martedì 24 aprile 2018

Tre vittime del nazifascismo in due poesie e un frammento in prosa


Cosa ci dice la realtà di oggi? Ci dice che l'ignoranza, l'odio, l'egoismo, la malvagità e il razzismo, tutti insieme stanno prendendo il sopravvento su larghe fasce della popolazione europea e non solo. Ci dice che a questo punto non si può escludere l'ipotesi di una nuova guerra (certamente più cruenta di tutte le precedenti) causata dalla mancanza totale, negli esseri umani, di quei valori fondamentali che soli possono garantire la pace, e che si rifanno ai sentimenti fondati sulla solidarietà e sulla tolleranza, nati dalle esperienze negative vissute attraverso i secoli della storia. L'umanità, insomma, sembra che, una volta di più, abbia voglia di cadere nel medesimo errore: di assecondare gli istinti peggiori e di delegare a personaggi infimi il potere. Di fronte a questo inquietante scenario europeo e mondiale, non ha più alcun senso continuare a ricordare ciò che di tremendamente brutto è già successo, a causa di governanti che predicavano il nazionalismo, che inculcavano il razzismo e che infine crearono tutti i presupposti per la nascita di un conflitto devastante, quale fu la Seconda Guerra Mondiale. Malgrado ciò, per coerenza e perché non ne so fare a meno, anche quest'anno, nell' imminenza dell'importantissima data del 25 aprile, voglio riportare due poesie e un frammento in prosa che parlano di vittime dell'ultima guerra: vittime dell'ignoranza, dell'odio, dell'egoismo, della malvagità e del razzismo.
La prima poesia è di Franco Matacotta (Fermo 1916 - Genova 1978): scrittore di cui ho già parlato in precedenti post dedicati alla Resistenza; i versi qui presenti furono pubblicati nella rivista Mercurio, che uscì mensilmente tra il 1944 ed il 1948. Rivista impegnata sul fronte antifascista, tra i collaboratori di Mercurio ci furono nomi celebri come quelli di Corrado Alvaro, Eugenio Montale, Alberto Moravia e Umberto Saba. Matacotta, in Parole di sangue dà voce ad una vittima della cieca violenza fascista: un ragazzo che è stato brutalmente torturato e massacrato da un gruppo di uomini feroci, capaci di inenarrabili crudeltà nei confronti di un giovane che aveva scelto di combattere il regime. Da notare che in questo caso Matacotta si firmò con lo pseudonimo di Francesco Monterosso: lo stesso che usò anche quando diede alle stampe la raccolta poetica Canzoniere di libertà (1953).
Io lo ricordo col suo triciclo è una poesia di Sandro Sinigaglia (Oleggio Castello 1921 - Arona 1990), inclusa nella raccolta Il flauto e la bricolla (1954), all'interno della sezione Versi per quattro compagni caduti contro i fascisti. Fu ripubblicata, con qualche variante, nell'Almanacco. Cronache di vita ticinese n. 10 (1991); lì è possibile leggere anche una nota non firmata, in cui, con preciso riferimento ai versi 10 e 11, c'è scritto che si allude ad un eccidio portato a termine dai nazisti nella città di Arona nell'aprile del 1945. Tra le vittime anche un gelataio la cui unica colpa era quella di aver prestato un furgoncino a dei partigiani.
Ho infine scelto un frammento tratto dal romanzo di Primo Levi (Torino 1919 - ivi 1987): La tregua (1963). Parla di Hurbinek, un bambino nato, vissuto e morto a soli tre anni, all'interno del campo di concentramento di Auschwitz. Una descrizione straziante, di una tenera vittima della ferocia nazista, che non risparmiava i bambini e quindi, come nel caso del povero Hurbinek, era totalmente indifferente a qualsivoglia tipo di pietà, anche per una piccola vita che tentava, in qualunque modo, di sopravvivere all'Olocausto.



PAROLE DI SANGUE
(Dette da un ragazzo massacrato dai fascisti presso il fiume Tenna)
di Franco Matacotta

M'hanno preso dietro una siepe di more
Hanno sparato sulla mia bocca d'ombra,
Un papavero presso il mio cuore
È caduto con un rosso tonfo.

