lunedì 26 luglio 2021

La pietà

 

Mio Dio, se tu veramente

fossi per noi come un padre,

se il Dio che mia madre

chiamava buono e clemente,

se invece di esser l’eterna

vicenda di quello che è,

tu fossi per noi come un re

che benignamente governa,

quale io t’immagino ancora

a volte, con semplicità,

vorrei domandarti pietà

per tutto ciò che dolora:

per l’anima mia che si sente

a un tempo grande ed inane:

umile innanzi ad un cane,

superba innanzi al saccente;

per gli uomini cupi e corrosi,

provati da tutte le prove;

pei poveri senza ricovero

che chiedono un po’ di elemosina;

per la donna a cui nello specchio

il segno del tempo già appare;

per chi deve ancor lavorare

essendo già stanco e già vecchio;

pel piccolo insetto modesto

che s’affanna e che non si vede

e ch’io, camminando, col piede

inconsciamente calpesto;

per tutte le anime buone

di cui s’ignorano i nomi;

per gli asini senza diplomi

che soffrono sotto il bastone;

per gli uomini a cui non somigli,

perché sono gobbi o storpiati;

pei ciechi; per gl’impiegati

che mettono al mondo dei figli:

per tutto ciò che si offre

all’offesa senza difesa;

pel male che non si palesa

da chi n’è colpito e ne soffre!

Per tanto eterno soffrire,

mio Dio, ti chiedo pietà:

ma più ti chiedo pietà

per me, che non so piú soffrire!

 

Stanchezza di questi miei

giorni ch’io vivo a ogni costo!

Un poco d’aria al mio posto

ed io non esisterei.

Per chi vive, chi non esiste

è come se stesse nascosto:

un altro gli occupa il posto

vuotandogli il calice triste.

Il calice: poiché la vita

è come una mensa imbandita,

su cui, da perfetto villano,

il prossimo è lesto di mano.

A volte però gli va male:

il dolce è un impasto di sale,

e un servo bizzarro, il Destino,

gli ha reso imbevibile il vino:

ma l’uomo per ciò non s’arresta,

finché un giramento di testa

lo smemora da tutti i mali

fra il gaudio dei commensali.

La storia un po’ matta e un po’ seria

ha questa morale: miseria.

 

L’uomo era un po’ di materia

che nulla vedeva e sentiva:

un soffio improvviso l’avviva

ed eccoti l’Uomo-Miseria:

s’abbranca - il perché non lo sa -

a un lembo rotondo d’ignoto,

e via che parte nel vuoto

a tutta velocità:

il tempo di dire: - Son qui -

senza capir ciò che dice

e di gridar ch’è infelice...

poi, zitto. Tutto finì.

Stupore di me, senza fine!

Io stesso che vedo e che sento

mi trovo in quel dato momento

che sta tra il principio e la fine!

Mio Dio, se tu mi prometti

di esistere veramente,

ti prego d’esser clemente

con tutti noi poveretti;

ma se per caso ti sbrachi

per noi d’un gran riso beffardo,

usaci questo riguardo:

di crederci tutti ubriachi.

 



 

La pietà è il titolo del settimo capitolo del poemetto Il giorno, di Carlo Vallini (Milano 1885 - ivi 1920). Tale poemetto fu pubblicato in un esiguo volume dall'editore Streglio di Torino nel 1907. Lo stesso, entrò a far parte, con il resto delle poesie di Vallini, nel volume Un giorno e altre poesie, pubblicato da Einaudi in Torino nel 1969. Infine, nel 2010 il poemetto è stato di nuovo stampato nel libro Un giorno e La rinunzia, uscito grazie all'editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Io ebbi modo di leggere quest'opera poetica interessantissima, all'interno dell'antologia Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, Milano 1983); qui, fortunatamente, viene riportata per intero (La pietà si trova alla pagina 652 e seguenti, come dimostra anche la foto sopra). Devo dire che mi piacque immediatamente, e la ritengo tutt'ora uno dei risultati più significativi e affascinanti della poesia crepuscolare. Questo capitolo - come del resto quasi tutti gli altri - di Un giorno, è direttamente collegato con quello che lo precede; dopo aver parlato dell'amore in modo disincantato, il poeta si rivolge a Dio da non credente (e quindi il tutto appare una farsa), chiedendogli di avere un senso di pietà per gli esseri viventi che provano dolore; da qui Vallini cita una serie di categorie - umane e non - che per qualche motivo soffrono (e una volta di più vengono fuori dei versi estremamente ironici), per giungere ad un discorso esclusivamente personale, che rivela una stanchezza di vivere giunta ormai al colmo. Poi, Vallini esterna altre considerazioni che hanno a che vedere con l'assurdità della vita e con un giudizio impietoso verso l'umanità intera, descritta in questo caso come è, senza alcun velo pietoso. Qui, come in altri punti del poemetto, emerge il pessimismo, se non il nichilismo del poeta piemontese: modus operandi che proseguirà in forma ancor più palese in alcune famose liriche dell'amico Guido Gozzano. Nella parte finale di questo capitolo, ritorna di nuovo quell'ironia amara che aveva caratterizzato l'inizio dello stesso, e che è alla base di questo poemetto indimenticabile. Veramente un peccato che, dopo Un giorno, Vallini non pubblicò più nulla, a parte qualche rara poesia su riviste dell'epoca; infine, a causa delle gravi ferite riportate durante la Grande Guerra, morì a soli trentacinque anni.

 

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