domenica 29 gennaio 2023

La poesia di Adriano Grande

 

Adriano Grande (Genova 1897 - Roma 1972), così come Giorgio Vigolo e Diego Valeri, è uno dei migliori poeti italiani del Novecento che, per motivi a me sconosciuti, è stato troppo spesso trascurato dai curatori di antologie e dagli editori della nostra penisola. Questi ultimi, in particolare – a parte rare eccezioni – hanno finito per dimenticare il poeta ligure; tant’è vero che, nel giorno in cui pubblico questo post, ancora non esiste un volume che raccolga l’intera opera poetica di Grande. Ricordo, che, nei primi anni dell’ultima decade del XX secolo, lessi alcuni versi di Grande all’interno di un’antologia dove, in verità, si trovavano ben poche pagine dedicategli; ciò mi bastò per “scoprirlo”, ovvero per identificare la sua grandezza; da allora non smisi mai di cercare, negli scaffali delle librerie romane, almeno un libro di versi da lui pubblicato (fosse anche una ristampa); mai mi riuscì di trovarne alcuno. Ora, nella mia biblioteca ci sono sette volumi con le poesie di Grande, che con gli anni acquistai e che vado a leggere e rileggere spesso, poiché ancora oggi la sua poesia mi piace moltissimo.

Per meglio comprendere il fare poetico di Grande, mi pare sia il caso di riportare una sua frase, presente nell’antologia Lirici nuovi (1941), che è anche una dichiarazione di poetica:

 

 «Poetare, infondo, significa sempre affidarsi in qualche modo all’ineffabile, ma con gli strumenti e l’umiltà di un artigiano»

 

Quindi, secondo Grande, la poesia nasce da qualcosa d’indefinibile e d’inesprimibile, e la sua struttura si deve costruire umilmente, così come fa l’artigiano quando crea un oggetto. Questa opinione, si rispecchia in tutto il percorso poetico di Grande: sempre fedele ad una ben definita linea, che non ha mai preso in considerazione mode o tendenze. Certo, anche Grande fu influenzato dai nostri migliori poeti del Novecento e della fine dell’Ottocento, come D’Annunzio, Sbarbaro Novaro, Cardarelli e Montale; senza dubbi può essere facilmente associato alla cosiddetta “Linea ligure”, a cui dedicai un altro post qualche tempo fa, e ciò è evidente soprattutto per il fatto che Grande predilige la descrizione di paesaggi della sua regione natale. Eppure, l’unicità poetica di Grande rimane ben rintracciabile dalla raccolta d’esordio, intitolata Avventure (1927) agli ultimissimi versi che compaiono nell’unica antologia poetica che lo riguardi, pubblicata qualche anno prima della sua scomparsa. Da non dimenticare, infine, che Grande ebbe il merito di fondare e dirigere due riviste letterarie della massima importanza, quali furono Circoli e Maestrale. Chiudo, riportando i titoli di tutte le opere poetiche di Grande, a cui seguono tre fra le sue migliori poesie.

 


Opere poetiche

 

“Avventure”, Edizioni del «Baretti», Torino 1927.

“La tomba verde”, Buratti, Torino 1929.

“Nuvole sul greto”, Edizioni di «Circoli», Genova 1933 (2° ed. 1938).

“Alla pioggia e al sole, Carabba, Lanciano 1935.

“Poesie in Africa”, Vallecchi, Firenze 1938.

“Strada al mare”, Vallecchi, Firenze 1943.

“Fuoco bianco”, Edizioni della Meridiana, Torino 1950.

“Preghiere di primo inverno”, Ubaldini, Roma 1951.

“Canto a due voci”, Maia, Siena 1954.

"Consolazioni", Edizioni del Fuoco, Roma 1955.

“Avventure e preghiere”, Ubaldini, roma 1955.

“Su sponde amiche”, Rebellato, Padova 1958.

“Stagioni a Roma”, Rebellato, Padova 1959.

“Acquivento”, Carpena, Sarzana 1962.

"La tomba verde e Avventure", Mondadori, Milano 1966.

