giovedì 25 aprile 2019

Le drammatiche conseguenze di una guerra devastante in due poesie


Quest'anno voglio ricordare l'anniversario della Liberazione con due poesie attinenti alle devastazioni e ai lutti causati dalla Seconda Guerra Mondiale. Entrambe furono scritte nell'immediato dopoguerra, quando ancora erano fresche e molto dolenti le tremende ferite causate da un evento bellico senza pari per ferocia e per accanimento. La prima, che è di Gaetano Arcangeli (Bologna 1910 - ivi 1970), fa parte del volume Solo se ombra e altre poesie (Mondadori, Milano 1954); io in realtà l'ho estratta da una ristampa del citato volume, pubblicata da Scheiwiller in Milano, nell'anno 1995. I versi aprono la seconda sezione della raccolta, e portano il titolo della stessa, che però ha anche, tra parentesi, gli anni limite in cui queste poesie furono scritte: 1945-1947. Il poeta guarda le rovine causate dai bombardamenti della recente guerra, e si lascia andare a considerazioni che includono i rimorsi per una tragedia forse evitabile e la pietà per tutto ciò che si è perso lungo i devastanti cinque anni del conflitto. Nella seconda parte del componimento poetico, Arcangeli pone l'accento sull'infinita vita che continua, malgrado tutto. Là dove il vortice di odio aveva distrutto e annientato qualsiasi cosa o persona, ecco che compaiono già i primi segni di una rinascita: le prime erbe che affiorano dalle rovine, così come le persone che lentamente tornano a ricostruire ciò che è stato raso al suolo, sono segnali evidenti della voglia di ricominciare a vivere, pacificamente e dolcemente, magari cercando di dimenticare nel più breve tempo possibile gli incalcolabili dolori causati da una inopinata guerra.
La seconda poesia è di Elda Bossi (Firenze 1901 - ivi 1996), una scrittrice che, forse, oggi è stata un po' messa da parte, malgrado sia autrice di buoni romanzi e di interessanti raccolte poetiche, tra le quali A lume di candela (Vallecchi, Firenze 1965), in cui si nota una fitta presenza di versi dedicati alla Seconda Guerra Mondiale, basati sulle esperienze personali della poetessa, che fa divenire l'intero libro, come una sorta di diario in versi, a voler rimarcare in modo inequivocabile tutte le sofferenze, gli stupori e le meditazioni scaturite da quei terribili anni. La poesia che ho selezionato, come quella di Arcangeli parla di rovine in cui si rintracciano i primi segni di una rinascita naturale, rappresentata dall'erba, che di nuovo verdeggia sul cemento, nel periodo in cui sta per terminare la prima estate del dopoguerra. La poetessa, mentre si aggira nei pressi di questo paesaggio ancora così fresco di distruzione, nota la costante presenza di una donna, la quale continua a parlargli di un tragico evento accaduto a seguito di un bombardamento: la morte di una bambina sotto le macerie di una casa crollata; la donna insiste nell'affermare che questa bambina (forse sua figlia) è ancora lì sotto; a questa disgrazia non sa rassegnarsi, e cerca almeno una parola di conforto da chi incontra, per attutire il fortissimo dolore, e per poter pensare che per lo meno, prima di morire, la piccola non abbia troppo sofferto. Anche in questa lirica, emerge una voglia di ricominciare da parte dei sopravvissuti, e ciò è ben esemplificato dagli ultimi due versi, riferiti ad una attività commerciale presente in un edificio risparmiato dalle bombe, che, finalmente, ha la possibilità di riaprire.   


FRA ROVINE IMPLORANTI
di Gaetano Arcangeli

Fra rovine imploranti, che sommuove
non so se questa mia pietà che pronta
su di esse si china a un suo soccorso,
o il rimorso implacato della guerra,
la vita affiora in stupite radici,
in una esitazione di erbe nuove;

e dove d'ira vortice più offese,
in premuroso vortice or delira,
impaziente reduce, un amore
che qui abitò; e qui, mentre si aggira,
riedifica ore, gesti, attese
dolci, di un infinito mite vivere...

[da "Solo se ombra (1941-1953)", Scheiwiller, Milano 1995, p. 27]





PRIME MACERIE
di Elda Bossi

Sulle prime macerie
riverzica l'erba
all'acqua di settembre.

Coi piedi nel fango
una donna ferma per ore.
Ogni giorno la ritrovo.
«C'è una bimba - mi dice -
una bimba,
c'è una bimba là sotto.
Crede che sarà morta
di colpo?»

