In questi giorni si è
commemorato in Roma il poeta decadente Sergio Corazzini.
Domenico Oliva -
compiendo un atto di riparazione postuma alla trascuranza di cui aveva purtroppo
circondato i volumetti non venali che il giovane scrittore gli aveva inviato -
ha tenuto d'innanzi ad un uditorio folto di poeti e di artisti una conferenza,
dalla quale è balzata degnamente la figura del cantore morto ventenne, rapito a
pochi fratelli di sogno e d'ideale, non ancora baciato da quel raggio di
gloria, che si vuol oggi far credere fosse già spuntato su l'orizzonte di sua
vita.
Non mai creatura
umana amò l'umiltà del silenzio come questo solitario adolescente; benché con
pochi giovani, in un cenacolo ormai disperso da una intempestiva raffica di
morte, gli fui fratello nella buona e mala fortuna, e lo seguii con trepidanza
tormentosa durante il suo male indomabile e lo vidi spegnersi e vegliai con
pochi intimi, in una triste notte di giugno dello scorso anno, la sua spoglia
mortale, sono stato profondamente turbato d'innanzi all'onda di ammirazione che
comincia a crescere intorno al povero
poeta sentimentale, al desolato poeta che amava, teneramente, come un
fanciullo, gli angeli dipinti sulle vetrate delle cattedrali, la desolata
malinconia delle canzonette napoletane, la serena pace dei chiostri solinghi,
dove l'anima sua pareva potesse conciliarsi col desiderio d'oblio e di
solitudine.
Io lo conobbi, or è
due anni, quando entrai a far parte della redazione di Cronache latine, rivista ultra-decadente e rivoluzionaria, per un
poemetto che non vide mai la luce, poiché l'effemeride tra il dileggio e
l'ironia della terza sala d'Argano, la più mirabile fucina di maldicenza
letteraria d'Italia, morì al terzo numero, uccisa da un sonetto wagneriano di
Donatel Zarlatti, che sin d'allora rivelava quelle tendenze che l'han condotto
qualche mese fa al manicomio.
Morì la rivista, ma i
collaboratori che avevano preferito, piuttosto che dare alle stampe un terzo
numero, concedersi in barba agli abbonati un pranzo luculliano innaffiato di Champagne, con relativa scarozzata
notturna per i quartieri più silenziosi della vecchia Roma, i collaboratori
serbarono immutati tra di loro i vincoli di amicizia e di fraternità!
Si era un gruppo di
giovani, armati di entusiasmo e di ironia, irriverenti verso i vecchi,
convintissimi di possedere un grande valore e di essere destinati a un grande
avvenire, (i superstiti non sono per nulla cambiati) disdegnosi del facile
plauso, se non altro persone di ottimo gusto che stimarono più colui che sa
ideare una bella lirica di chi commerciando in generi diversi possa aspirare al
non commendevole titolo di Re dei Latticini.
Sergio Corazzini
pareva il più mite fra di noi; era indubbiamente il più buono, ma anche il più
ironico. Chi ebbe agio di avvicinarlo, ricorderà i suoi implacabili motti di
spirito, il suo riso canzonatore che non dispiaceva perché non si velava mai
d'alcuna nube di malvagità, ma che si manteneva, sul suo labro, specie negli
ultimi tempi persistente e immutabile.
Impiegato presso una
compagnia d'Assicurazioni, egli passava i suoi lunghi giorni, chiuso in una
piccola stanza cieca di finestra, perennemente illuminata da una lampada a luce
elettrica, ed era riuscito a introdurre, come scrivano, un suo intimo amico -
letterato egentissimus, - in
compagnia del quale cercava di rendere a se stesso meno gravi e tormentose le
ore d'ufficio.
La sera,
immancabilmente, ci si trovava da Argano, donde in folta comitiva si partiva
per lunghe passeggiate, peregrinando per le località più strane e deserte di
Roma: i dintorni del Foro, S. Saba, l'isola di S. Bartolomeo. Di domenica
Sergio diveniva irreperibile; non c'era caso che lo si potesse indurre ad
assistere ad una conferenza o ad un concerto: era il suo giorno di libertà
completa ed egli, come un rosignolo che si fosse liberato dalla prigionia della
gabbia, aveva bisogno irresistibile di luce, di sole, d'aria.
Si recava al Castello
di Costantino o a qualche trattoria di campagna solo, quando gli amici non
volevano accompagnarlo, e lì si abbandonava a godersi la sua domenica, come uno
scolare, sino a che la sera non l'avesse nuovamente condotto alla Città
terribile, dove in strisce esigue di turchino il cielo sorride ai poeti e ai
sognatori.
Il suo ultimo libro
credo sia nato da questi ritorni, e da questa nostalgia profonda d'azzurro.
Imberbe, pallidissimo
perché già da qualche tempo il suo gracile organismo era minato dal male che
poi lo condusse alla morte, accurato nell'eleganza del vestire, egli
impersonava perfettamente i caratteri della sua poesia d'eccezione; nel suo
sguardo, nella sua voce, nei suoi atteggiamenti si riconosceva il povero poeta
sentimentale, colui che aveva sentito turbarsi dal profondo dell'anima la sua
vena schietta e ingenua e trasformarsi il suo riso di fanciullo meravigliato in
un triste sorriso di morente.
Scomparve con la fine
dell'autunno dal cerchio degli amici: gli rimanemmo fedeli pochissimi, quelli
che non fecero soggiacere il sentimento di amicizia e di fraternità al timore
del contagio.
Un inverno
dolorosissimo scorse sulla vita del poeta: egli celò ai fratelli e ai genitori
le sue sofferenze, quanto più gli fu possibile; tentò di illudere la sua povera
mamma non accusando che in parole larvate tutta la desolazione della sua
giovinezza soccombente; la sua anima parve divenire più fanciulla, si
riconciliò con la serenità perfetta: la morte gli sorrise come una sorella
attesa.
Tre cerei altissimi
in una stanza nuda, una piccola veilleuse,
compagna e consolatrice delle lunghe notti di tormento, uno scaffale ricco di
libri rilegati elegantemente, e sul letto, colmo di gigli, il cadavere del
Poeta, ravvolto in un lenzuolo bianco.
Quattro amici, nel
silenzio della casa, vegliarono il feretro: Antonello Caprino, Gino Calza,
Alberto Tarchiani ed io: quattro ignoti fratelli d'un fratello ignoto, cui è
stato necessario morire, perché la gloria che tributano gli uomini comuni, si
accorgesse del suo canto e del suo pianto!
C. G. Viola
(da «Tribuna
Pugliese, 20 giugno 1908»)
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