M'hanno spogliato come un rospo nero,
Nero di fame, di paura e follia,
M'hanno steso sul sentiero
Come un pezzo di biancheria.

Parla! Parla! Ma la mia bocca di marmo,
Di marmo il cielo, il sole sulla mia bocca,
Nuca contro le pietre, sangue nella mia gola di marmo,
Le parole erano murate nella tomba del mio cuore.

Allora mi staccarono le mascelle,
Mi strapparono i denti e li gettarono alle ortiche,
La mia bocca di sangue, le mie parole di sangue,
Se avessi parlato non mi avrebbero capito.

Allora mi strapparono i peli
Come si strappano spine dalle rose,
Cercavano le mie parole, ma le mie parole erano sangue,
E il mio petto un campo di trifogli rossi.

Allora non potendo trovare le mie parole
Cercarono i miei pensieri e mi strapparono gli occhi,
Coi coltelli mi frugarono il cervello
E l'avvoltoio del buio calò su me dal cielo.

Ora sono là sulla strada di fango
Pieno di mosche, di morte, di cecità,
Solo sulla mia bocca c'è una scrittura di sangue
Che dice sempre, sempre: Libertà.

(dalla rivista "Mercurio", annata I, fascicolo 4, dicembre 1944, p. 279)




IO LO RICORDO COL SUO TRICICLO
di Sandro Sinigaglia

Dietro la fanfara borghese
quattro emorroisse bandiere
che già gli manca
la voce a far coro
si disperde il codazzo.
Bruciavano nell'agonia
chiedevano a bere!
E il gelatiere Camillo
uscì.
Così furon quattordici
i morti per Arona.
Io lo ricordo col suo triciclo
oggi che la stagione
del sorbetto comincia
e la memoria degli uomini
passa più in fretta del pesce.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1997, p. 43)






Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
[...] Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, –  Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui - egli testimonia attraverso queste mie parole.

(da "La tregua" di Primo Levi, Einaudi, Torino 1997, pp. 22-24)

domenica 15 aprile 2018

Pensieri e poesie sulla morte


Non so se provi più invidia o più ammirazione nei confronti di coloro che, sorretti da una fede molto salda, credono in un'altra vita dopo la morte. Io, per quanti ragionamenti faccia, arrivo sempre alla conclusione che la nostra esistenza si concluda con la nostra morte. Eppure sono certo del fatto che, tra le tante persone che credono nell'aldilà, ve ne siano d'intelligenti. Ho sentito infinite dichiarazioni, ho letto svariati scritti di argute menti umane che asserivano con certezza l'esistenza di una vita ulteriore dopo la morte, ma mai mi hanno convinto e tutt'ora non nutro alcuna speranza di vivere, dopo la mia dipartita, in un'aldilà dove, magari, sia possibile incontrare di nuovo le persone più care che ho amato e che ho perso. Comunque stiano le cose, questo preambolo serve per introdurre le due poesie che riporto qui sotto e che trattano l'argomento della morte e del post mortem. Gli autori sono due grandi poeti italiani del Novecento: Cesare Pavese e Alessandro Parronchi: il primo si limita a prefigurare, in modo decisamente sui generis, il momento del decesso, identificando la futura morte con gli occhi della donna amata; il secondo invece, partendo da un dialogo avuto con una non ben precisata signora, confessa di avere molti dubbi sulla possibilità che ci sia qualcos'altro oltre la vita umana, seppure egli sia un credente. Riguardo a quest'ultima poesia, è da sottolineare la curiosità del poeta nei confronti dell'estremo evento; curiosità che, a suo dire, è superiore alla paura. Ora, se, a pensarci bene, la paura della morte non ha alcun senso, perché in natura è un evento come qualsiasi altro, che coinvolge tutti gli esseri viventi, la curiosità può esistere solo se, come nel caso di Parronchi, ci sia una speranza di sopravvivere, in qualche modo, alla propria morte. Ma, ritornando alla paura, penso che sia giustificata in quanto, il periodo che precede la morte, è spesso caratterizzato da sofferenze più o meno intense. Ciò che terrorizza di più, tutto sommato, non è la morte in sé stessa, ma il suo tremendo annunciarsi.



VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI
di Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

(da "Poesie del disamore", Einaudi, Torino 1982)




LEI, SIGNORA, HA PAURA DELLA MORTE?
di Alessandro Parronchi

- Lei, signora, ha paura della morte?
- Moltissimo! E lei no?
- Le dirò che la temo, ma in me domina
più forte un senso di curiosità.
Solo quando potrò
affacciarmi sull'aldilà saprò
se sarò ancora. Forse troverò
- privo di occhi, di bocca, di orecchi -
solo il buio, saldato, della cassa
che mi contiene. O forse
qualcosa come una più strana luce
- la luce che ci illumina nei sogni -
mi sarà intorno. Fra chi crede e chi non crede
non può il calcolo delle probabilità
assicurare più della metà
agli uni e agli altri. Ed io resto col dubbio
se rimediare in qualche modo sia possibile
agli errori compiuti in vita, se
rimanga ancora un altro tempo, eterno
in cui gli esseri amati sopravvivano.
E, almeno in chi ha lottato fino in fondo
- se anche s'indebolirono già in vita -
il fuoco non s'estingua
la volontà non ceda
il disinganno non distrugga
la sete di giustizia non s'arrenda.

(da "Le poesie", Polistampa, Firenze 2000)


Jean Francois Millet, "Death and the woodcutter"


domenica 8 aprile 2018

"Tetano metafisico". Tutte le opere di Giuseppe Vannicola


È uscito recentemente uno di quei libri che si aspettano per anni e anni, perché troppo spesso ci si accorge che, di uno scrittore importante, non esiste ancora un'opera che comprenda la sua intera produzione, e ci si chiede il motivo della mancanza senza trovare una giustificazione valida. Ebbene, grazie al decisivo interessamento di Stefania Iannella, l'editore Aragno di Torino ha da poco pubblicato un volume che raccoglie l'opera omnia di Giuseppe Vannicola. Costui, oggi quasi completamente ignorato, ebbe un ruolo cruciale nella letteratura italiana dei primissimi anni del Novecento; il suo nome è ricorrente in periodici, giornali e riviste memorabili come Il Mattino, La Voce, Lacerba, Il Regno, Leonardo e Poesia; fu anche direttore di Prose: rivista che ebbe breve vita ma che può vantare, nelle sue pagine, firme di prim'ordine del mondo letterario di allora¹. Purtroppo, la sua attività artistica durò poco: afflitto da problemi di salute piuttosto seri, fu, in breve tempo, costretto ad interrompere qualsiasi lavoro, e morì non ancora quarantenne². Questo volume, che ha per titolo Tetano metafisico, comprende, insieme ai testi più noti dello scrittore e musicista marchigiano, come De profundis clamavi ad te e Il veleno (che era già abbastanza facile reperire perché ripubblicati da non molti anni o perché inclusi tra le opere consultabili on-line in siti come Liber Liber), anche altri testi, non inferiori rispetto a quelli citati, i quali erano caduti nel dimenticatoio, non essendo stati più pubblicati da ormai più di un secolo; è il caso delle poesie di Trittico della vergine, di prose come Sonata patetica, Corde della grande Lira e Distacco, nonché degli articoli pubblicati dal musicista italiano in alcuni periodici e quotidiani dei primissimi anni del XX secolo; completano il consistente volume, le prefazioni alle sue ottime traduzioni e gli scritti pubblicati dopo la sua morte. Il titolo, che a prima vista può apparire bizzarro, altro non è che una citazione tratta da una lettera che Vannicola scrisse all'amico Giovanni Papini, definendo in tal modo il male che affliggeva entrambi (nella medesima lettera Vannicola aggiunge che Papini riuscirà certamente a superare questo stato precario, mentre lui ne è e ne rimarrà vittima).
Come già accennato, l'uscita di questo libro, che contribuirà sicuramente ad ampliare la conoscenza e la fama di Vannicola: personaggio di sicuro fascino e d'importanza fondamentale, non solo a livello nazionale, è avvenuta grazie all'editore Aragno ed a Stefania Iannella³; quest'ultima, che è la redattrice del saggio introduttivo (in cui si possono leggere sia una dettagliata biografia che una serie di opportune delucidazioni riguardanti tutte le opere di Vannicola) e delle annotazioni a piè di pagina, aveva già scritto l'ottima introduzione della ristampa di Piccolo libro inutile: l'opera poetica più significativa di Sergio Corazzini (in cui compaiono anche i versi dell'amico Alberto Tarchiani); e, a tal proposito, non è difficile notare alcune somiglianze tra questi due scrittori che vissero a Roma nel primo decennio del Novecento, divenendo anche amici; sicuramente, entrambi rivolsero la loro attenzione alla migliore letteratura francese di quel preciso periodo storico; grazie a questa apertura mentale, ognuno con la propria personalità e con, a volte, nette differenze di stile (Vannicola prediligeva la prosa alla poesia e Corazzini il contrario), contribuirono a dare un respiro europeo alla nostra letteratura, troppo spesso chiusa in un provincialismo senza sbocchi e legata ad una tradizione sì prestigiosa, ma ormai sicuramente anacronistica. Di Sergio Corazzini è stato pubblicato molto, anche in tempi recenti; al contrario, di Giuseppe Vannicola, negli scaffali delle librerie italiane si trovava ben poco fino ad oggi; quest'opera si può quindi definire come una grossa lacuna colmata ed è sicuramente preziosissima.   



