C'è, in parecchie
di queste diciassette poesie, molta originalità; la festa del Natale non è
descritta coi soliti versi e con le solite nostalgie (a parte Giorgieri Contri
e Moretti). La Aganoor, per cominciare, ci dice che in questo giorno dell'anno
i vinti trovano la loro unica vittoria grazie a tramiti occulti e a tracce
segrete, riuscendo a sconfiggere l'infallibile Sapere. La nascita del Cristo, insomma, è ancora ben presente tra
gli ultimi della terra, malgrado l'avanzare del progresso scientifico abbia
fatto scomparire un gran bel numero di sogni e d'illusioni. Bella anche, nella
poesia di Garsia, l'immagine del navigante che, in un tempo lontanissimo, avvilito dall'impossibilità di
continuare il suo viaggio, si rianima al suono delle campane che annunciano il
Natale e inaugura il primo ceppo
bruciandolo su un'ara di sabbia. C'è, poi, Graf che si ritrova (non si sa come
né perché) durante la notte di Natale, all'interno di una folta e gelida selva;
qui, vagando, scopre la presenza di un
povero abituro, in cui, sopra un lettuccio, c'è un bambino appena morto che
è vegliato dalla madre e dal padre doloranti. Superfluo aggiungere che questa
visione, paragonandola all'immagine di Gesù bambino con Maria e Giuseppe
accanto, ha un significato decisamente negativo: la scomparsa della divinità è,
di conseguenza, anche quella del bene. Non distante dal Graf, Rocchi si
rammarica dei secoli che sono passati dalla nascita di Gesù, senza che vi sia
stato un cambiamento tale da poter affermare che il sacrificio del Cristo sia
stato utile; per tale motivo quella che era una sicura fede, ormai somiglia ad un fuoco agonizzante. Pressoché
indecifrabile è la lirica di Angelo Toscano, che parla di fremebondi cavalieri erranti; il loro misterioso viaggio però, come
si evince leggendo gli ultimi versi, non risulterà vano, avverandosi quel Sogno d'amor al quale agognavano. Non
facile decrittare anche la poesia di Valsecchi: quel gregge che, dapprima
impossibilitato al ritorno all'ovile a causa di una forte nevicata, viene
soccorso da un naviglio, il quale, anche in difficoltà, alla fine, affonda
coinvolgendo nel naufragio tutti i poveri agnelli; certamente può rappresentare
una visione fosca del presente e soprattutto del futuro, interpretandola come
descrizione del naufragio dell'innocenza, della mansuetudine e della bontà (e
il tutto avviene proprio nella notte di Natale). Si potrebbe poi parlare di
certo realismo rintracciabile nelle poesie di Oliva e di Govoni e di altro
ancora... ma il discorso risulterebbe, ormai, troppo noioso.
ANCÓRA IL NATALE
di Vittoria
Aganoor (1855-1910)
E venne il
Sapere: e all' esilio
dannò creature
dal serto
di stelle. In
celesti dominii
divelse,
schiantò; fu il deserto.
Ma quando, al suo
fine, con infule
solenni il
decembre si benda,
e a noi le
campane ricantano
la loro divina
leggenda,
ritornano i
vinti, per tramiti
occulti, per
tracce segrete
di sogni, e il
Sapere discacciano
con fragili rami
d'abete.
(da "Poesie
complete", Le Monnier, Firenze 1912)
LA CASA
di Ettore
Botteghi (1874-1900)
Natale. Oh ch'io
non torni alla mia bella
casa dove sognai
canti beati
e azzurri vasti e
mari interminati,
calmi come i tuoi
grandi occhi, sorella.
Oggi, candida
casa, era una festa
tra le tue mura:
i bimbi erano buoni.
Cristo che nasci,
Cristo che perdoni,
quanto splendore
su la bionda testa!
Oh ch'io non
torni a la mia casa mai,
oh ch'io non
senta un infantil vociare!
O casa piena di
memorie care,
io piango, io
piango; tu sorriderai.