Hanno riaperto
il bar sull'angolo.

(da "A lume di candela", Vallecchi, Firenze 1965, p. 18)




domenica 21 aprile 2019

La Pasqua della Grande Guerra nei versi di due poeti-soldati


 Nella ricorrenza della Santa Pasqua, ecco due poesie scritte durante la Prima Guerra Mondiale da due poeti italiani che si trovavano al fronte e che, praticamente ogni giorno, rischiavano di perdere la vita e soffrivano sia le privazioni che i dolori fisici e morali di un evento bellico non paragonabile a nessun'altro nella storia dell'umanità. Gli autori di questi versi non sono molto noti; se qualcuno ancora si ricorda di Angelo Barile (Albissola Marina 1888 - Albisola Capo 1967) - scrittore ligure che fu accomunato al fare poetico di altri conterranei, certamente più celebri di lui, quali furono Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro - probabilmente nessuno, o quasi, è in grado di ricordare l'emiliano Ferdinando Bernini (San Secondo Parmense 1891 - Bologna 1954): intellettuale che, se non come poeta, è stato celebrato in quanto politico (anche se la sua principale professione fu quella d'insegnante).
La poesia di Barile è, sostanzialmente, - come si evince dalla dedica - un invito alla pace indirizzato ad un suo commilitone. Vengono infatti menzionati una serie di elementi atti a rievocare i periodi spensierati e felici che furono vissuti da entrambi i soldati, in tempi di pace. In particolar modo Barile si sofferma nel rimembrare il tempo della Pasqua della sua infanzia felice, con tutte le piacevoli sensazioni e le emozioni che scaturivano dalla vita da lui vissuta nella terra natale: quella regione ligure così attraente e ricca di bellezza da far sì che chiunque abbia trascorso un periodo di tempo in quel paradiso, ne abbia un ricordo indelebile; altresì, lo scrittore albisolese pone in risalto gli affetti familiari, che, in quanto lontani dal terribile fronte di guerra, provocano nei combattenti una sofferenza atroce; ma grazie al ricordo di essi, e alla speranza di ritrovarli alla fine del conflitto, il poeta si augura di trovare la forza di andare avanti, e prega affinché la guerra possa finire in breve tempo.
Nei versi di Bernini, tratti da una rivista locale del dopoguerra, emerge in modo netto quel tormento tutto morale dovuto alle privazioni e alla lontananza dagli affetti, che la guerra ha causato in un giovane soldato quale fu lo scrittore emiliano. Ed ecco, in questi momenti così duri, l'affiorare dei migliori ricordi delle Pasque vissute al tempo della puerizia, con l'immancabile presenza della madre che il ragazzo ha rivisto da poco, grazie ad una breve licenza concessagli dai suoi superiori, e che ha avuto il tempo di rammendargli amorevolmente l'abito da battaglia che ora indossa sempre, perfino quando dorme su un letto improvvisato fatto di paglia.





PASQUA AL FRONTE
di Angelo Barile
                                                               Al capitano Enrico Fabi

Queste foglie d'ulivo benedette,
amico, accetta, è il mio pasquale dono.
Senti, sì dolci al nostro cuor non sono
le violette.

È il caro ulivo della mia riviera!
Nato a specchio dell'onda più turchina
ha il verde-argento della mia collina
sul mar leggera.

Ben so che la tua anima pugnace
al duro gioco della guerra è avvezza,
ma non ti spiacerà questa carezza
mite, di pace,

che ti riporta, amico, le lontane
pasque fulgenti della puerizia
e nei sabati santi, la letizia
delle campane.

Ne arriva un'eco, per l'intime strade,
che vince il rombo del cannone, e tu
vedi il paese, senti che laggiù
prega tua madre,

senti la tua fanciulla che ti chiama...
Se oggi almeno - sarebbe così bello -
giungesse per la mensa dell'agnello
quegli che l'ama!

I suoi occhi hanno lacrime e baleni.
Ti aspetta. Certo a tavola ti ha messo
il posto allato a sé, guardando spesso
se tu non vieni.

Verrà verrà, non piangere, vedrai...
Ti recherà l'illesa giovinezza
cinta di luce e allor sì piangerai
ma di dolcezza.

Pasqua di pace, nostra Pasqua santa,
ch'io tornerò agli ulivi del mio lido,
tu a quello che nel cuore già ti canta
trepido nido.