NOTE
¹ Per chi fosse interessato all'opera letteraria di Giuseppe Vannicola, è possibile consultare anche il seguente sito: https://vannicolagiuseppe.wordpress.com/
² Anche se, come fa notare la curatrice di questo libro nella parte biografica, non sarebbe del tutto impensabile che Vannicola sia morto di morte violenta, causata da un incidente o, addirittura, da un assassinio (in quest'ultimo caso, potrebbero essere i debiti accumulati dall'artista marchigiano o la gelosia nei confronti di un'amica caprese, ad aver spinto qualcuno verso l'omicidio). Ma queste sono supposizioni che nascono dal ritrovamento, da parte di Ferdinando Gerra, di un manoscritto di Giovanni Papini in cui lo scrittore toscano esclude che Vannicola si sia suicidato e azzarda l'ipotesi dell'omicidio.
³ I lavori e le pubblicazioni di Stefania Iannella sono elencati nel sito: https://stefania-iannella.webnode.se/pubblicazioni

giovedì 5 aprile 2018

Muore il ragazzo un poco


Muore il ragazzo un poco
Ogni giorno per giuoco.
Per giuoco morde invano
Il cavo della mano.
Trascorre le vacanze ebbro
Tra i maceri cespi di papaveri
Steso sul letto per noia
E diletto a guardare le travi.
Ma lo stornano ombre
Solitarie nel cielo della stanza,
Labili ombre passeggere
sul soffitto. È l' ariete
Che batte ostinato le corna
A capofitto nella quiete.



Questa poesia di Leonardo Sinisgalli fa parte del volume Vidi le Muse, Mondadori, Milano 1943. Io l'ho trascritta da un ristampa del 1997, che è stata pubblicata dall'editore Avagliano di Cava de' Tirreni (si avvale anche delle preziosissime note critiche di Renato Aymone). È l'ultima della prima parte della sezione Il cacciatore indifferente. Fin dal primo verso si avvertono degli echi appartenenti alla poetica dei crepuscolari, in particolare a quella di Sergio Corazzini. Il "sentirsi morire ogni giorno" del poeta romano, diviene qui decisamente meno drammatico, come si evidenzia dal secondo verso (per giuoco) che conferisce all'azione del ragazzo un significato assai più leggero. Piuttosto che un'attività ludica, appare come un tic, invece, il mordersi la mano che, pure, nei versi viene paragonato ad un gioco. Anche la descrizione seguente, relativa alle giornate di vacanza del ragazzo, che ha trascorso quasi interamente disteso su un letto annoiandosi a morte, ricordano in parte certe poesie crepuscolari di Corrado Govoni come Noia (dalle Fiale) o [Quante ore trascorse senza luce] (da Armonia in grigio et in silenzio) e che ben rappresentano un malessere esistenziale già presente in Sinisgalli adolescente, il quale, da quanto ho appreso, era già un assiduo lettore e un fervido ammiratore della poesia dei crepuscolari.