Voi che ci siete,
o miei bimbi, gioite:
io sono pieno di
mestizia al cuore.
O Gesù Cristo,
che diffondi Amore,
quante gioie dal
mio cuore svanite!
(da
"Poesie", Valenti, Pisa 1902)
ALLA NUTRICE
di Gabriele
D'Annunzio (1863-1938)
Gelida sta la
notte cristiana
su le case degli
uomini, ma pura.
– O tu che ne la
casa tua lontana
fili con dita
provvide la lana
de la tua
greggia, sin che l'olio dura
ne la lucerna, e
il ceppo a tratti splende,
Nutrice, da cui
bevvi la mia vita
prima, ne le cui
braccia ebbi il sopore
primo!, se da la
tua bocca appassita
riudissi io quel
canto e le tue dita
vedessi, ove
s'attenua il bianco fiore
dei velli, e il
fuso pendulo che scende,
e la fronte
rugosa che s'inchina
incoronata di
capelli bianchi,
ove la semplice
anima indovina
si rivela talor
quasi divinamente
in un raggio, e i
tuoi cavi occhi stanchi
ove qualche
favilla pur s'accende,
io forse
piangerei ancora un pianto
salùbre e forse
ancora dal profondo
mi sorgerebbe
qualche antico e santo
affetto, e mi
parrebbe nel tuo canto
ritrovar
l'innocenza di quel biondo
pargolo; – e
lungi queste cose orrende!
E tutta la
freschezza del tuo latte
ne le mie vene! –
Una natività
novella, in un
candor di nevi intatte. –
E tutta la
freschezza del tuo latte
ne le mie vene, e
tutta la bontà
dei cieli; – e
lungi queste cose orrende,
lungi sempre da
l'anima rinata
e del candor
natale circonfusa!
Una immensa
bianchezza immacolata,
una forma d'amore
angelicata,
e per tutto
l'imagine diffusa
d'un Bene Sommo
che quivi s'attende! –
Ma tu, che ne la
casa tua lontana
torci il fuso,
non sai la mia ventura.
Fili con dita provvide
la lana
de la tua
greggia; ne sai la mia vana
tristezza, in
quest'azzurra notte pura.
Tu torci il fuso,
e il ceppo a tratti splende.
E fili, e fili
sin che l'olio dura,
Nutrice; e morta
la mammella pende.
(da "Poema
paradisiaco", Treves, Milano 1893)
AGNUS DEI (PASQUA
DI NATALE)
di Giovanni
Diotallevi (1862-1930)
È mezzanotte.
Passa a l'improvviso
pel buio folto un
din don dan festivo
che par che venga
giù dal Paradiso,
bucando l'ombre
come un raggio vivo.
Spunta nei sogni
immemori un sorriso;
e la letizia d'un
atteso arrivo
passa sul mondo -
Sopra tutto il piano
le campane
sorprese avanti giorno
fremon di gioia:
suonan di lontano:
è un clamore per
tutto quel contorno:
e par che tremi
un gran giubilo umano
ne la romba che
oscilla quindi in torno.
Quando s'acqueta
l'aria mescolata
una pecora a
lungo a lungo bela
con un gemer di
femina prostrata.
Poi che la voce
flebile rivela,
seguendo de la
madre la chiamata,
va un pastore nel
gregge, che si leva:
e prende su le
braccia l'agnellino
che trema ne
l'oscurità glaciale
e manda dei
vagiti di bambino.
Bela la madre al
gemito filiale:
vedon dal buio il
simbolo divino
le vigilanti stelle....
Ecco, è Natale!
(da "La
spiritual primavera", Tip. Sallustiana, Roma 1898)
NATALE
di Augusto Garsia
(1889-1956)
Sul mare il cielo
si velò di noia.
E il navigante
nello sguardo verde,
dalle mute
apparenze consumato,
conobbe lo
sconforto di chi perde
la mèta in sé,
lontana: chiuse il gelo
d'una follia di
vuoto, or che l'anelo
cuore più non
sperò, né gli fu grato
l'attendere
oltre, che dava la gioia.
