una decina di raccolte di versi, che si dipanano lungo l'intera seconda metà del Novecento (la prima, I destini, è del 1949 e l'ultima, Migrazioni è del 1997), Tentori è stato maggiormente valutato nella sua attività di traduttore (che io in verità conosco pochissimo). I suoi versi migliori, a mio parere, si trovano nelle raccolte pubblicate negli anni '60 del XX secolo: Lettere a Vilna (1960), Nulla è reale (1964) e Lo stormire notturno (1968). Dal primo volume che ho citato, ho trascritto la bellissima Lettera scritta di sera. È la prima poesia della sezione che ha lo stesso titolo della raccolta. Tutte le sette poesie di questa sezione sono, in sostanza, delle epistole in versi dirette a Vilna: la donna con cui, in quel preciso periodo (1954-1957), il poeta aveva una relazione amorosa. I due versi iniziali, oltre ad evidenziare la lontananza dei due innamorati, fanno percepire la solitudine del poeta, che si trova, di sera, in una città in cui ha vissuto dei momenti felici con Vilna; per consolarsi pensa a lei, e con la fantasia riesce a vederla, malgrado la sua assenza. Seguono nove versi in cui il poeta descrive il paesaggio che vede intorno a lui, caratterizzato da alberi già quasi del tutto spogli, da uccelli autunnali che volano di ramo in ramo, da fioche luci e da un silenzio tremendo: tutti elementi che acuiscono la malinconia di chi soffre fortemente l'assenza della donna. Il poeta non riesce a superare questo momento difficile, e allora vaga per la casa deserta, cercando di fare qualcosa per distrarsi; ma ogni oggetto caro, e perfino gli amati libri, non riescono a farlo allontanare dal pensiero di lei. Unica consolazione è per lui scrivere una lettera alla sua donna, chiedendogli se il luogo in cui si trova ora ha le stesse peculiarità della città in cui vive l'uomo; in realtà sa bene che non è così, perché Vilna ora risiede in una località balneare, contraddistinta da un clima più mite, ventoso, da odori e suoni differenti. Infine il poeta si domanda se anche a lei, di notte mentre dorme, appaiono "figure amorose"; se, insomma, il poeta è ancora presente nei suoi sogni. Nei due versi finali c'è un'amara affermazione relativa all'impossibilità di potersi amare come si vorrebbe, quando si è così lontani l'uno dall'altra. Lettera scritta di sera fu inserita dal Tentori anche nella raccolta Migrazioni (Passigli, Firenze 1997, p. 18) in una versione diversa rispetto all'originale, che invece ritengo sia la migliore.





LETTERA SCRITTA DI SERA


La tua immagine mi visita di sera

in questa città che conosci.

È una sera già quasi autunnale

con autunnali uccelli per il cielo

già vuoto, già spogliato delle foglie

ed una luce scarna, melanconica

come un velo tra il mondo e noi.

Non s'odono campane e anche gli uccelli

volano silenziosi. Che fare

in una sera così sola, assorta

e turbata? Noi siamo lontani.


Ho vagato per la casa deserta,

per le stanze così grandi nel buio,

coi corpi degli oggetti familiari

abbandonati dal giorno sulla riva.

Esita l'ora, incerta. Anche i libri

giacciono inanimati e non sprigionano

il richiamo sottile. Vaghe ombre

attraversano l'aria e giunte al muro

tastano inquiete, sospirando. Che fare:

scrutare ancora gli avidi fantasmi?

No. Ti scrivo: Poiché siamo lontani.


Non è la stessa luce, la stessa stagione

quella che tu respiri e che ti porta

l'odore e il suono del mare

presso il cespuglio di ginestre? Ma il cielo

sarà più umano, più vicino e un vento

errerà sulla sabbia suscitando

nella notte figure amorose 

che ti accarezzano nel sonno. Sogni

di me forse, mi chiami? Ma che fare:

la distanza delude il desiderio.

Amore incalza; ma siamo lontani.