Frontespizio del volume "Vidi le Muse" di Leonardo Sinisgalli, a cura di Reanto Aymone, Avagliano, Cava de' Tirreni 1997.


lunedì 2 aprile 2018

L'età dei semidei

Bonario, obeso demone pneumatico,
«Bidendum», che su assidue
familiari stampe, od erti
pinnacoli di fiera (dalle schiuse
persiane in roseo lume
notturno al Valentino si sgranava
il languido fragore delle giostre,
un'aroma spirava estasiante
di primavera e di Krapfen...), vegliasti
i miei sogni d'infanzia: ahi, che purtroppo
a far mia non appresi l'orgogliosa
tua divisa: Michelin
boit l'obstacle.

                     Più tardi
fu mito l'eleganza inaccessibile
il nero «borsalino»
coi guanti e la mazza, posati
tra gialli cortinaggi
sulla poltrona ricurva, nel classico
manifesto di Dudovich. Ben altre
uniformi attendevano
le nostre adolescenze al varco.
Ben altre luminarie
che quelle della sospirata festa.

Oggi, nei miei calanti
anni, formicola innumere
di emblemi, simboli, enigmi,
sue meraviglie dispiegando, il neo-
capitalistico Olimpo. Tra morbidi
caleidoscopi di luci
al neon, altri mostri, altri idoli
sulle città lampeggiano. M'aggiro
sperso, sopravvissuto,
sordo tra i nuovi oracoli. Una fauna
diabolica ossessiona
i miei viaggi, i miei sogni: m'incalzano
per autostrade lisce di vertigine
in fuga verso il tramonto
mio, del mio secolo, aquile
ossute, serpi, felini di fuoco,
e l'esapodo cane fiammeggiante
del Supercortemaggiore.



Questa bella poesia fu scritta da Sergio Solmi nel 1962, e pubblicata per la prima volta nel volume Dal balcone, Mondadori, Milano 1968. Io l'ho estratta dal primo tomo delle Opere, Adelchi, Milano 1983. Il titolo è evidentemente ironico, e si riferisce al periodo del boom economico. In questi versi Solmi descrive i simboli del consumismo, a partire dal celebre "omino" della Michelin (azienda che produce pneumatici), per giungere all'allora modernissimo "cane a sei zampe" del Supercortemaggiore (un tipo di benzina che venne commercializzata dalla Agip); una serie di emblemi, di mostri, di figure fantastiche e diaboliche che si sono viste in giro per il mondo, a partire dai primi anni del Novecento. Il poeta, ormai anziano, si aggira ancora per la città invasa da questi miti del "capitalistico Olimpo", sentendosi come un sopravvissuto, ovvero sempre più estraneo e smarrito di fronte a questa invasione pubblicitaria perpetrata dalle grandi industrie a discapito dei cittadini, ormai totalmente inglobati in un mondo vuoto e disumano.



venerdì 23 marzo 2018

I lumi nella poesia italiana decadente e simbolista


Le lampade, i lumi, i fanali e simili, così come la luce in generale, sono spesso collegati ad un discorso mistico. Per molti poeti ogni fonte di luminosità rappresenta, in qualche modo, l'ultraterreno (lo rappresentano le luci poste vicino alle tombe, alle immagini dei santi e, negli edifici religiosi, dovunque esse siano). Non mancano però le eccezioni; Buzzi, per esempio, guardando i lampioni posti su un viale alberato, di notte, si accorge di come essi rappresentino bene quell'idea futuristica che egli ha abbracciato di recente con entusiasmo. Corazzini invece, parla di un fanale posto all'esterno di un postribolo e lo fa divenire simbolo di sofferenza e di castità. Lo stesso discorso, seppure in modi e accentuazioni meno coinvolgenti, vale per la poesia Il lampione di Govoni. Nella poesia Il cembalo e la lampada, di Pietro Mastri, entrambi gli oggetti del titolo rappresentano la carità. Del tutto scherzosi sono poi i versi de La lanterna di Aldo Palazzeschi. In altri casi ancora le fonti di luce svolgono compiti prettamente utili oppure simboleggiano l'anima del poeta. Minore rilevanza ha invece la funzione che svolgeva la famosa "Lampada di Diogene", ovvero quella di illuminare chi va alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Vi sono infine dei componimenti del tutto indecifrabili.