Sul mare il cielo
si velò di noia.
Il navigante,
folle, sulla rena,
(cimitero del
mondo!) ecco il battello
dare alla fiamma
e il battello alla piena
fiamma, fumando,
abbandonar lo snello
scafo... Ma in
cima agli alberi campane,
nel ciel campane,
come da lontane
plaghe di sogno,
contrade di gioia...
Dal cielo, allora
s'involò la noia.
In quei guizzi di
fiamma si rinchiuse
pel navigante
l'infinito mare.
Tra le campane
«Amare è rinunciare»,
allora il folle
un canto suo conchiuse.
Fu quello il
primo ceppo di Natale
e l'ara fu di
sabbia. Questo vale
ricordare, se in
cielo e in mare è noia.
[da "Poesie
(1921-1925)", Giusti, Livorno 1926]
LE RONDO' DE NOÈL
di Eugenio Gara
(1888-1985)
Spiove da i tetti
rossi un biancore nivale.
Sul cavallo dei
sogni giunge il vecchio Natale.
Per ora, vecchio
mio,
ti do un
avvertimento:
metterò fuori la
mia calza anch'io.
Cos'è? Non sei
contento?
Via, non tenermi
il broncio,
decrepito Natale;
non è poi un gran
male
chiederti un bel
pugnale,
o un'erba
velenosa,
o pure un'altra
cosa
che non faccia
soffrire,
ma che faccia
morire!
Perché lo sai,
ch'io sono condannato:
inesorabilnente
condannato.
Ma forse tu hai
raione, vecchio mio:
sono io,
son io che
sbaglio grossolanamente:
quello ch'ora ti
chiedo,
tu me l'hai già
mandato:
non ho
dimenticato
che, in un giorno
lontano,
la tua provvida
mano,
che mi nega il
veleno ed il pugnale,
mi ha elargito
l'amore!
Io non ti sono
grato
del cambio sai,
Natale,
perché l'amore mi
ha
per sempre
attossicato.
Ed è perciò ch'io
sono condannato:
inesorabilmente
condannato.
Cos'è, caro
vecchione:
di questa mia
caozone?
Ho capito: hai
paura di tardare.
Suvvia, non ci
pensare;
resterà senpre
tempo per gettare
dagli spenti
camini
balocchi pei
bambini
e illusioni pei
grandi!
Senti: tu che sei
tanto compiacente,
vuoi farmelo un
favore?
Sì, bene:
prendi dunque il
mio cuore,
e quando giungi a
quella ch'è lontana,
tra una bambola
bionda ed un soldino,
gettalo ne la
calza.
Vedrai, vedrai
che alzandosi
resterà un po'
sorpresa.
Addio, Natale
mio, scusami sai,
se ti ho un poco
annoiato:
tutti adesso mi
scusano,
perché sono
ammalato.
L'anno venturo
poi me la dirai,
ne Ia dirai,
nevvero,
la sorpresa di
quella che non m'ama!
Cos'è?... Trovi
pesante
il mio povero
cuore?
E pure è così
piccolo;
ma pesa tanto
tanto il mio dolore!
........................................
Sul cavallo de i
sogni è partito il Natale.
Spiove da i tetti
rossi un biancore nivale.
(da "La
canzone del salice", Tip. Morano, Napoli 1910)
UN NATALE
di Cosimo
Giorgieri Contri (1870-1943)
Penso un Natale
della fanciullezza:
per che virtù
dall'ombre dissepolto?
Vedo tra i cari
visi uno più molto
caro: una mano a
carezzarmi avvezza.
Dove, in qual
colle, i bei rami d'ulivo
del presepio
ricrebbero? Mi pare
ch'io li rivedo
penduli sul mare
da lor clivi
nativi. Il clivo è vivo
nel mio pensiero,
come le persone
di quel tempo e
le cose e le parole:
un ricordo così
pieno di sole
che l'alta loggia
se ne fa corone.
Sol di decembre
sul mare velato:
un angelico mar
come d'argento:
treman li agrumi
nei giardini, al vento,
l'aroma ha il
ritmo tepido d'un fiato.