Kambresco (Isonzo), Pasqua 1916

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986)





PASQUA IN TRINCEA
di Ferdinando Bernini

Non una madre a noi con braccia alacri
aperse la finestra al nuovo sole,
nessuno aggiunse a tepidi lavacri
odor di viole.

Non c'è per noi nel vecchio canterale
tra nafta e alloro l'abito di festa,
nessuna donna al riso mattinale
per noi s'è desta.

Un abito pareggia ed accomuna
i figli della terra multiforme,
nella vicenda varia di fortuna
con noi s'addorme

l'abito grigioverde sulla paglia:
nella licenza lo mendò con cura
la madre: l'abito tuo di battaglia,
di sepoltura.

(da «Aurea Parma», maggio-giugno 1920)

domenica 14 aprile 2019

Il mare nella poesia italiana decadente e simbolista


Mi sembra opportuno iniziare parlando dell'inquietante e affascinante serie dei mari descritta da Palazzeschi nella sezione Marine della raccolta Poemi; le quattro poesie, dai connotati fortemente simbolici, parlano di acque all'apparenza colorate - e ogni colore ha un significato preciso - quasi tutte popolate da esseri umani o animali (fa eccezione il Mar grigio); anche le forme di questi mari misteriosi, soltanto in due casi ben delineate, hanno uno specifico significato che il lettore può tentar di scoprire, ma che l'autore dei versi non chiarisce. Passando alle altre poesie, non sono pochi i versi che pongono il mare quale emblema di morte o di sciagura; per esempio Oxilia, guardando il mare da una spiaggia durante una giornata ventosa, si lascia andare a una serie di immagini tetre, sinistre e presaghe di morte: Ciuffi di paglia, foglie morte, alighe verdi, / si cullano nel vasto ondeggiamento bieco. / [...] Canta il male il suo carme bianco alle nubi ignave, / sibila, striscia, snodasi l'onda e addita il cammino. / / Canta il male anche in me. Sotto lo squallido cielo / il mio stendardo fluttua nella fatale via. Baccelli, addirittura, immagina la morte del mare: Dal freddo cristallo de l'onde / Nel limpido lume di gelo, / Che sta senza raggi nel cielo, / Il vivido Genio del mare, / Che giovane eterno fu detto, / Spirò come un'anima umana. / Or sola nei liquidi abissi / La Morte è sovrana. Ma anche Giribaldi e Valeri descrivono le acque marine in modo negativo: durante la notte, sentono entrambi scaturire dalle onde un pianto misterioso, e il primo dei due, successivamente si trova davanti una scena terrificante: [...] Ma queste lùgubri fanfare / su ne' boschi di olivi? E un grido ed una / minaccia! E il mar di latte! Non v'è alcuna / pietà. Su l'acque navigano bare. Similmente, il Pascoli, guardando il mare in una serena giornata estiva, dapprima scorge la rasserenante forma di un tempio bianco, poi, quest'ultimo scompare, e al suo posto ecco apparire due barche nere, somiglianti a due bare: Due barche stanno immobilmente nere, / due barche in panna in mezzo all’infinito. / / E le due barche sembrano due bare / smarrite in mezzo all’infinito mare. Anche Gigli, tratteggiando un paesaggio marino immobile e rattratto, osserva un barca nera che si allontana fino a scomparire. Sempre in un ambito negativo, s'inseriscono i versi del Graf, che immagina la propria anima come un mare / Vasto, profondo, senza suon, senz’ira; / Si stende il flutto quanto l’occhio gira, / Né terra alcuna all’orizzonte appare. E l'abisso di questo mare interiore nasconde un "perduto mondo" fatto di Città sommerse, inabissate prore, / Inutili tesor buttati al fondo, / Tutta una infinità di cose morte. Anche Foà parla di un Mare interiore che ogni essere umano possiede: un fremente mare / senza pace, con neri / abissi turbinosi.
Sull'altro versante, poeti come Anile e Varaldo, pongono in risalto la bellezza del mare guardato con estasiati occhi, durante una notte estiva e serena, con le stelle che si riflettono sulla sua superficie, creando un'immagine incantata, fuori del mondo:  Dagli abissi del cielo a quei del mare / un'immensa armonia sale e discende, / un'armonia di note luminose. / / Nell'alta notte appena uno sciamare / dolcissimo di sogni l'aria fende; / ed attonite ascoltano le cose (Anile). Passando al giorno, e prendendo in esame i versi di Giovanni Cena, in un'atmosfera e in un clima ultraterreno, si assiste ad una miracolosa apparizione: Vagano lungo i lucidi lavacri / grandi e misteriosi esseri alati: / vaporan l'acque nebulosi veli. / / Levansi da la terra simulacri / diafani pei cieli immacolati, / feminei visi su viventi steli. Paesaggi marini incantati sono decritti anche dal D'Annunzio e dalla Giaconi. Nel sonetto intitolato Tentazione, di Francesco Cazzamini Mussi, il mare, anche con il determinante contributo di esseri mitologici che lo popolano, diviene una sorta di calamita che attrae il povero poeta e lo trascina nelle profondità più recondite, dove troverà il sonno eterno. Infine, Luigi Gualdo, nella prima delle due poesie che portano il titolo di Marina, inizia parlando di una ingannevole e sinistra calma che regna nelle acque marine da lui osservate con estremo sospetto; infatti, questa piattezza è in realtà presaga di ben altri eventi, visto che in breve tempo sul mare si scatena una tempesta così terribile da sembrare una vera e propria battaglia.



