giovedì 17 ottobre 2019

Talor, mentre cammino per le strade


Talor, mentre cammino per le strade
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d'essere
uomo tra gli altri, e, come smemorato,
anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.

M'occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d'ansietà
come per mano che mi opprima il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s'imprimono dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il buio.

Ché ciascuno di loro porta seco
la condanna d'esistere: ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall'attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.

Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l'orlo
d'un precipizio, od una compagnia
di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
in quell'attimo dentro m'impauro
a vedere che gli uomini son tanti.





Questa poesia di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967) fu pubblicata per la prima volta nel volumetto intitolato Pianissimo, edito dalla Liberia della Voce in Firenze nel 1914. Io l'ho trascritta dal volume L'opera in versi e in prosa (Garzanti, Milano 1995), che contiene quasi tutti gli scritti pubblicati dal poeta ligure.
In questi eccezionali versi, si ha una descrizione pressoché perfetta dell'alienazione umana che si verifica nelle grandi città; così come fece, a suo tempo, Charles Baudelaire, Sbarbaro osserva se stesso e la folla, forse durante una passeggiata per le strade cittadine, e medita sul suo sentirsi completamente estraneo a quelle anime che incrocia e che popolano lo stesso luogo dove vive; è conscio della sua solitudine e della sua enorme distanza dagli altri esseri umani, i quali sembrano stati creati come degli oggetti o dei robot: programmati per fare determinante cose, per provare determinati sentimenti e per concludere la loro esistenza senza aver lasciato una traccia qualsiasi che possa accertare il loro passaggio sul pianeta. In sostanza il poeta, osservando la marea umana che gli si pone davanti agli occhi, con tutte le sfaccettature e le differenze che la compongono, giunge ad un giudizio impietoso sul significato della vita: totalmente priva di senso e monotona, piena di sofferenza e di speranze disilluse, con un'apoteosi che si riassume nel nulla: come se, tutti quegli esseri, alla fine non siano mai nati e vissuti. Di questo nichilismo, evidentemente riscontrato, Sbarbaro rimane spaventato, anche se ammette che il suo disagio, fatto di dolore morale e di ansietà, ha breve durata, poiché, comunque sia, l'istinto della vita che va avanti prende il sopravvento, come afferma anche in un'altra bellissima poesia che fa parte della medesima raccolta, e che si conclude con questi versi: Ed aspetto così, senza pensiero / e senza desiderio, che di nuovo / per la vicenda eterna delle cose / la volontà di vivere ritorni.

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