Carlo Chiaves (Torino 1882 - ivi 1919) è uno dei poeti crepuscolari più famosi, anche grazie ad un articolo di Giuseppe Antonio Borgese che a suo tempo fece scalpore, pubblicato sulla Stampa di Torino, ed intitolato per l'appunto Poesia crepuscolare. Qui Chiaves viene accomunato a Marino Moretti (1885-1979) e a Fausto Maria Martini (1886-1931); tutti e tre avevano da poco dato alle stampe dei volumi di versi (era il 1910) che col tempo divennero i più ricordati. Per Chiaves si trattò dell'unico libro pubblicato in vita (morì precocemente a soli 37 anni). La poesia di Chiaves, pur avendo delle affinità con quella di Moretti e di Martini, è più vicina al clima letterario prettamente piemontese (e in particolare torinese) del primo decennio del Novecento. Chiaves faceva parte di quel gruppo di giovani letterati, tra i quali si ricordano Carlo Vallini (1885-1920), Giulio Gianelli (1879-1914) e Guido Gozzano (1883-1916), che in quel periodo partecipavano assiduamente alle lezioni tenute nell'ateneo torinese del professore nonché illustre poeta Arturo Graf (1848-1913). Nei versi di Chiaves, in effetti, si ritrova più di una traccia che riconduce al Graf. Le sue poesie, più che crepuscolari, potrebbero essere definite tardo-romantiche o intimiste, e sarebbe facile trovare altri elementi che lo avvicinano ad ulteriori poeti italiani del secondo Ottocento, come il suo corregionale Edmondo De Amicis. Il titolo della sua unica opera poetica esplicita chiaramente i due elementi che più emergono dai suoi versi: il sogno e l'ironia. Vi sono infatti delle poesie, come La villa chiusa, in cui Chiaves prende spunto da qualcosa di esistente per poi divagare ed infine approdare ad un mondo fantastico, che ha comunque a che vedere con un passato reale, tramutato in favola. Dall'altra parte, vi sono poesie ben differenti, che con amarezza evidenziano una realtà in cui predominano l'opportunismo ed il cinismo; alle volte, il risultato giunge ancora una volta tramite il mondo favolistico, dove però il finale si ribalta, e l'ironia nasconde un profondo pessimismo sulla società e soprattutto sull'umanità. Le liriche presenti nella raccolta Sogno e ironia sono soltanto 21; il restante dell'opera in versi di Chiaves (circa un centinaio di componimenti, alcuni dei quali incompleti), furono raccolti e ordinati dal critico Giuseppe Farinelli nel volume Tutte le poesie edite e inedite. Ecco infine, dopo uno scarno elenco delle opere poetiche pubblicate, tre poesie di Carlo Chiaves.
Carlo Chiaves |
Opere poetiche
"Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910.
"Sogno e ironia" (riedizione), Neri Pozza, Venezia 1956.
"Tutte le poesie edite e inedite", Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1971.
Testi
IL CESPUGLIO
A fianco del campo diritto,
in riva al ruscello che canta,
a piè della quercia che freme,
attorto, volubile, fitto
cespuglio spuntò, che non vanta
lavoro di mano, e non seme.
È pieno d'intrichi. Non mai
da roncola tocco, ben crebbe,
si stese, selvatico e forte.
Non ebbe che, liberi, i rai
del sole: la pioggia si bebbe,
la guazza, ne l'albe risorte.
Al sole di marzo, sciogliendo
le nevi, cantava il ruscello
più forte, la quercia stillava.
Allor, rigoglioso, sortendo
sue gemme, il cespuglio più bello,
più florido ridiventava.
Fin quando, in un palpito strano,
dei venti a la dolce carezza,
ai baci del sole, un bel dì,
intanto che fulgido il grano
ancor palpitava a la brezza,
il cespo selvaggio fiorì.
Son piccoli fiori, son lievi
farfalle, son rami trionfali
di lungiparventi colori.
O scricciolo, o cincia che bevi
rugiade, serrando qui l'ali,
discendi fra i piccoli fiori.
Ma piano discendi! Nel folto,
son fibre, son stecche, son piume,
di qualche già inutile nido,
qui appresta il tuo nido raccolto,
securo, a la prole, che, implume,
ti chiama col piccolo grido.
Il vento, che scosse la fronda,
un nembo rapiva di fiori,
di fiori la terra coprì.