Poesie sull'argomento

Antonino Anile: "Notte sul mare" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).
Alfredo Baccelli: "La morte del mare" in "Poesie" (1929).
Enrico Cavacchioli: "Sonetti del mare" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Tentazione" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Giovanni Cena: "Paesaggio" in "In umbra" (1899).
Ettore Cozzani: "Congedo" in "Poemetti notturni" (1920).
Girolamo Comi: "Cantico del Mare" in "Cantico dell'Argilla e del Sangue" (1933).
Gabriele D'Annunzio: "Romanza" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Arturo Foa: "Il mare interiore" in "Le vie dell'anima" (1912).
Luisa Giaconi: "Le visioni del mare" in «Il Marzocco», gennaio 1897.
Giulio Gianelli: "Notturno marino" in «Il Momento», dicembre 1910.
Giacomo Gigli: "Calma tragica" in "Maggiolata" (1904).
Cosimo Giorgieri Contri: "Sul mare" in "La donna del velo" (1905).
Alessandro Giribaldi: "Notturno" in "I Canti del Prigioniero" (1940).
Arturo Graf: "Marina" in "Medusa" (1990).
Luigi Gualdo: "Marina" (2 poesie) in "Le Nostalgie" (1883).
Tito Marrone: "Nostalgia del mare" in "Liriche" (1904).
Pietro Mastri: "Vele sospese" in "La Meridiana" (1920).
Nino Oxilia: "S'increspano l'acque del mare..." in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Mar Rosso", "Mar Giallo", "Mar Bianco" e "Mar Grigio" in "Poemi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Mare" e "Dalla spiaggia" in "Myricae" (1900).
Giacinto Ricci Signorini: "Sulla spiaggia di Rimini" in "Poesie e prose" (1903).
Guido Ruberti: "Marina" in "Le fiaccole" (1905).
Fausto Salvatori, "Serenata" in "In ombra d'amore" (1929).
Emanuele Sella: "Discors antiphona" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Alberto Tarchiani: "Alle fonti di un perenne desiderio" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Domenico Tumiati, "Portovenere" in "Liriche" (1937)
Diego Valeri: "Mare notturno" in "Ariele" (1924).
Alessandro Varaldo: "E sempre queto si distende il mare" in "Marine liguri" (1898).
Remigio Zena: "La barca" in "Le Pellegrine" (1894).



Testi

MARE NOTTURNO
di Diego Valeri

Sotto un sinistro albor di luna scema,
flutti senza splendore e senza canto
vengono a soffocar dentro la rena
uno smanioso bisogno di pianto.

Come nel sogno: è un pianto senza posa
che tenta - onda che viene, onda che va -
la riviera d'oblio silenziosa;
e il cuore che lo piange non lo sa.

(da "Ariele")




E SEMPRE QUETO SI DISTENDE IL MARE
di Alessandro Varlado

E sempre queto si distende il mare
ne la serena splendida nottata.
Sembra che il grande amor plenilunare
spieghi gl'incanti d'un'età fatata.

Non una nube minacciosa appare
a l'orizzonte e su la gran spianata
non una vela. Si distende il mare
tranquillo ne la splendida nottata.

E la goletta sta silenziosa
nel supremo silenzio e s'addormenta
sognando forse le marine lotte.

Né pure la canzone misteriosa
del marinaio vola lenta lenta
verso la patria ne la queta notte.