Quel giorno è
morto: come li altri è morto
e ancor sul colle
ondeggiano li ulivi,
e ancor li agrumi
odorano, nei vivi
soffi del vento,
in questo orto, in quell'orto:
ancora il sole di
decembre tepe
sull'angelico
mare: e in mente ancora
il dolce viso mi
si ricolora,
mi riodora
l'antico presèpe.
(da
"Primavere del desiderio e dell'oblio", Lattes, Torino 1903)
IL NATALE DEI
RIMASTI
di Corrado Govoni
(1884-1965)
Sono rimasti
nell’ospizio
solo quattro
ricoverati,
e stanno nel
salone qua e là pei banchi.
Sul davanzale,
nell’interstizio
gli ultimi
crisantemi malati
sfogliano i loro
petali in brividi bianchi.
Ed il sole per la
tendina smorta
sfarfalla la sua
luce chiara
simile a un lungo
gesto commiativo.
Mentre che nel
giardino ad una porta
picchia il vento
odorato d’una fanfara
che passeggia per
un bastione verde ulivo.
I vecchi vestono
di rancia tela
(oh come triste
così illuminata dal sole!)
e in capo tengono
un berretto oscuro.
Il pomeriggio
ammaina la vela
nella prossimità
delle sinuose gole
del porto della
notte già d’ombra maturo.
Uno d’essi
s’appoggia a la stufa insistente
tentando di
ridare al sangue quel vigore
che non à.
Un altro pensa
amaramente
che dopo morte
sulla sua tomba un fiore
nessuno porterà.
(da "Fuochi
d'artifizio", Ganguzza Lajosa, Palermo 1905)
NELLA SELVA
di Arturo Graf
(1848-1913)
S’apre la selva:
nel gelato e greve
Aere si drizzan
l’arbori stecchite;
Copre l’arbori e
il suol, candida e mite,
La fioritura
della sparsa neve.
Uno spicchio
sottil di luna stanca
Alto risplende
nel forbito cielo;
Una luce dïafana
di gelo
Empie la scena
assiderata e bianca.
È la notte in cui
nacque il redentore,
La santa notte di
Natale è questa:
Oh, che letizia
in terra! oh, che tempesta,
Dio redentor, nel
mio povero core!
Sotto l’alba
lunar pallida e muta
Non suona voce,
né fuscel si move:
Io vado e vado
senza saper dove,
Io vado come una
bestia perduta.
Ed ecco, a un
tratto, in mezzo alla radaja,
Mi si discopre un
povero abituro:
Splende nella
discreta ombra del muro
Una finestra
piccioletta e gaja.
Splende la
finestretta solitaria
D’una tranquilla
chiarità gioconda;
Lenta di fumo
cinericcio un’onda
Sale dal negro
fumajol nell’aria.
Ahimè, d’invidia
e di dolor nel petto
Pungermi il core
a quella vista io sento;
E penso: oh, che
quiete, oh, che contento
Si deve accôr
sotto quell’umil tetto!
Come la punta
d’un acuto dardo
Sento che il cor
mi lacera e trapassa:
Alla finestra
piccioletta e bassa
M’accosto, salgo
sur un ceppo e guardo.
Una stanzuccia
imbiancata di corto,
Con un largo
camino e un desco a fianco;
E lì nel mezzo,
entro un lettuccio bianco,
Fra quattro ceri,
un bambinello morto.
Siede il padre, e
con volto allucinato,
Con un par
d’occhi invetrïati e spenti,
Guarda nel
focolare i tizzi ardenti,
Guarda il fumo
che s’alza avviluppato.
Presso il
lettuccio, con la voce mozza,
Col viso tra le
palme e il crin disciolto,
Stracca, buttata
giù come un involto,
La madre geme, la
madre singhiozza.
