Adriano Grande (Genova 1897
- Roma 1972), così come Giorgio Vigolo e Diego Valeri, è uno dei migliori poeti italiani del Novecento che, per motivi a me sconosciuti, è stato troppo spesso
trascurato dai curatori di antologie e dagli editori della nostra penisola.
Questi ultimi, in particolare – a parte rare eccezioni – hanno finito per
dimenticare il poeta ligure; tant’è vero che, nel giorno in cui pubblico questo
post, ancora non esiste un volume che raccolga l’intera opera poetica di
Grande. Ricordo, che, nei primi anni dell’ultima decade del XX secolo, lessi
alcuni versi di Grande all’interno di un’antologia dove, in verità, si
trovavano ben poche pagine dedicategli; ciò mi bastò per “scoprirlo”, ovvero
per identificare la sua grandezza; da allora non smisi mai di cercare, negli
scaffali delle librerie romane, almeno un libro di versi da lui pubblicato
(fosse anche una ristampa); mai mi riuscì di trovarne alcuno. Ora, nella mia biblioteca ci sono sette volumi con
le poesie di Grande, che con gli anni acquistai e che vado a leggere e rileggere
spesso, poiché ancora oggi la sua poesia mi piace moltissimo.
Per meglio comprendere il
fare poetico di Grande, mi pare sia il caso di riportare una sua frase, presente
nell’antologia Lirici nuovi (1941),
che è anche una dichiarazione di poetica:
«Poetare, infondo, significa sempre affidarsi
in qualche modo all’ineffabile, ma con gli strumenti e l’umiltà di un
artigiano»
Quindi, secondo Grande, la
poesia nasce da qualcosa d’indefinibile e d’inesprimibile, e la sua struttura
si deve costruire umilmente, così come fa l’artigiano quando crea un oggetto.
Questa opinione, si rispecchia in tutto il percorso poetico di Grande: sempre
fedele ad una ben definita linea, che non ha mai preso in considerazione mode o
tendenze. Certo, anche Grande fu influenzato dai nostri migliori poeti del
Novecento e della fine dell’Ottocento, come D’Annunzio, Sbarbaro Novaro,
Cardarelli e Montale; senza dubbi può essere facilmente associato alla
cosiddetta “Linea ligure”, a cui dedicai un altro post qualche tempo fa, e ciò
è evidente soprattutto per il fatto che Grande predilige la descrizione di
paesaggi della sua regione natale. Eppure, l’unicità poetica di Grande rimane
ben rintracciabile dalla raccolta d’esordio, intitolata Avventure (1927) agli ultimissimi versi che compaiono nell’unica
antologia poetica che lo riguardi, pubblicata qualche anno prima della sua
scomparsa. Da non dimenticare, infine, che Grande ebbe il merito di fondare e
dirigere due riviste letterarie della massima importanza, quali furono Circoli e Maestrale. Chiudo, riportando i titoli di tutte le opere poetiche
di Grande, a cui seguono tre fra le sue migliori poesie.
Opere poetiche
“Avventure”, Edizioni del
«Baretti», Torino 1927.
“La tomba verde”, Buratti,
Torino 1929.
“Nuvole sul greto”,
Edizioni di «Circoli», Genova 1933 (2° ed. 1938).
“Alla pioggia e al sole,
Carabba, Lanciano 1935.
“Poesie in Africa”,
Vallecchi, Firenze 1938.
“Strada al mare”,
Vallecchi, Firenze 1943.
“Fuoco bianco”, Edizioni
della Meridiana, Torino 1950.
“Preghiere di primo
inverno”, Ubaldini, Roma 1951.
“Canto a due voci”, Maia,
Siena 1954.
"Consolazioni", Edizioni del Fuoco, Roma 1955.
“Avventure e preghiere”,
Ubaldini, roma 1955.
“Su sponde amiche”,
Rebellato, Padova 1958.
“Stagioni a Roma”,
Rebellato, Padova 1959.
“Acquivento”, Carpena,
Sarzana 1962.
"La tomba verde e Avventure", Mondadori, Milano 1966.
