Mio Dio, se tu
veramente
fossi per noi
come un padre,
se il Dio che mia
madre
chiamava buono e
clemente,
se invece di
esser l’eterna
vicenda di quello
che è,
tu fossi per noi
come un re
che benignamente
governa,
quale io
t’immagino ancora
a volte, con
semplicità,
vorrei domandarti
pietà
per tutto ciò che
dolora:
per l’anima mia
che si sente
a un tempo grande
ed inane:
umile innanzi ad
un cane,
superba innanzi
al saccente;
per gli uomini
cupi e corrosi,
provati da tutte
le prove;
pei poveri senza
ricovero
che chiedono un
po’ di elemosina;
per la donna a
cui nello specchio
il segno del
tempo già appare;
per chi deve
ancor lavorare
essendo già stanco
e già vecchio;
pel piccolo
insetto modesto
che s’affanna e
che non si vede
e ch’io,
camminando, col piede
inconsciamente
calpesto;
per tutte le
anime buone
di cui s’ignorano
i nomi;
per gli asini
senza diplomi
che soffrono
sotto il bastone;
per gli uomini a
cui non somigli,
perché sono gobbi
o storpiati;
pei ciechi; per
gl’impiegati
che mettono al
mondo dei figli:
per tutto ciò che
si offre
all’offesa senza
difesa;
pel male che non
si palesa
da chi n’è
colpito e ne soffre!
Per tanto eterno
soffrire,
mio Dio, ti
chiedo pietà:
ma più ti chiedo
pietà
per me, che non
so piú soffrire!
Stanchezza di
questi miei
giorni ch’io vivo
a ogni costo!
Un poco d’aria al
mio posto
ed io non
esisterei.
Per chi vive, chi
non esiste
è come se stesse
nascosto:
un altro gli
occupa il posto
vuotandogli il
calice triste.
Il calice: poiché
la vita
è come una mensa
imbandita,
su cui, da
perfetto villano,
il prossimo è
lesto di mano.
A volte però gli
va male:
il dolce è un
impasto di sale,
e un servo
bizzarro, il Destino,
gli ha reso
imbevibile il vino:
ma l’uomo per ciò
non s’arresta,
finché un
giramento di testa
lo smemora da
tutti i mali
fra il gaudio dei
commensali.
La storia un po’
matta e un po’ seria
ha questa morale:
miseria.
L’uomo era un po’
di materia
che nulla vedeva
e sentiva:
un soffio
improvviso l’avviva
ed eccoti
l’Uomo-Miseria:
s’abbranca - il
perché non lo sa -
a un lembo
rotondo d’ignoto,
e via che parte
nel vuoto
a tutta velocità:
il tempo di dire:
- Son qui -
senza capir ciò
che dice
e di gridar ch’è
infelice...
poi, zitto. Tutto
finì.
Stupore di me,
senza fine!
Io stesso che
vedo e che sento
mi trovo in quel
dato momento
che sta tra il
principio e la fine!
Mio Dio, se tu mi
prometti
di esistere
veramente,
ti prego d’esser
clemente
con tutti noi
poveretti;
ma se per caso ti
sbrachi
per noi d’un gran
riso beffardo,
usaci questo
riguardo:
di crederci tutti
ubriachi.
La pietà è il titolo del settimo capitolo del poemetto Il giorno, di Carlo Vallini (Milano 1885
- ivi 1920). Tale poemetto fu pubblicato in un esiguo volume dall'editore
Streglio di Torino nel 1907. Lo stesso, entrò a far parte, con il resto delle
poesie di Vallini, nel volume Un giorno e
altre poesie, pubblicato da Einaudi in Torino nel 1969. Infine, nel 2010 il
poemetto è stato di nuovo stampato nel libro Un giorno e La rinunzia, uscito grazie all'editore San Marco dei
Giustiniani di Genova. Io ebbi modo di leggere quest'opera poetica
interessantissima, all'interno dell'antologia Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, Milano 1983); qui,
fortunatamente, viene riportata per intero (La
pietà si trova alla pagina 652 e seguenti, come dimostra anche la foto
sopra). Devo dire che mi piacque immediatamente, e la ritengo tutt'ora uno dei
risultati più significativi e affascinanti della poesia crepuscolare. Questo
capitolo - come del resto quasi tutti gli altri - di Un giorno, è direttamente collegato con quello che lo precede; dopo
aver parlato dell'amore in modo disincantato, il poeta si rivolge a Dio da non
credente (e quindi il tutto appare una farsa), chiedendogli di avere un senso
di pietà per gli esseri viventi che provano dolore; da qui Vallini cita una
serie di categorie - umane e non - che per qualche motivo soffrono (e una volta
di più vengono fuori dei versi estremamente ironici), per giungere ad un
discorso esclusivamente personale, che rivela una stanchezza di vivere giunta
ormai al colmo. Poi, Vallini esterna altre considerazioni che hanno a che
vedere con l'assurdità della vita e con un giudizio impietoso verso l'umanità
intera, descritta in questo caso come è, senza alcun velo pietoso. Qui, come in
altri punti del poemetto, emerge il pessimismo, se non il nichilismo del poeta
piemontese: modus operandi che
proseguirà in forma ancor più palese in alcune famose liriche dell'amico Guido
Gozzano. Nella parte finale di questo capitolo, ritorna di nuovo quell'ironia
amara che aveva caratterizzato l'inizio dello stesso, e che è alla base di
questo poemetto indimenticabile. Veramente un peccato che, dopo Un giorno,
Vallini non pubblicò più nulla, a parte qualche rara poesia su riviste
dell'epoca; infine, a causa delle gravi ferite riportate durante la Grande
Guerra, morì a soli trentacinque anni.
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