(da "Dopo il
tramonto", Treves, Milano 1893)
LA NATIVITÀ
di Marino Marin (1860-1951)
Come tenere carni
che alimenti
una soave onda di
latte sano,
vengono fine e
morbide pian piano
su, a' primi
freddi, l'erbe frumenti:
sono le dolci
figlie del buon grano,
le nunzie del
Messia. Foglie stridenti,
che sparsero fra
i solchi i crudi venti,
vita: Gesù nasce
e rigermoglia il piano.
Sentite (aride
foglie, non v'incresca)
come picchian lì
sotto i piccioletti
germi? È la vita
nova, è l'erba fresca:
A quando a
quando, un sorsellin che umetti
quest'erba, e
sole, il mite sole; e a l'esca
trarranno ghiotti
i papperi e i galletti.
(da "Voci
lontane", Barboni, Castrocaro 1898)
NOTTE DI NATALE
di Marino Moretti
(1885-1979)
Ardon gli astri
nell'ombra e le campane
si rispondono
querule e sonore;
ed una voce
piange in fondo al cuore
per desiderio di
cose lontane.
Oh avere adesso
in questa santa festa
notturna che di
buon incenso tepe
una piccola valle
di presepe,
anche di cera,
anche di cartapesta!
Aver adesso tutto
un paesaggio
di Terrasanta coi
laghi di vetro,
e le casette col
lumino dietro
e la stella che,
in alto, fa viaggio...
Ed ascoltar con
l'anima che sogna
la musica
improvvisa che s'aduna
semplicemente,
dietro un soffio, in una
esiliata anima di
zampogna,
mentre ardon gli
astri e piangon le campane
e le finestre
sono tanti lumi...
(O dolce cuore
perché ti consumi
in desideri di
cose lontane?)
Cantano le
campane, ardono gli astri,
piangono i cuori,
e l'anima rivede
le cose belle
dell'antica fede
odorate di bacche
e di mentastri;
rivede i luoghi
dell'età migliore,
i luoghi
dell'infanzia più remota,
e il giocattolo
che sfiora la gota
siccome sfiora un
desiderio il cuore...
Rivede un guardo
fiso e un dolce labro
che s'apre e gaio
sorrisetto intento
dinanzi ai ceri e
ai fronzoli d'argento
ch'ornano i rami
del virgulto scabro.
Giocattoli!
Giocattoli ! Oh la chiara
stanza dove una
mano frettolosa
e occulta preparò
la bella cosa,
la bella cosa che
or non più prepara!
Ma non forse i
giocattoli risogna
l'anima stanca in
questa ora notturna
in cui la vita
umana è taciturna
come la sua più
tacita menzogna:
non i
giocattoletti abili e industri
che ànno virtù
segrete e gesti e pose
e nomi come noi,
ma quelle cose
piccole, quei
piccoli oggetti lustri,
Quelle piccole
sfere di cristallo,
o tremule
d'argento, quelle stelle
di talco ardente
come i ceri, quelle
piccole zone
d'oro e di metallo...
Ardono gli astri,
cantan le campane,
salgon le nebbie
pallide dai fiumi...
O dolce cuore,
perché ti consumi
in desideri di
cose lontane?
(da "Poesie
di tutti i giorni", Ricciardi, Napoli 1911)
NATALE
di Domenico Oliva
(1860-1917)
Or la grande
città tutta s'adagia
A spaventosa
tavola felice:
Son discese le
tenebre: la nebbia
Folta si spande
per le strade e regna.
V'è un immane
silenzio: il viatore
Tardo ha paura
del deserto e affretta
Il passo e suona
lugubre, beffarda
La via. Natal,
Natale!
Un organetto sol
frange il silenzio
E pei terrori
taciturni lancia
Il più gaio
motivo: è una balzana
Furia di note: è
suon di danza: è un folle
Invito: è una
bestemmia: è un acre insulto
Alle gioie
santissime dell'ora,
Al sentimento
mistico di questo
Giorno. Natal,
Natale!
E mentre tutti
sono buoni e obliano
Le sventure e le
colpe e i giorni bui
E le miserie e
l'increscioso monito
Che talvolta lo
spirito inquieto
A noi sussurra e
le figure spente
Son lungi, lungi,
lungi, una mondana
Voce sui lieti
discende siccome
Sferza. Natal,
Natale!