“Poesie (1929-1969)”, Mursia, Milano 1970.
NEL GRETO
Ombra vorrei su me di
piante e d'erbe,
in me vivente trovare una
pace
di tomba: o dove nacque
riconoscere l'onda
del canto.
Assai stagioni nel brusio
del bosco
l'anima tacque, fonte
di breve corso. Accanto,
fresco di capelvenere, un crepaccio
pauroso l'inghiottiva:
umido e verde,
la memoria ne serba il
singhiozzare
come un rimorso.
Scampo non c'è, violata
esistenza: quel che un
tempo
amavi a te ripetere nel
fresco
silenzio, si distende
in torbida corrente
che troppo spesso stagna
lungo una frequentata
e rumorosa riva:
l'accompagna
la polvere dei greti
che vorresti bagnare e non
potrai.
Segreti più non hai
per me: su le tue sponde
nessuna minuziosa
e folta meraviglia
di felci e fronde impiglia
i miei pensieri,
né delle fratte l'irsuto
vigore
il tuo tremare a chi passa
nasconde:
solo chi non ha sete
nel fondo del tuo corso può
contare
le pietre.
Ombra vorrei su me di
piante e d'erbe,
tornare al mio geloso
segreto.
All'orlo di un crepaccio
nel mio fuggir le voci di
natura
piangerei di vergogna:
ma tornerebbe un'acqua
la vita, trasparente nel
silenzio.
Una rampogna m'ha sospinto
a valle:
ascoltandola ho vinto la
paura
ma ho lasciato il mio
meglio alle spalle.
Ora vorrei che fosse la mia
tomba
quella del mare, solenne:
nel rombo
delle tempeste s'odono
gridare
presso gli scogli i monti e
le foreste.
(da "Nuvole sul greto", 2° Edizione, Edizioni di «Circoli», Genova 1938, pp. 35-37)
PARADISO PERDUTO
O Paradiso, il mio pensier
dirupa,
nebbia di falda in falda
riscende,
sol ch'io l'alzi a toccar
nella memoria
quella che un tempo, calda
di puerile
speranza,
immagine di te mi
componevo.
Io non so più quel che
allora sapevo,
vanamente m'arrampico ai
ricordi,
non ho più lena, istante
non m'avanza
che la vile esistenza non
s'appanni:
cresciuti
ormai già troppo, gli anni
m'affondan nella terra,
come pioggia
e vento affondano tra
l'erba i sassi.
Pure, la terra è bella, or
che mi presta
occhi la fanciulletta
mia gaia per guardarla
come di primavera
guardano i fiori che
sembran stupire
del tornare dell'alba
dopo la sera.
Ed ella, che per vivere
s'appoggia
a me quasi alberello a una
muraglia,
beve dalle parole di sua
madre,
acqua di mattutino
cielo, la meraviglia delle
fiabe:
ma dormendo si perde
in strade ove seguirla non
possiamo.
Destandosi, ritorna a noi
più verde
di foglie; e il suo giocare
incessante riprende; e non
rivela
il Paradiso che dormendo ha
visto:
e il suo segreto rende
ancor più triste
il mio segreto.
(da "Alla pioggia e al sole", Carbba, Lanciano 1935, pp. 29-31)
VILLERECCIA
Din don dan delle campane
mentre il sole sui castagni
nella valle dell'infanzia
scende a fiotti.
Vetturale, figurina
così viva nel ricordo
coi tuoi schiocchi,
pe' miei occhi
troppo liscia è questa
strada
ch'era un tempo polverosa.
Tanta pace
ricordata
ora è falsa: fischia il
treno,
stride il freno
senza posa sull'asfalto
che al villaggio mi
conduce.
Din don dan delle campane
nel mio viaggio
di ritorno,
nella luce che trapela
dai castagni dell'infanzia,
solo il musco
lungo i viottoli gentili
cheto accoglie come al
tempo
ch'io ti vidi, o vetturale,
la giornata.
1948
(da "Acquivento",
Carpena, Sarzana 1962, pp. 72-73)
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