La pazzia è un
argomento un po’ trascurato dai poeti simbolisti e decadenti italiani; fa
eccezione Sergio Corazzini, che non fa mancare, nelle sue prime raccoltine di
versi, almeno una poesia in cui si parli di follia; questa può nascere in un
giovane fortemente innamorato, che non riesce ad elaborare la perdita della
ragazza morta prematuramente; può essere altresì rappresentata da un sagrestano
che decide di suicidarsi all’interno di una chiesa; e può infine esplicitarsi
in un soliloquio di un uomo disperato e solo, che si confessa e si racconta,
rivolgendosi al cielo che riflette le prime luci dell’alba. Nei versi di Gian
Pietro Lucini (un frammento tratto dal poema La Cantata dell’Alba), in un ambientazione quattrocentesca, il
personaggio detto “Pazzo”, interpreta la voce della coscienza, che svela i
bassi intenti di chi si vuol definire innamorato; nello stesso tempo, ammonisce
i protagonisti della vicenda, e li invita a ricordare l’estrema precarietà
della vita umana. In Demenza di
Umberto Saffiotti, un uomo che sta sul bordo di una fontana in cui si
trovano delle sirene di marmo, ha la certezza che una di esse si animi,
fremendo al contatto delle gocce d’acqua che le cadono addosso dalla fontana; e,
anche lui fremente, le bacia il petto e a sua volta viene baciato dalla statua.
In Sintesi, Tito Marrone parla di una
simbolica e sinistra “reggia della follia”, dove personaggi a loro volta
simbolici – presi dal mondo delle maschere e della leggenda – si sfrenano in
danze di ogni tipo, mentre fuori, muti stanno a guardare esseri umani ridotti
in miseria. In Il pazzo di Federico
De Maria, si parla di un luogo misterioso, in cui visse qualcuno che non c’è
più, e che ha lasciato, in chi lo ha conosciuto vivendo a sua volta in quel
luogo, dei ricordi inquietanti. Guido Ruberti in Nevrastenia, rivolgendosi ad una non precisata amica, la invita ad
abbandonarlo al suo triste destino di demente e di futuro suicida. Francesco
Scaglione infine, in Le litanie dei pazzi,
fa parlare i malati di mente che si trovano all’interno di un manicomio, e che
confidano ad un enigmatico signore vestito sempre di nero che si aggira nelle
stanze del luogo di cura, di non essere affatto pazzi.
Poesie sull’argomento
Sergio Corazzini:
"Follie" in "Dolcezze" (1904).
Sergio Corazzini:
"La chiesa venne riconsacrata..." in "L'amaro calice"
(1905).
Sergio Corazzini:
"Dai «Soliloqui di un pazzo»" in "Le aureole" (1905).
Federico De Maria:
"Il pazzo" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Corrado Govoni
"Occhi della follia" in "Gli aborti" (1907).
Gian Pietro Lucini:
"Il Pazzo (cantando e suonando)" in "Il Libro delle Figurazioni
Ideali" (1894).
Tito Marrone:
"Sintesi" in «Le scimmie e lo specchio», 1946.
Guido Ruberti:
"Nevrastenia" in "Le Evocazioni" (1909).
Umberto Saffiotti:
"Demenza" in "Le Fontane" (1902).
Francesco Scaglione: "Le litanie dei pazzi" in "Le litanie" (1911).
Testi
LA CHIESA VENNE
RICONSACRATA...
di Sergio Corazzini
Il sagrestano pazzo
traversò la chiesa
oscura,
lentamente, con il
mazzo
delle chiavi appeso
alla cintura.
I frati, ne le
piccole celle,
dicono le orazioni
de la sera, poi,
quando le stelle
prima de l’Ave Maria
stanno su le cose
terrene,
ogni monaco viene
al suo piccolo letto,
nitido come un
altare,
e accende il
luminetto
a la Vergine Maria,
che non fa che
lagrimare
perché ha sette spade
in core
che le dànno acerba
doglia,
sempre acerba e
sempre lenta!
Poi ognuno si
spoglia,
e ognuno s’addormenta
nella pace del
Signore.