E le memorie quel
motivo desta
E i rancori e gli
sdegni e i velenosi
Baci - e le
febbri dell'amor fugaci
E le care
fanciulle abbandonate
E l'ore infami e
i tradimenti e il vago
Vano profilo di
persona morta
Sotto la neve e
sotto il fango sola,
Sola. - Natal,
Natale!
(dalla rivista «La
Domenica Letteraria», gennaio 1896)
O CELIA MIA, È
PROSSIMO IL NATALE
di Romolo
Quaglino (1871-1938)
O Celia mia, è
Prossimo il Natale
e i bimbi
attendon le gioiose strenne,
un ordigno
Marconi erto di antenne
giganti ed il
velivolo ideale.
Essi infelici, a
cui l'età fatale
spira questa di
audacie ansia perenne;
io ne I'arco di
tua grazia trentenne
placo ogni fiamma
del mio cuor mortale.
E, vecchio bimbo,
chiedo una tranquilla
vita fluente a
te, Celia, vicino,
tra il mare e i
lauri de l'antica rocca,
e mi sia ciel la
tua glauca pupilla,
e soffio a' voli
fulgidi il divino
sonante riso di
tua rosea bocca.
(da "I sonetti
a Celia", Sandron, Palermo 1911)
NOTTURNO DI
NATALE
di Francesco
Rocchi (1879-1914)
Veglian sanguigne
rutilanti faci
sul candor de le
nevi immacolate;
gittano pertinaci
larve di fuoco
alate
nei solchi
impressi tortuosamente.
Ma nell'aperto
più serenamente
il ghiaccio
transparente
si tempra al riso
de le nuove stelle,
e crepita; sì
come alle più belle
notti di maggio
le pie fontanelle
garriscono con
voce d'usignuoli.
Diciannove compié
rapidi voli
l'ifaticabil ala
secolare,
da quando trasser
sotto l'algid'orsa,
affrettando la
corsa
gli attoniti
pastori, a salutare
il nuovo nato: e
diciannove soli
tramontarono
sopra l'infinita
opera de la vita,
arridendo a le
cento ore passate.
Oh triste voluttà
de le memorie!
quanta sicura
fede,
quanti bagliori
d'obliate glorie
senza degna
mercede
vanir, come le
fiamme disperate
che vacillano
ancora,
e saran spente
anzi la prima aurora.
(da
"Nubila", Zanichelli, Bologna 1901)
CAMPANE
di Teresah
(1877-1964)
Campane, campane
nella notte di
Natale
chi v'ode non sa
più quale
musica ascolta,
campane.
V'ode alcuno che,
smarrito
in un sogno di
dolore,
à dimenticato il
cielo
né sa più quale
infinito
parla, quale
amore
in voi, musiche
del cielo.
Pur v'ode cantare
nell'anima e
s'addormenta
ebro di un sogno
lucente:
non sa quale :
suscitare
dall'anima antica
spenta
forse un'infanzia
lucente?
Campane, campane
nella notte di
Natale...
Ecco, sogna non
sa più quale
dolcezza e
piange, campane.
(da "Nova
lyrica", Roux e Viarengo, Torino 1904)
FANTASIA DI
NATALE
di Angelo Toscano
(1879-1908)
1.
E vanno e vanno,
come geni arditi,
del Sogno i
fremebondi cavalieri:
transvolano le
nevi ampie i corsieri,
sfioran gli spazi
ondosi - erranti miti.
Questi han ne
l'occhio un torvo lume, e quelli
hanno un baglior
di fervide conquiste,
e vanno e vanno
sulla notte triste
vertiginosi
démoni ribelli.
Un ricamo di rose
Aurora, e diede
la gloria il Sol
di un suo nimbo fiammante,
la selva un forte
conclamar di nidi,
diêder l'aquile -
invano - aerei gridi:
torna lieve passâr
- che nulla chiede -
gettando all'aria
un clàssico sonante.