(da "Marine liguri")



Georges Lacombe, "La mer jaune"
(da questa pagina web)

domenica 7 aprile 2019

Nell'orto


Sotto la torre cadente, nitido
splendeva l'orto al sole;
tra l'erbe e l'umili piante domestiche
olezzavano all'ombra le viole,

nell'aria mite fresche olezzavano
dentro ai cespugli ascose;
rovi e stellate pervinche cerule
faceano siepe alle crescenti rose.

E la mia giovine madre, nel vespero
versava su gli steli
l'acqua, e benigni su lei versavano
la bionda luce del tramonto i cieli.

Acri del tenue fior di basilico
si diffondean gli aromi,
con lieve crepito qua e là sbocciavano
i bottoncini dei non nati pomi;

pendean le ciocche delle robinie
gravi di miele, e scosse
dal vespertino soffio di zeffiro
lucean precoci le ciliege rosse;

ad ora ad ora gli ultimi petali
sul capo dell'amata
innaffiatrice lenti cadevano
come fiocchi di neve immacolata.

Mia madre è morta... da un pezzo. Crebbero
gli arbusti in tronchi enormi.
Madre, da tanto tempo si chiusero
gli occhi tuoi buoni e nella tomba dormi.

Ed io ti vedo sempre, nel vespero,
chinata su gli steli
Versar nell'orto l'acqua, e a te versano,
madre, la luce del tramonto i cieli.



Questa poesia di Costantino Nigra (Villa Castelnuovo 1928 - Rapallo 1907) mi sta particolarmente a cuore, perché, in alcuni tratti, mi ricorda la mia mamma scomparsa da quasi tre anni. L'autore, è superfluo che io lo descriva, poiché è un celebre personaggio della nostra storia, in particolare di quella dell'Ottocento. Certamente Nigra è meno conosciuto come poeta; non scrisse molte poesie, e tutti i suoi versi sono stati raccolti in un libriccino pubblicato da Zanichelli nel 1961 (da questo ho estratto la poesia qui presente). Le cose migliori del diplomatico piemontese si possono rintracciare negli Idilli, usciti per la prima volta in un volumetto, nel 1893; anche Nell'orto fa parte di quest'ultimi. Le otto quartine parlano, con evidente nostalgia e con tangibile malinconia, del periodo in cui il poeta viveva insieme alla giovane madre, la quale amava dedicare un po' del suo tempo alle piante ed ai fiori, coltivando un orto situato al di sotto di una torre cadente, nei pressi della casa di residenza. Nigra descrive alcune delle piante presenti nell'orto: viole, pervinche, rovi, rose, fiori di basilico, robinie ecc. Quando, diversi anni or sono, anche mia madre si dedicava alla cura del nostro giardino, tutte queste piante, a parte le rose, non c'erano; ma ricordo le bellissime ortensie, i tagete, i ciclamini, le pansé, i gerani... Lei, come la madre di Nigra, le curava con amore, non facendogli mai mancare l'acqua e, se necessario, intervenendo con maestria per non farle soffrire. Ora, come il poeta, io me la immagino viva e ancor giovane, annaffiare le sue piante ed i suoi fiori in un tramonto estivo, mentre l'estrema luce del sole la illumina e la rende meravigliosa. 