L’acquasantiera di
bronzo, tonda,
sembra un occhio lagrimoso
che il suo pianto
silenzioso
a stille su le fronti
de gli uomini diffonda.
I confessionali, con
le loro
tendine verdi un po'
sciupate,
con le piccole grate
gialle che ne l’ombra
sembrano d’oro,
sonnecchiano
allineati,
ognuno con le sue due
candele
spente ai lati.
Sono essi, alveari
ove ronzino, api, i peccati,
e l’assoluzione sia
miele?
Un rosario di
granatine
a i piedi del
Crocifisso morente
sembra sangue
gocciato lentamente
dalla fronte coronata
di spine.
Un piccolo libro
delle
Massime Eterne fu
dimenticato
sopra una sedia,
aperto.
È logoro. Certo,
è d’una delle solite
beghine
che vengono la sera.
Fra le pagine c’è un
Santo:
san Giovanni
decollato;
dietro il Santo, una
preghiera.
Il libro dimenticato
aperto, è l’unica
bocca che parli
nella chiesa
silenziosa,
è l’unico occhio che
veda,
nella chiesa oscura,
la morte della
creatura.
Il sagrestano recise
la grossa
corda per cui pendeva
davanti la figura
di Cristo, la lampada
rossa
con la sua fiamma
quieta e pura.
La lampada cadde con
sorda
percossa su le pietre
sepolcrali;
l’uomo con tre moti
uguali
girò intorno al collo
la corda
e penzolò nel vuoto.
Davanti il Crocifisso
sembrò un macabro
voto
improvvisamente sorto
fra il Cielo e
l’Abisso.
Poi che la lampada non
c’era più
biancheggiò d’avanti
Gesù,
piamente la cotta del
sagrestano morto.
(da "L'amaro calice", 1905)
IL PAZZO
di Federico De Maria
Son già passati molti
anni
ch'egli fu qui: e da
allora
nessuno è più
ritornato
fra queste mura — ma
ancora
vi resta come il
sentore
della vita sua senza
affanni,
senza gioia e senza
dolore.
Qui riman tutto
adesso
immutato, come ai
suoi dì.
Ogni cosa mi parla di
lui.
Mi si rivela sempre
qualche nuovo
tratto dell'anima
sua:
e lo riconosco così
lucidamente che ne ò
quasi terrore.
Talor mi domando se
fui
in que' giorni qui, a
viverci io stesso,
a vivere della sua
vitia.
Mi affaccio per la
finestra
al giardino, chiuso
lontano
da i monti, ed a poco
a poco
mi sento prendere dal
suo pensiero,
con qualche
ricordanza sbiadita
di sensazioni
passate...
Tutto è gigante nel
piano
arboreo: — le rame
assumono
fantastiche apparenze
vive
con enormi occhi di
fuoco...
I monti nudi ed
azzurri
s' allontanan, ma
appaion più grandi.
prendon forne
sensitive,
quasi il dormente
scheletro d'un antico mostro orrendo.
Nell'aria passan
susurri
ignoti, che
intendo...
Mi affaccio sopra la
strada.
E le case son tutto
un presepe
infantile... i
veicoli enormi
tirati da enormi
animali
portan degli esseri
informi
e minuscoli a cui il
mio pensiero non bada...
E tutto fugge lungo
ampi viali
infiniti... Guardo il
mio letto,
ed è immenso come uno
sgomento...
Il mio bicchiere io
non oso
toccarlo, perché nel
suo cavo
racchiude un
invisibile mondo...
Io solo non vivo: io
mi sento
lieve lieve, come una
intelligenza
incorporea, sospesa
nel vuoto
dell'aere profondo...
E innanzi mi riddano,
senza
posa, con stravagante
malìa,
quattro parole
scheletriche, che
nereggian scritte in
fondo
a un armadio (da lui
? da me ?)
— parole d'un senso
terribile e ignoto:
«TUTTO FINIRÀ PER
ANEMIA»
(da "La leggenda
della vita", 1909)
Emile Wauters, "Madness of Hugo van der Goes"
(da questa pagina web)
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