2.
Che dice il vento
in lor chiome effuse?
che canta ogni
astro in sua musica lene?
geni frementi
sotto eburne clene
quali dà il Tutto
a lor voci confuse?
Dal patulo
orizzonte fulge un'iri
settemplice al
viaggio eterno ardito,
quell'arduo volo
dentro l'Infinito
germina un
balenar d'incanti miri.
E vanno e
vanno... Largo o nubi, o stelle,
largo de' monti o
nevicato orrore,
largo de' venti o
folla tempestosa,
giunge di spirti
un nugolo ribelle
clama l'insonne
schiera luminosa
passa l'alito
indocile di Amore.
3.
Dove sono i
corsieri? A quale estremo
cielo guidâr la
corsa irrefrenata?
atomi tra un
chiaror di luce aurata
migraron dietro
il Sogno, alto, supremo.
Ed un candido
abisso occulto, o un seno
vasto il mar
sonante or li ricetta,
o all'infinito
limpido gli aspetta
- lieto riposo -
un astro ermo sereno!
Ma se l'ombra
allumò fascino breve,
se orma ignota
varcò sterili zolle,
non sarà vano il
mistico viaggio;
ecco, spuntan già
floride corolle
corre un fremir
di vita, ecco, la neve
dietro il Sogno
di Amor: puro miraggio.
(da "Il
libro dei venti anni", Toscano, Messina 1900)
LA NEVE DI NATALE
di Fausto
Valsecchi (1891-1914)
Ora nevicherà.
Sento l’odore
della neve
sospesa nelle stanche
nuvole grigie. E
intorno, uno stupore
di cose che fra
breve saran bianche.
L’ora ch’io vivo
è livida d’attesa.
Una gregge passa,
passa lentamente.
L’odore della
neve ch’è sospesa
sul mondo sembra
quella della mente:
lo stesso odore
che le nari agghiaccia,
facendo lacrimare
gli occhi stanchi.
Giunge il gregge
all’ovile e s’accovaccia,
con gli occhi
d’oro sotto i cigli bianchi.
Un altro gregge
passa. Ora la neve
incomincia a
cadere sugli agnelli.
Io guardo e penso
a una carezza lieve
di mani che
svaniscono sui velli.
Cade la neve. No,
non cade: scende.
È alata. Atterra
senza farsi male.
Non s’ode. Io
guardo e penso alle leggende...
C’è in terra
steso un cielo pastorale.
Gli agnelli
andando ne hanno calpestata
la via, così che
tutto s’imbruna.
E sul pallore
della nevicata
la sera cala come
nella luna.
L’ombra è sul
gregge, che ha atterrato il muso,
ed in candidi
petali si sfoglia.
O giungere così,
subito, al chiuso
che ha una
lampada accesa sulla soglia!
Laggiù in fondo
brillare vagamente
la veggo come in
una fiaba truce,
dove l’abisso
s’apre, fra la gente
che il buio
incalza, e il luogo della luce.
Gli agnelli hanno
raggiunto una corrente.
Fra il gregge ed
il suo ovile l’acqua scorre:
- la neve cade
sempre - lo si sente
belare, ma
nessuno lo soccorre.
Come può il cuore
reggere allo strazio?
Il lago è senza
fine e senza fondo.
Lascio errare lo
sguardo nello spazio.
Dimentico di
vivere sul mondo.
Fin che un
naviglio in grembo al gregge, lieve
come un gran
cigno, attratto dai belati,
approda, sosta, e
poi riparte, greve
di quei poveri
agnelli entro serrati.
Ed io lo guardo
andarsene. Dai fianchi
tutti i musi
sporgono per bere.
Il gregge soffre.
E i remi sono stanchi
di tuffarsi nelle
acque quasi nere.
Il lago è senza
fine, è senza fondo.
Io penso (perchè
penso?) a un naufragio.
Dimentico di
vivere sul mondo.
E il gregge
affonda adagio, adagio, adagio.
(da "Versi e
novelle", Bartolozzi, Lecco 1966)
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