domenica 31 marzo 2019

Antologie: Cento anni di poesia nella Svizzera italiana


È, questa antologia pubblicata dalla casa editrice Dadò a Locarno nel 1997, decisamente originale, occupandosi dei poeti svizzeri di lingua italiana. Di opere simili se ne trovano ben poche e, per quel che ne so, questa mi sembra la più riuscita; determinante per l'ottimo esito dell'antologia, sono i nomi dei curatori: Giovanni Bonalumi, Renato Martinoni e Pier Vincenzo Mengaldo (quest'ultimo lo si ricorda anche per aver curato l'ottima antologia Poeti italiani del Novecento): tre saggisti di ottimo livello, autori di altre opere di vario genere. L'arco temporale di cui si occupa l'opera antologica coincide, press'a poco, col ventesimo secolo. I poeti qui selezionati sono in tutto trenta, compresi i dialettali. C'è, ovviamente, Francesco Chiesa: il primo, grande autore di versi in lingua italiana che sia nato in Svizzera; presente in moltissime selezioni antologiche dei primi anni del Novecento e considerato alla stessa stregua dei poeti italiani, Chiesa risulta oggi pressoché negletto. Stesso discorso, con la differenza che il suo nome è tutt'altro che dimenticato, vale per Giorgio Orelli, che fu inserito da un altro celebre saggista: Luciano Anceschi, all'interno della storica Linea lombarda insieme ad altri ottimi poeti come Luciano Erba e Nelo Risi, tutti appartenenti alla cosiddetta Quarta generazione della citata Linea. Buon ultimo, vi figura un altro poeta di prim'ordine: Fabio Pusterla, anche lui spesso segnalato e selezionato nei saggi e nelle antologie che riguardano la migliore poesia italiana dell'ultimo Novecento. Insieme a questi tre pezzi da novanta compaiono altri poeti di buon livello che, purtroppo, sono stati un po' trascurati, se non dimenticati, dalla critica odierna. Mi riferisco, in particolare, a Giuseppe Zoppi, Adolfo Jenni, Remo Fasani e Grytzko Mascioni. Non dico nulla che concerna i poeti dialettali qui presenti, perché non mi ritengo in grado di formulare qualsiasi giudizio, vista la mia incompetenza sull'argomento. Un'ultima curiosità: tutti i testi poetici riportati all'interno di questo volume hanno come carattere di stampa principale il corsivo. Ecco, infine, i nomi dei poeti che compongono questa sorprendente antologia.




CENTO ANNI DI POESIA NELLA SVIZZERA ITALIANA

Emilio Zanini, Francesco Chiesa, Alina Borioli, Giulietta Martelli Tamoni, Valerio Abbondio, Giovanni Bianconi, Giuseppe Zoppi, Pino Bernasconi, Felice Menghini, Adolfo Jenni, Felice Patocchi, Ugo Canonica, Sergio Maspoli, Giorgio Orelli, Remo Fasani, Amleto Pedroli, Giovanni Orelli, Elio Scamara, Fernando Grignola, Fabio Muggiasca, Grytzko Mascioni, Angelo Casè, Alberto Nessi, Gilberto Isella, Aurelio Buletti, Vince Fasciani, Gabriele Alberto Quadri, Antonio Rossi, Dubravko Pušek, Fabio Pusterla.

sabato 23 marzo 2019

La poesia di Claudio Damiani


Claudio Damiani è un poeta italiano che, volendolo inserire in un secolo, può benissimo rientrare fra le ultime generazioni del Novecento. Io lo conobbi grazie ad una ottima e preziosa antologia di cui ho già parlato in un altro post: Nuovi poeti italiani contemporanei (a cura di Roberto Galaverni, Guaraldi, Rimini 1996). Le poche poesie selezionate dal curatore, mi colpirono per l'estrema semplicità e la disarmante bellezza che sapevano trasmettere al lettore; tanto più a me che, parlando di poesia, ho sempre preferito i versi in cui non comparissero troppi artifici e inutili sperimentazioni. Ciò che eccelle, nella poesia di Damiani, come spiega magistralmente Roberto Galaverni nella sua presentazione nella detta antologia, è l'assenza totale di componenti intellettuali, a favore di una spontaneità palpabile e di una semplicità estrema. Damiani ama descrivere la bellezza della natura che lo circonda, l'amore, gli affetti familiari, gli animali e i migliori ricordi di un passato personale più o meno recente; nel contempo, sebbene in modo saltuario, non esita a confessare i suoi timori, le sue sensazioni negative, che, però, risultano attenuate, quasi addolcite da parole e pensieri privi di qualsivoglia crudezza. Ho notato che più di qualcuno ha provato ad avvicinare la poesia di Damiani a quella dei grandi del passato, paragonandolo, seppure parzialmente, a Petrarca, ai poeti dell'Arcadia, a Pascoli ed a Saba; in verità, a me sembra che il poeta pugliese non debba niente a nessuno di costoro, e che i suoi versi posseggano un'originalità indiscutibile e quindi siano imparagonabili. Devo infine precisare che io conosco bene soltanto una parte dell'opera poetica di Damiani: quella che va dalla prima raccolta: Fraturno (1987) a Eroi (2000). Per quanto riguarda Il resto, mi è successo di leggere qualcosa che comunque conferma in pieno l'ottima impressione avuta fin da quando lessi le prime poesie. Chiudo riportando una splendida lirica tratta dalla raccolta La miniera, del 1997, che è anche il primo libro di Damiani che acquistai.




Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
- ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno -
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.

(da "La miniera", Fazi, Roma 1997, p. 73)