domenica 21 aprile 2019

La Pasqua della Grande Guerra nei versi di due poeti-soldati


 Nella ricorrenza della Santa Pasqua, ecco due poesie scritte durante la Prima Guerra Mondiale da due poeti italiani che si trovavano al fronte e che, praticamente ogni giorno, rischiavano di perdere la vita e soffrivano sia le privazioni che i dolori fisici e morali di un evento bellico non paragonabile a nessun'altro nella storia dell'umanità. Gli autori di questi versi non sono molto noti; se qualcuno ancora si ricorda di Angelo Barile (Albissola Marina 1888 - Albisola Capo 1967) - scrittore ligure che fu accomunato al fare poetico di altri conterranei, certamente più celebri di lui, quali furono Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro - probabilmente nessuno, o quasi, è in grado di ricordare l'emiliano Ferdinando Bernini (San Secondo Parmense 1891 - Bologna 1954): intellettuale che, se non come poeta, è stato celebrato in quanto politico (anche se la sua principale professione fu quella d'insegnante).
La poesia di Barile è, sostanzialmente, - come si evince dalla dedica - un invito alla pace indirizzato ad un suo commilitone. Vengono infatti menzionati una serie di elementi atti a rievocare i periodi spensierati e felici che furono vissuti da entrambi i soldati, in tempi di pace. In particolar modo Barile si sofferma nel rimembrare il tempo della Pasqua della sua infanzia felice, con tutte le piacevoli sensazioni e le emozioni che scaturivano dalla vita da lui vissuta nella terra natale: quella regione ligure così attraente e ricca di bellezza da far sì che chiunque abbia trascorso un periodo di tempo in quel paradiso, ne abbia un ricordo indelebile; altresì, lo scrittore albisolese pone in risalto gli affetti familiari, che, in quanto lontani dal terribile fronte di guerra, provocano nei combattenti una sofferenza atroce; ma grazie al ricordo di essi, e alla speranza di ritrovarli alla fine del conflitto, il poeta si augura di trovare la forza di andare avanti, e prega affinché la guerra possa finire in breve tempo.
Nei versi di Bernini, tratti da una rivista locale del dopoguerra, emerge in modo netto quel tormento tutto morale dovuto alle privazioni e alla lontananza dagli affetti, che la guerra ha causato in un giovane soldato quale fu lo scrittore emiliano. Ed ecco, in questi momenti così duri, l'affiorare dei migliori ricordi delle Pasque vissute al tempo della puerizia, con l'immancabile presenza della madre che il ragazzo ha rivisto da poco, grazie ad una breve licenza concessagli dai suoi superiori, e che ha avuto il tempo di rammendargli amorevolmente l'abito da battaglia che ora indossa sempre, perfino quando dorme su un letto improvvisato fatto di paglia.





PASQUA AL FRONTE
di Angelo Barile
                                                               Al capitano Enrico Fabi

Queste foglie d'ulivo benedette,
amico, accetta, è il mio pasquale dono.
Senti, sì dolci al nostro cuor non sono
le violette.

È il caro ulivo della mia riviera!
Nato a specchio dell'onda più turchina
ha il verde-argento della mia collina
sul mar leggera.

Ben so che la tua anima pugnace
al duro gioco della guerra è avvezza,
ma non ti spiacerà questa carezza
mite, di pace,

che ti riporta, amico, le lontane
pasque fulgenti della puerizia
e nei sabati santi, la letizia
delle campane.

Ne arriva un'eco, per l'intime strade,
che vince il rombo del cannone, e tu
vedi il paese, senti che laggiù
prega tua madre,

senti la tua fanciulla che ti chiama...
Se oggi almeno - sarebbe così bello -
giungesse per la mensa dell'agnello
quegli che l'ama!

I suoi occhi hanno lacrime e baleni.
Ti aspetta. Certo a tavola ti ha messo
il posto allato a sé, guardando spesso
se tu non vieni.

Verrà verrà, non piangere, vedrai...
Ti recherà l'illesa giovinezza
cinta di luce e allor sì piangerai
ma di dolcezza.

Pasqua di pace, nostra Pasqua santa,
ch'io tornerò agli ulivi del mio lido,
tu a quello che nel cuore già ti canta
trepido nido.

Kambresco (Isonzo), Pasqua 1916

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986)





PASQUA IN TRINCEA
di Ferdinando Bernini

Non una madre a noi con braccia alacri
aperse la finestra al nuovo sole,
nessuno aggiunse a tepidi lavacri
odor di viole.

Non c'è per noi nel vecchio canterale
tra nafta e alloro l'abito di festa,
nessuna donna al riso mattinale
per noi s'è desta.

Un abito pareggia ed accomuna
i figli della terra multiforme,
nella vicenda varia di fortuna
con noi s'addorme

l'abito grigioverde sulla paglia:
nella licenza lo mendò con cura
la madre: l'abito tuo di battaglia,
di sepoltura.

(da «Aurea Parma», maggio-giugno 1920)

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