Poesie sull'argomento

Fausto M. Bongioanni: "Lampada verde" in "Venti poesie" (1924).
Umberto Bottone: "Lumi d'argento" e "Le lampade votive" in "Lumi d'argento" (1906).
Paolo Buzzi: "Primi lampioni" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "La lampada" in "L'Incubo Velato" (1906).
Francesco Cazzamini Mussi: "Fanale" in "Le allee solitarie" (1920).
Girolamo Comi: "Or mi bagno nei lumi tuoi sicuri" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Il fanale" in "Le aureole" (1905).
Giovanni Croce: "La lampada" in "L'anima di Torino" (1911).
Diego Garoglio: "Il faro" e "I fanali" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Corrado Govoni: "Cereo pasquale" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Il lampione" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni "La lampada di Psiche" e "I fanali" in "Gli aborti" (1907).
Pietro Mastri: "Il cembalo e la lampada" in "La Meridiana" (1920).
Marino Moretti: "Teda" in "Poesie di tutti i giorni" (1911).
Ettore Moschino: "La veglia" in "I Lauri" (1908).
Aldo Palazzeschi: "La lanterna" in "Poemi" (1909).
Francesco ed Emilio Scaglione: "A la mia lampada" in "Limen" (1910).
Emanuele Sella: "Trittico della luce siderale" in "Monteluce" (1909).
Emanuele Sella: "L'Empirea Sfera" in "L'Eterno Convito" (1918).
Mario Venditti, "Le due luci" in "Il cuore al trapezio" (1921).




Testi

LUMI D'ARGENTO
di Umberto Bottone

I.
Piccoli fari miei, lumi d'argento
a notte lacrimosi per la via,
pallidi e vani come il sentimento

del mio cuore, che mai fate? La mia
Musa non suona più La tiorba lene
dopo la squilla de l'Avemaria.

La Fata è tiste; piange un bene, un bene
che le spirò nel cor languidamente
ne le vostre serate più serene.

Lucciole belle, siete sonnolente,
vi manca il cuore, ahimè! Non lo vedete
che il cuor vi manca e siete quasi spente?

Oh, come siete tristi, oh, come siete
stanche! Mie vdgabonde lucciolelle,
voi mi fate pietà, voi mi farete

morire certo con le prime stelle.


II.
Il cielo è bruno e la mia fata dorme
ancora. Dite, ma non si potrebbe
scuotere un poco le sue bianche forme?

È molto tempo che la tiorba s'ebbe
l'ultimo bacio da sue mani pure:
oh, come lieta, faci, ella sarebbe

d'un pianto triste, lungo, de le cure
consuete; ravvolgerla in un velo
nero, più nero de le sepolture!

Il cuor mi trema come l,asfodelo
ammonitore; o mie dolci sorelle,
stanche come le suore del Carmelo!...

Se siete buone come siete belle,
se volete ogni notte spasimare,
o innamorate de le prime stelle,

andate la mia fata a risvegliare!...

(da "Lumi d'argento", 1906)




A LA MIA LAMPADA
di Francesco ed Emilio Scaglione

Io studio e tu piccola lampa affretti
a me il sonno, a te morte avida e piana;
stanca pur d'illuminar la vana
opra un estremo anelito mi getti.

E invano aizzo l'anima che china
agonizzando tra le mani sporte:
"Maledetto chi vuol fermar la morte
a chi muore, e la strada a chi cammina"

Avea chiuso nel sogno ultimo il mio
pensier di morte. Io vedea lieto ancora
in mezzo a l'ombre sorgere un'aurora
segnatami dal bianco de l'oblio.

Cedevo all'onda del pensier... perdona
lampa, stelo pur vivo ne la morte;
oh! quanta in te, ne le tue braccia corte
virtù, che poco vuole e tutto dona.

Io resto: tu ritornerai domani,
ilare e rossa a cinguettar su' vetri,
io ti domanderò come s'impetri
pace a la tomba con le sporte mani!

(da "Limen", 1910)




Georges de La Tour, "The Magdalen with the Smoking Flame"