(da "Lettere a Vilna", Vallecchi, Firenze, pp. 11-12)


lunedì 9 ottobre 2023

"Autunno": una poesia sconosciuta di Umberto Saba

 Tra le poesie italiane del XX secolo dedicate alla stagione autunnale che più facilmente si ricordano, ve ne sono almeno due: Autunno di Vincenzo Cardarelli (1887-1959) e Già la pioggia è con noi di Salvatore Quasimodo (1901-1968); entrambe è possibile leggerle in numerosissime antologie scolastiche e non. Eppure c'è un'altra poesia, altrettanto bella, che fu scritta da Umberto Saba (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), ma che, complice anche l'autore, è scarsamente conosciuta dai lettori di versi. Questa poesia, che s'intitola Autunno, si trova all'interno del volume Tutte le poesie, pubblicato nei Meridiani della Mondadori di Milano a partire dal 1988. Fu pubblicata per la prima (ed ultima) volta nelle pagine della raccolta Ammonizione e altre poesie (Trieste 1933); con questo libro, che raccoglieva gran parte delle poesie giovanili di Saba, antecedenti Trieste e una donna (sezione che si trova in Coi miei occhi, raccolta uscita nel 1912), voleva essere, secondo il progetto dell'autore, il primo di una serie che potesse contenere tutte le sue poesie scritte fino a quel momento. Lo scarso successo di vendite del libro, lo indusse a non proseguire le pubblicazioni, poiché questi volumi venivano stampati dalla libreria di Saba, che, non riuscendo ad ottenere incassi adeguati, non avrebbe potuto coprire le spese. 

Passando ora alla poesia e partendo  dall'epigrafe, si evince che il poeta, nell'autunno del 1906 e, quindi, nel momento in cui scriveva questi versi, si trovava a Firenze. Nella prima parte, molto profonda, dopo una brevissima descrizione di un paesaggio piovoso, che simboleggia un drastico cambiamento in peggio di una situazione favorevole, si possono individuare almeno due metafore: la "pioggia-pianto" e "l'estate-gioia"; se ne potrebbe immaginare una terza: il "sole-sorriso", ma il sole non viene mai nominato. Ovviamente si riscontra che, secondo Saba, l'estate rappresenta qualcosa di positivo e, al contrario, l'autunno ha il significato opposto. Nella seconda parte della lirica, ci sono dei versi virgolettati che si protraggono anche nell'inizio della terza parte. È come se il poeta parlasse a sé stesso, chiedendogli in sostanza il motivo per cui ha perso, lungo il percorso della vita, tutte le cose più belle (anche le pene - forse d'amore - appartengono a questa categoria). Poi, appare la visione della sua "città dalle lunghe erte": Trieste, e all'orizzonte gli sembra di vedere il mare circostante il capoluogo friulano, ma in realtà si tratta soltanto delle lacrime a stento trattenute dal poeta, che alla vista gli dànno l'effetto di una distesa d'acqua. Più oscuro è, almeno per me, l'inizio della terza parte della poesia, in cui Saba, proseguendo il colloquio con sé stesso, ipotizza un arrivo inatteso (forse del suo felice passato?). La conclusione della poesia è bellissima: dopo aver ripetuto il concetto espresso nel 2° e nel 3° verso, il poeta triestino enumera una serie di categorie umane che vivono situazioni difficili o avverse - "soli nel mondo", "prigionieri", "marinai nostalgici" - per ricordarli in un momento di estrema malinconia autunnale.   





AUTUNNO

                                                                                        (Firenze, 1906)


Piove sui campi e i colli. Era l'estate

ieri, la bella e grande estate. Ed ecco:

ha mutato stagione all'improvviso.

È pianto quel che fu ieri sorriso

del mondo. In cielo ininterrotte lente

vanno le nubi, dicono: l'estate,

una gioia è finita.


«Dove andò la tua vita,

con tutte le sue pene,

con la grazia arridente,

con le ore serene?

Antichissima oscura

la città dalle lunghe erte ti appare.

All'orizzonte un mare

trema d'acque, o ti trema agli occhi il pianto?


S'io giungessi, se accanto

io ti giungessi, non più atteso!» Ieri

era la bella estate, oggi diversa

delle cose è l'immagine. E i pensieri

vanno ai soli nel mondo, ai prigionieri,

ai marinai nostalgici, all'avversa

fortuna. È autunno. E il cor pure lo sente.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 771)