Ed una fanciulla gioconda,
l'Aprile cantando e li amori,
il ramo più bello rapì.
Ma ancora, ne l'ombre segrete,
per entro i misteri silenti,
son altri, più vaghi tesori.
Odorano mammole chete,
odoran ciclami pallenti
che niuno raccolse di fuori.
E come superbo rimane
il cespo selvaggio, l'Agosto,
con tutte distese le foglie!
Un lepre vi fa le sue tane,
un piccolo serpe, nascosto
da tutti, si attorce e raccoglie.
Poi, quando le raffiche forti,
che squassan le piante superbe,
il cespo, più umile, sfiorano,
non trema, ma i rami contorti
disfoglia. Nel basso, fra l'erbe,
ancora son fiori che odorano.
(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, pp. 97-99)
FRA LE CENERI
Giacciono, dentro il deserto
camino inutile e spento
gli alari che, nel cinquecento,
foggiava l'artefice esperto
Sotto il possente martello,
nel ferro battuto e rude,
ed attorcea su l'incude,
fregiandoli con lo scalpello.
Deserto il camino, il più vasto
camino del vasto maniero,
dove bruciava un intero
tronco: più nulla è rimasto
Di tutti quei fochi: disparvero,
col fumo e con le scintille,
su per la canna, le mille
fantasmagoriche larve.
Arrugginiti gli alari
che ressero sovra il robusto
asse, il gravissimo fusto
dei roveri secolari:
Che udiron, così da vicino,
le fiabe narrate, la sera,
dal nonno arguto, a l'intera
famiglia, presso il camino.
Che il piede del cacciatore,
fra i mille tizzi dispersi,
le mille volte ha riversi:
che forse l'estremo bagliore
Raccolsero, di qualche segreto
foglio gittato a la fiamma.
Che hanno sentito la mamma
cantare al bimbo inquieto
La nenia monotona e stanca:
languiva la fiamma, e sul tetto
il fumo del caminetto
pareva una nuvola bianca.
Un'altra serena dolcezza
che spegnesi a poco a poco,
questa che, presso il buon fuoco
raccolse più d'una carezza.
O nuova vita che fervi!
O irrefrenabile e triste
sete di nuove conquiste
che ci trascini e ci asservi!
Che, infaticabile assillo,
pungi la nostra ragione,
che spegni la tradizione
del focolare tranquillo,
Perchè non è dato un'ora
scordare la febbre fatale,
e, presso la fiamma che sale,
sognando, assidersi ancora?
E, con le molle lucenti,
riattizzare un buon foco,
fantasticando e, per gioco,
frugare fra i tizzi ardenti?
E intanto il bracco, che annusa,
guarda nel fuoco, distratto,
e, stropicciandosi, il gatto
vi fa d'attorno le fusa?
Il ceppo scricchiola e geme,
e immoti ascoltan gli alari
i brevi crepitii chiari.
Dolcezza e favola insieme.
Dolcezza che più non ritorna;
favola che un giorno i remoti
figli, diranno ai nepoti.
Favola che più non ritorna.
Giacciono freddi gli alari
nel freddo camino riversi,
come gli arredi dispersi
sovra gli inutili altari.
(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, pp. 108-110)
TRACCE DI PIANTO
Hai pianto! fra le ciglia, umida traccia rimane,
fremono ancor le labbra. Perché, mia dolcezza? Rispondi:
quale ombra di tristezza calò sul tuo cuore di rondine?
quale nuovo strazio? e quando? iersera? stanotte? stamane?
Iersera? no! non furono le nostre parole interrotte:
chiaro vibrava il canto limpido ne la tua voce
ti palpitava ardente il cuore e giocondo e veloce...
Né un solo istante piangere ti intesi per tutta la notte.
E avrei voluto udirti! Raccoglierti fra le mie braccia,
il tuo dolore intero chiudere sul petto un momento,
sentir veloci i palpiti unirsi nel ritmo a un lamento,
poi con pie labbra, tergere le lacrime su la tua faccia.
Scorger ne l'ombra il viso disfatto dal pianto: - Perché? -
chiederti dolcemente. E udirti rispondere: - Oh! lascia!
lascia che ancor, la notte, qualche indicibile ambascia
io pianga! E non crucciarti, amore: non piango per te! -
(da "Tutte le poesie edite e inedite", IPL, Milano 1971, p. 328)
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