Non so se provi
più invidia o più ammirazione nei confronti di coloro che, sorretti da una fede
molto salda, credono in un'altra vita dopo la morte. Io, per quanti
ragionamenti faccia, arrivo sempre alla conclusione che la nostra esistenza si
concluda con la nostra morte. Eppure sono certo del fatto che, tra le tante
persone che credono nell'aldilà, ve ne siano d'intelligenti. Ho sentito
infinite dichiarazioni, ho letto svariati scritti di argute menti umane che
asserivano con certezza l'esistenza di una vita ulteriore dopo la morte, ma mai
mi hanno convinto e tutt'ora non nutro alcuna speranza di vivere, dopo la mia
dipartita, in un'aldilà dove, magari, sia possibile incontrare di nuovo le
persone più care che ho amato e che ho perso. Comunque stiano le cose, questo
preambolo serve per introdurre le due poesie che riporto qui sotto e che
trattano l'argomento della morte e del post
mortem. Gli autori sono due grandi poeti italiani del Novecento: Cesare
Pavese e Alessandro Parronchi: il primo si limita a prefigurare, in modo
decisamente sui generis, il momento
del decesso, identificando la futura morte con gli occhi della donna amata; il
secondo invece, partendo da un dialogo avuto con una non ben precisata signora,
confessa di avere molti dubbi sulla possibilità che ci sia qualcos'altro oltre
la vita umana, seppure egli sia un credente. Riguardo a quest'ultima poesia, è
da sottolineare la curiosità del poeta nei confronti dell'estremo evento;
curiosità che, a suo dire, è superiore alla paura. Ora, se, a pensarci bene, la
paura della morte non ha alcun senso, perché in natura è un evento come
qualsiasi altro, che coinvolge tutti gli esseri viventi, la curiosità può
esistere solo se, come nel caso di Parronchi, ci sia una speranza di
sopravvivere, in qualche modo, alla propria morte. Ma, ritornando alla paura,
penso che sia giustificata in quanto, il periodo che precede la morte, è spesso
caratterizzato da sofferenze più o meno intense. Ciò che terrorizza di più, tutto
sommato, non è la morte in sé stessa, ma il suo tremendo annunciarsi.
VERRÀ LA MORTE E
AVRÀ I TUOI OCCHI
di Cesare Pavese
Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi
questa morte che
ci accompagna
dal mattino alla
sera, insonne,
sorda, come un
vecchio rimorso
o un vizio
assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana
parola,
un grido taciuto,
un silenzio.
Cosí li vedi ogni
mattina
quando su te sola
ti pieghi
nello specchio. O
cara speranza,
quel giorno
sapremo anche noi
che sei la vita e
sei il nulla.
Per tutti la
morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi.
Sarà come
smettere un vizio,
come vedere nello
specchio
riemergere un
viso morto,
come ascoltare un
labbro chiuso.
Scenderemo nel
gorgo muti.
(da "Poesie
del disamore", Einaudi, Torino 1982)
LEI, SIGNORA, HA
PAURA DELLA MORTE?
di Alessandro
Parronchi
- Lei, signora,
ha paura della morte?
- Moltissimo! E
lei no?
- Le dirò che la
temo, ma in me domina
più forte un
senso di curiosità.
Solo quando potrò
affacciarmi
sull'aldilà saprò
se sarò ancora. Forse troverò
- privo di occhi,
di bocca, di orecchi -
solo il buio,
saldato, della cassa
che mi contiene.
O forse
qualcosa come una
più strana luce
- la luce che ci
illumina nei sogni -
mi sarà intorno.
Fra chi crede e chi non crede
non può il
calcolo delle probabilità
assicurare più
della metà
agli uni e agli altri.
Ed io resto col dubbio
se rimediare in
qualche modo sia possibile
agli errori
compiuti in vita, se
rimanga ancora un
altro tempo, eterno
in cui gli esseri
amati sopravvivano.
E, almeno in chi
ha lottato fino in fondo
- se anche
s'indebolirono già in vita -
il fuoco non
s'estingua
la volontà non
ceda
il disinganno non
distrugga
la sete di
giustizia non s'arrenda.
(da "Le
poesie", Polistampa, Firenze 2000)
Jean Francois Millet, "Death and the woodcutter" |
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