Nella ricorrenza della Santa Pasqua, ecco due poesie scritte durante la Prima Guerra Mondiale da
due poeti italiani che si trovavano al fronte e che, praticamente ogni giorno,
rischiavano di perdere la vita e soffrivano sia le privazioni che i dolori fisici e
morali di un evento bellico non paragonabile a nessun'altro nella storia dell'umanità. Gli
autori di questi versi non sono molto noti; se qualcuno ancora si ricorda di
Angelo Barile (Albissola Marina 1888 - Albisola Capo 1967) - scrittore ligure
che fu accomunato al fare poetico di altri conterranei, certamente più celebri
di lui, quali furono Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro - probabilmente
nessuno, o quasi, è in grado di ricordare l'emiliano Ferdinando Bernini (San
Secondo Parmense 1891 - Bologna 1954): intellettuale che, se non come poeta, è
stato celebrato in quanto politico (anche se la sua principale
professione fu quella d'insegnante).
La poesia di
Barile è, sostanzialmente, - come si evince dalla dedica - un invito alla pace
indirizzato ad un suo commilitone. Vengono infatti menzionati una
serie di elementi atti a rievocare i periodi spensierati e felici che furono
vissuti da entrambi i soldati, in tempi di pace. In particolar modo Barile si
sofferma nel rimembrare il tempo della Pasqua della sua infanzia felice, con
tutte le piacevoli sensazioni e le emozioni che scaturivano dalla vita da lui
vissuta nella terra natale: quella regione ligure così attraente e ricca di bellezza
da far sì che chiunque abbia trascorso un periodo di tempo in quel paradiso, ne
abbia un ricordo indelebile; altresì, lo scrittore albisolese pone in risalto
gli affetti familiari, che, in quanto lontani dal terribile fronte di guerra,
provocano nei combattenti una sofferenza atroce; ma grazie al ricordo di essi,
e alla speranza di ritrovarli alla fine del conflitto, il poeta si augura di
trovare la forza di andare avanti, e prega affinché la guerra possa finire in breve
tempo.
Nei versi di
Bernini, tratti da una rivista locale del dopoguerra, emerge in modo netto quel
tormento tutto morale dovuto alle privazioni e alla lontananza dagli affetti,
che la guerra ha causato in un giovane soldato quale fu lo scrittore emiliano.
Ed ecco, in questi momenti così duri, l'affiorare dei migliori ricordi delle
Pasque vissute al tempo della puerizia, con l'immancabile presenza della madre
che il ragazzo ha rivisto da poco, grazie ad una breve licenza concessagli dai suoi
superiori, e che ha avuto il tempo di rammendargli amorevolmente l'abito da
battaglia che ora indossa sempre, perfino quando dorme su un letto improvvisato
fatto di paglia.
PASQUA AL FRONTE
di Angelo Barile
Al capitano Enrico Fabi
Queste foglie
d'ulivo benedette,
amico, accetta, è
il mio pasquale dono.
Senti, sì dolci
al nostro cuor non sono
le violette.
È il caro ulivo
della mia riviera!
Nato a specchio
dell'onda più turchina
ha il
verde-argento della mia collina
sul mar leggera.
Ben so che la tua
anima pugnace
al duro gioco
della guerra è avvezza,
ma non ti
spiacerà questa carezza
mite, di pace,
che ti riporta,
amico, le lontane
pasque fulgenti
della puerizia
e nei sabati
santi, la letizia
delle campane.
Ne arriva un'eco,
per l'intime strade,
che vince il
rombo del cannone, e tu
vedi il paese,
senti che laggiù
prega tua madre,
senti la tua
fanciulla che ti chiama...
Se oggi almeno -
sarebbe così bello -
giungesse per la
mensa dell'agnello
quegli che l'ama!
I suoi occhi
hanno lacrime e baleni.
Ti aspetta. Certo
a tavola ti ha messo
il posto allato a
sé, guardando spesso
se tu non vieni.
Verrà verrà, non
piangere, vedrai...
Ti recherà
l'illesa giovinezza
cinta di luce e
allor sì piangerai
ma di dolcezza.
Pasqua di pace,
nostra Pasqua santa,
ch'io tornerò
agli ulivi del mio lido,
tu a quello che
nel cuore già ti canta
trepido nido.
Kambresco
(Isonzo), Pasqua 1916
(da
"Poesie", Scheiwiller, Milano 1986)
PASQUA IN TRINCEA
di Ferdinando
Bernini
Non una madre a
noi con braccia alacri
aperse la
finestra al nuovo sole,
nessuno aggiunse
a tepidi lavacri
odor di viole.
Non c'è per noi
nel vecchio canterale
tra nafta e
alloro l'abito di festa,
nessuna donna al
riso mattinale
per noi s'è
desta.
Un abito pareggia
ed accomuna
i figli della terra
multiforme,
nella vicenda
varia di fortuna
con noi s'addorme
l'abito
grigioverde sulla paglia:
nella licenza lo
mendò con cura
la madre: l'abito
tuo di battaglia,
di sepoltura.
(da «Aurea
Parma», maggio-giugno 1920)
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