Talor, mentre
cammino per le strade
della città
tumultuosa solo,
mi dimentico il
mio destino d'essere
uomo tra gli
altri, e, come smemorato,
anzi tratto fuor
di me stesso, guardo
la gente con
aperti estranei occhi.
M'occupa allora
un puerile, un vago
senso di
sofferenza e d'ansietà
come per mano che
mi opprima il cuore.
Fronti calve di
vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi,
facce consuete
di nati a
faticare e a riprodursi,
facce volpine
stupide beate,
facce ambigue di
preti, pitturate
facce di
meretrici, entro il cervello
mi s'imprimono
dolorosamente.
E conosco
l'inganno pel qual vivono,
il dolore che
mise quella piega
sul loro labbro,
le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità
della lor vita
amara e il lor
destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di
loro porta seco
la condanna
d'esistere: ma vanno
dimentichi di ciò
e di tutto, ognuno
occupato
dall'attimo che passa,
distratto dal suo
vizio prediletto.
Provo un disagio
simile a chi veda
inseguire
farfalle lungo l'orlo
d'un precipizio,
od una compagnia
di strani
condannati sorridenti.
E se poco ciò
dura, io veramente
in quell'attimo
dentro m'impauro
a vedere che gli
uomini son tanti.
Questa poesia di
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967) fu pubblicata per
la prima volta nel volumetto intitolato Pianissimo,
edito dalla Liberia della Voce in Firenze nel 1914. Io l'ho trascritta dal
volume L'opera in versi e in prosa
(Garzanti, Milano 1995), che contiene quasi tutti gli scritti pubblicati dal
poeta ligure.
In questi
eccezionali versi, si ha una descrizione pressoché perfetta dell'alienazione
umana che si verifica nelle grandi città; così come fece, a suo tempo, Charles
Baudelaire, Sbarbaro osserva se stesso e la folla, forse durante una
passeggiata per le strade cittadine, e medita sul suo sentirsi completamente
estraneo a quelle anime che incrocia e che popolano lo stesso luogo dove vive;
è conscio della sua solitudine e della sua enorme distanza dagli altri esseri
umani, i quali sembrano stati creati come degli oggetti o dei robot:
programmati per fare determinante cose, per provare determinati sentimenti e
per concludere la loro esistenza senza aver lasciato una traccia qualsiasi che
possa accertare il loro passaggio sul pianeta. In sostanza il poeta, osservando
la marea umana che gli si pone davanti agli occhi, con tutte le sfaccettature e
le differenze che la compongono, giunge ad un giudizio impietoso sul
significato della vita: totalmente priva di senso e monotona, piena di
sofferenza e di speranze disilluse, con un'apoteosi che si riassume nel nulla:
come se, tutti quegli esseri, alla fine non siano mai nati e vissuti. Di questo
nichilismo, evidentemente riscontrato, Sbarbaro rimane spaventato, anche se
ammette che il suo disagio, fatto di dolore morale e di ansietà, ha breve
durata, poiché, comunque sia, l'istinto della vita che va avanti prende il
sopravvento, come afferma anche in un'altra bellissima poesia che fa parte
della medesima raccolta, e che si conclude con questi versi: Ed aspetto così, senza pensiero / e senza
desiderio, che di nuovo / per la vicenda eterna delle cose / la volontà di
vivere ritorni.
Nessun commento:
Posta un commento