“Poesie (1929-1969)”, Mursia, Milano 1970.

 

 


 

 

Testi


NEL GRETO

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

in me vivente trovare una pace

di tomba: o dove nacque

riconoscere l'onda

del canto.

 

Assai stagioni nel brusio del bosco

l'anima tacque, fonte

di breve corso. Accanto,

fresco di capelvenere, un crepaccio

pauroso l'inghiottiva: umido e verde,

la memoria ne serba il singhiozzare

come un rimorso.

 

Scampo non c'è, violata

esistenza: quel che un tempo

amavi a te ripetere nel fresco

silenzio, si distende

in torbida corrente

che troppo spesso stagna

lungo una frequentata

e rumorosa riva: l'accompagna

la polvere dei greti

che vorresti bagnare e non potrai.

 

Segreti più non hai

per me: su le tue sponde

nessuna minuziosa

e folta meraviglia

di felci e fronde impiglia i miei pensieri,

né delle fratte l'irsuto vigore

il tuo tremare a chi passa nasconde:

solo chi non ha sete

nel fondo del tuo corso può contare

le pietre.

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

tornare al mio geloso

segreto.

All'orlo di un crepaccio

nel mio fuggir le voci di natura

piangerei di vergogna:

ma tornerebbe un'acqua

la vita, trasparente nel silenzio.

 

Una rampogna m'ha sospinto a valle:

ascoltandola ho vinto la paura

ma ho lasciato il mio meglio alle spalle.

Ora vorrei che fosse la mia tomba

quella del mare, solenne: nel rombo

delle tempeste s'odono gridare

presso gli scogli i monti e le foreste.

 

(da "Nuvole sul greto", 2° Edizione, Edizioni di «Circoli», Genova 1938, pp. 35-37)

 

 

 

 

PARADISO PERDUTO

 

O Paradiso, il mio pensier dirupa,

nebbia di falda in falda

riscende,

sol ch'io l'alzi a toccar nella memoria

quella che un tempo, calda di puerile

speranza,

immagine di te mi componevo.

 

Io non so più quel che allora sapevo,

vanamente m'arrampico ai ricordi,

non ho più lena, istante non m'avanza

che la vile esistenza non s'appanni:

cresciuti

ormai già troppo, gli anni

m'affondan nella terra, come pioggia

e vento affondano tra l'erba i sassi.

 

Pure, la terra è bella, or che mi presta

occhi la fanciulletta

mia gaia per guardarla

come di primavera

guardano i fiori che sembran stupire

del tornare dell'alba

dopo la sera.

 

Ed ella, che per vivere s'appoggia

a me quasi alberello a una muraglia,

beve dalle parole di sua madre,

acqua di mattutino

cielo, la meraviglia delle fiabe:

ma dormendo si perde

in strade ove seguirla non possiamo.

 

Destandosi, ritorna a noi più verde

di foglie; e il suo giocare

incessante riprende; e non rivela

il Paradiso che dormendo ha visto:

e il suo segreto rende ancor più triste

il mio segreto.

 

(da "Alla pioggia e al sole", Carbba, Lanciano 1935, pp. 29-31)

 

 

 

 

VILLERECCIA

 

Din don dan delle campane

mentre il sole sui castagni

nella valle dell'infanzia

scende a fiotti.

 

Vetturale, figurina

così viva nel ricordo

coi tuoi schiocchi,

pe' miei occhi

troppo liscia è questa strada

ch'era un tempo polverosa.

 

Tanta pace

ricordata

ora è falsa: fischia il treno,

stride il freno

senza posa sull'asfalto

che al villaggio mi conduce.

 

Din don dan delle campane

nel mio viaggio

di ritorno,

nella luce che trapela

dai castagni dell'infanzia,

solo il musco

lungo i viottoli gentili

cheto accoglie come al tempo

ch'io ti vidi, o vetturale,

la giornata.

 

1948

 

(da "Acquivento", Carpena, Sarzana 1962, pp. 72-73)

 

 

 

 

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