Il terzo volume
di versi pubblicato dallo scrittore Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943), s'intitola Primavere del desiderio e dell'oblio;
uscito nel 1903 presso l'editore Lattes di Torino, il libro, di 220 pagine,
contiene complessivamente 60 poesie, e si pone sulla scia del precedente Il convegno dei cipressi, che comparve
nove anni prima, e che fece certamente clamore, anche se oggi si può affermare
che sia stato completamente obliato. Come già avevo detto parlando, appunto
della sua opera poetica precedente (e più importante), il Giorgieri Contri fu
uno dei primi poeti a trasferire in Italia
le suadenti atmosfere presenti nei versi di alcuni poeti tardo-simbolisti, come
i belgi Georges Rodenbach e Maurice Maeterlinck, o come i francesi Jules
Lafourge e Francis Jammes; se è vero che nell'ultimo decennio del XIX secolo,
da noi, poesie del genere rappresentavano una assoluta e interessante novità, è
altrettanto vero che, all'inizio del Novecento, questa strada era già stata
percorsa da parecchie voci poetiche nostrane, e il fatto che Giorgieri Contri
riproponesse, seppur con qualche variante, le identiche tematiche, non destava
certamente molto entusiasmo da parte dei lettori e dei critici. Personalmente
però, malgrado la sua poesia risulti spesso ripetitiva, rimango affascinato
anche da questa come dalle successive opere poetiche dello scrittore toscano,
soprattutto perché gli riconosco una rara capacità nella descrizione di stati d'animo
e di paesaggi melanconici, che, come già accennato, diverranno i temi
principali di diversi poeti crepuscolari già attivi in quel preciso anno.
Chiudo riportando, come è mio solito, un paio di poesie tra quelle che ritengo
le migliori di questa raccolta poetica, estratte da una riedizione anastatica
del libro, piuttosto recente.
BIANCA
PASSEGGIATRICE
I.
«Autunno spegne li ultimi rossori»
Autunno spegne li
ultimi rossori:
i viali che
seppero la state
taciono ora tra
lor siepi sfrondate
cui già Settembre
vendemiò di fiori.
La terra un odor
vago esala. Pare
come un odore di
disfacimento:
anche esala un
vapore umido e lento
che dilegua e
ritoma. Il piano è un mare.
Mar senza rive,
senza flutti; oblìo.
Nuvole or sì or
no passan lontano
sul mare irremeabile
del piano
e il lor
passaggio è come un lento addio.
Nereggian pini
tra 'l pallor delli orti,
soli. Nel mar del
piano qualche punta
par testimoni
un'isola defunta,
i morti alberi di
vascelli morti.
Mai non vedemmo
desolazione
più soave e più
triste. Una infinita
quietudine senza
ombra di vita
sta sulle cose e
in calma le compone:
una stanchezza
tacita corrose
questa fine
d'Autunno, in terra e in cielo:
il piano è un
mare, il cielo è un velo. E velo
e mar copron di
sé tutte le cose.
II.
«Mai non vedemmo così calmo il giorno»
Mai non vedemmo
così calmo il giorno
scender sui neri
culmini delli orti;
sembra un vel che
si adagii; un vel di morti
sogni che Autunno
ne diffonda intorno.
Or chi sei tu?
Per questi orti, tra bussi
cupi procedi.
Anche sei morta. Torni
tu dalla
solitudine di giorni
antichi, e con la
man tremula bussi
ecco alle porte
del mio cuor. Le porte
del mio cuore si
aprono. Sorella
di dolore, che
vuoi? Chi mi favella
così, con voce
che velò la Morte?
Povera cara
Giovinezza! Io
già ti vidi in
questi orti, or non è grande
tempo: e cingevi
allor di tue ghirlande
l'Erme del luogo
e i sogni del cuor mio.
Or le ghirlande
di quel tempo sono
vizze. Tu movi in
bianca veste ancora
ma verso un'urna
mortuale. È l'ora
questa per te de
l'ultimo abbandono.
III.
«Ed ella cerca la sua tomba muta»
Ed ella cerca la
sua tomba muta
in qualche
solitudine remota
del parco: e sia
quella sua tomba ignota
a tutti, nella
gran selva perduta.
Sia la sua tomba
sotto i vecchi pini
che videro la
bianca adolescente
ebra di qualche
suo sogno innocente
ivi sostare a'
ceruli mattini;
che videro la
donna omai già schiva,
omai disciolta
d'ogni illusione,
ghirlandar l'Erme
d'aride corone
come una mortuale
ara votiva.
Ed ella dorma in
quello che compose
sonno al suo sogno
la pineta nera:
e non oda cantar
di primavera
nidi sui rami: e
rifiorir le rose
ella non veda.
Ella è stanca di tante
imagini di bene e
di promessa
ella che camminò
sempre lungh'essa
un'onda triste a
piagge aride errante.
Ella che seppe
tutto il pianto umano
e ne raccolse con
tacita calma
l'amarissimo
flutto entro la palma,
come in un'urna,
della bianca mano.
Altro non pensa
ella, altro non chiede,
che dormire alla
gran selva custode:
ove nessun romore
ode: e non ode
che crosciar pine
omai sotto il suo piede;
ove anche il
Giorno è come un passeggero
tacito che non
osa indugiare,
e la Notte e
profonda come un mare
d'ombra: un mar
d'ombra sopra un cimitero.
(da
"Primavere del desiderio e dell'oblio", Bibliolife, Charleston 2010,
pp. 37-41)
AMORI DEFUNTI
Defunti amori che
siete
come un aroma
soavi;
e come un incubo
gravi
sull'anima vi
assidete:
amori defunti,
cose
morte in sentieri
già corsi,
vigili come
rimorsi,
come rimpianti
pensose;
donne cui seguì
nell'ombra
amara la mia
gioventù
— questa io già
guardo laggiù
svanir nella
notte ingombra;
amori, non tutti
forse io
vi rivedrò,
quando muoia,
crescendo
l'ultima gioia
accanto
all'ultimo oblìo?
Presso ad entrar
nel silenzio
ove non sonan
parole
ai campi che non
viole
ma odora il fior de
l'assenzio,
presso a mescer
la mia
polve alla
polvere immensa
che infaticabile
adensa
il Tempo
sull'umana via;
sentirò io sulla
faccia
una carezza
passare,
una fragranza di
care
labbra, di tepide
braccia,
teneramente, come
in vita forse non
era
e un fiato di
Primavera
respirerò tra le
chiome?
Ah ma fra tutte,
non forse
una più d'altre
leggera,
— chioma che
forse fu nera,
man che fu
bianca, forse —
io sentirò? Sarà
quella
che non conobbi,
che amai
senza trovarla,
né mai
cercarla: come
sorella
ignota; quella
raggiante
forma di donna,
che all'ore
in cui si
annuncia l'amore
rise nel cuor de
l'infante:
quella per cui
m'era caro
slanciarmi verso
la vita,
per cui di averla
compita
meno sarebbemi
amaro.
(da
"Primavere del desiderio e dell'oblio", Bibliolife, Charleston 2010,
pp. 101-103)
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